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Autore: ElenaNJ    19/02/2010    2 recensioni
Un giorno, qualcuno gli aveva detto che il cuore umano era come un giardino in cui i legami ed i sentimenti erano fiori e piante da coltivare con cura perchè fiorissero rigogliosi, rendendolo bello e ricco. L'amore era l'acqua e la serenità dell'animo il concime, mentre al contrario l'odio era un veleno e la sete di vendetta un fuoco che gli avrebbero prosciugato l'anima, che l’avrebbero bruciata e consumata fino a quando, sul terreno ormai sterile e attraverso lo spesso strato di cenere dei suoi sentimenti perduti, non sarebbe mai più germogliato nulla.
Forse quella persona aveva ragione. Forse lui era veramente arrivato a quel punto e il suo cuore era ormai un deserto.

Sanshiro Kurenai ha finalmente trovato l'uomo con un occhio solo ed ha compiuto la sua vendetta... ma qual è stato il prezzo da pagare?
One Shot su Judo Boy, di sicuro non una pietra miliare del mondo dell'animazione né un gioiello di originalità a livello di trama.
Due cose, però, mi sono rimaste nel cuore: la spelendida sigla ed il tema della vendetta intorno al quale ruotavano le vicende (decisamente più leggere che in questo testo) del protagonista. La serie non è mai stata terminata, ma chissà perchè ho sempre immaginato un finale triste.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Judo Boy, Judo Boy, il tuo dolore ti ha accecato,
Judo Boy, Judo Boy, non diventare come lui…

Kurenai. Rosso.
Sanshiro pensò che quel colore doveva essere legato al suo destino.
Kurenai. Rosso.
Rosso, come la giacca del suo kimono, l'ultimo ricordo che ormai aveva di sua madre.
A volte la rammentava ancora, una donna minuta intenta a cucire mentre canticchiava sottovoce seduta al tavolo in giardino, un lieve sorriso ad illuminare un volto i cui contorni si facevano sempre più sfocati col passare degli anni... proprio come il colore di quella giacca, sempre più lisa e ormai costellata di miriadi di macchie che non sarebbero più venute via.
Rosso, come il sole della mattina in cui, disperato, aveva stretto a sé suo padre, l'unico parente che gli restasse al mondo, agonizzante dopo lo scontro con l'uomo dall'occhio di vetro, giurando tra le lacrime che avrebbe trovato quell’assassino e gliel'avrebbe fatta pagare, anche a costo della sua stessa vita.
Rosso, come la moto che lo aveva portato in giro per tutto il mondo e che adesso lo aspettava appoggiata al grande ciliegio al centro di quel mare d'erba, la vernice scrostata in più punti, il cavalletto che ormai non ne reggeva più il peso e tante ammaccature, vecchie e nuove, sulla carena un tempo lucida e perfetta.
Rosso, come il sangue che macchiava le sue mani ed i suoi abiti.
Sanshiro abbassò lo sguardo.
Il suo invincibile, odiato nemico giaceva immobile ai suoi piedi, gli occhi ormai vitrei, tanto che non gli era possibile distinguere quello vero da quello artificiale.
Era ironico.
Aveva vagato per tanti anni alla sua ricerca, aveva praticamente fatto il giro del mondo, ed invece lui era sempre stato lì, nella città dalla quale era partito tanti anni prima colmo di un odio implacabile, sorretto da un desiderio di vendetta più assillante di qualunque sete, preda di un dolore che credeva non l'avrebbe mai abbandonato finché quell'assassino avesse continuato a vivere ed a respirare da qualche parte sulla Terra.
Rosso.
Il sole stava tramontando, e il prato era uguale al giorno in cui era morto suo padre.
L'erba lunga frusciava e si piegava alla brezza della sera, le foglie del ciliegio stormivano, proprio come quel giorno.
I rumori della città arrivavano attutiti, come in un sogno.
Rosso.
Attorno al cadavere si stava formando una pozza di sangue scuro.
Sanshiro affondò la mano destra nella tasca dei pantaloni ed aprì il pugno.
Colpita da un raggio di sole, la pupilla dell'occhio di vetro che aveva sempre portato con sé dal giorno del suo giuramento di sangue balenò per un attimo di un riflesso scarlatto prima di cadere a terra, quasi senza fare rumore, rotolando accanto alla mano inerte del suo nemico.
Rimase in silenzio a fissare quell’oggetto per alcuni minuti.
Era strano vederlo lì a terra e pensare che non lo avrebbe raccolto.
Era strano non sentirlo più nella tasca.
Chiuse gli occhi.
Li riaprì.
Rosso.
L'uomo con un occhio solo lo guardava ancora senza più vederlo, il volto che a poco a poco andava illividendosi e perdendo ogni espressione, la bocca spalancata, un rivolo di sangue rappreso agli angoli delle labbra.
Non gli aveva chiesto neppure il suo nome.
Tanti anni ad inseguirlo e alla fine non gli aveva chiesto neppure il suo nome... o il perchè.
Non gli aveva chiesto quante altre persone avesse ammazzato, se aveva paura di morire, se qualcun altro avrebbe sofferto come aveva sofferto lui in quel giorno ormai lontano.
Ormai non l'avrebbe più saputo.
Distolse gli occhi dal cadavere e fece alcuni passi verso la moto.
Dove sarebbe andato, adesso?
Cosa avrebbe fatto?
Si accorse con un certo sgomento di non saperlo.
Non riusciva ad immaginare il suo futuro, nemmeno quello più prossimo, nemmeno l’indomani.
Per lui quella vendetta era stata tutto, ed ora che era compiuta si sentiva come svuotato.
Senza scopo, un burattino cui avessero tagliato i fili.
Era strano.
Era sempre stato convinto che avrebbe provato una gioia selvaggia nell'udire il rumore delle ossa del suo avversario mentre si spezzavano, che il suono dei suoi rantoli mentre il suo cuore smetteva di battere sarebbe stato una dolce melodia per le sue orecchie, che quando quel mostro avesse esalato il suo ultimo respiro anche tutta la sua rabbia ed il suo dolore sarebbero scomparsi come d’incanto, che le porte di un nuovo, meraviglioso futuro gli si sarebbero spalancate davanti.
Aveva creduto che si sarebbe sentito libero e realizzato, il giorno in cui avesse adempiuto al suo giuramento.
Non era così.
Nel suo cuore non c'era alcuna gioia.
Il dolore era scomparso da tanto tempo.
La rabbia, quella, ormai non aveva più ragione di essere.
La libertà... non sapeva che farsene e dopo tanti anni in cui il suo unico scopo era stato la vendetta, dopo tanti anni in cui non aveva fatto altro che rintracciare ed eliminare tutti i criminali con un occhio di vetro che era riuscito a scovare, senza pensare a nient'altro e senza stringere veri legami con nessuno, gli faceva quasi paura.
Si portò la mano al petto.
Il battito era regolare.
Non provava nulla, nulla di particolare.
Rosso.
Il sole era quasi scomparso oltre l'orizzonte.
Presto la notte avrebbe tinto il cielo di nero. Non era ancora estate, e anche se mancava da quella città ormai da anni, sapeva che avrebbe fatto freddo.
Come sempre più spesso gli accadeva negli ultimi tempi, si chiese cosa stesse facendo in quel momento Ken.
Ormai doveva essere quasi un uomo.
Ricordò le sue parole il giorno in cui gli aveva detto che non sarebbe ripartito con lui, che era stanco di quella vita senza certezze spesa ad inseguire il fantasma del passato di qualcun altro per una vendetta che forse non si sarebbe mai compiuta, una vendetta che non avrebbe portato altro che nuova infelicità a loro due e forse anche a qualcun altro.
Era triste, quel giorno, Ken. Doveva sapere, da qualche parte nel suo cuore, che lui non l'avrebbe ascoltato.
“Fermati finché sei in tempo, Sanshiro. Trova qualcosa per cui vivere. Non diventare come lui!”.
Ai suoi piedi, quel giorno, giaceva un altro cadavere.
Ormai non ricordava nemmeno più il suo nome o perchè lo avesse ucciso.
Già allora non aveva provato nulla: il rimorso per aver cancellato una vita umana era ormai un sentimento lontano, la paura di essere preso e giudicato come un assassino si era trasformata in freddo calcolo, il timore della morte... quello non c'era mai stato.
Il Ken di allora era un adolescente alto e smilzo dagli occhi scuri e tristi, molto diverso dal ragazzino vivace e dispettoso che, un tempo, era partito con lui da quella stessa città, entusiasta della sua forza.
Ricordò la sua espressione.
Vi aveva scorto pena, preoccupazione e paura.
Paura per lui, come sempre, ma anche, scoprì con un certo stupore, paura di lui.
“Ti stai perdendo, Sanshiro. Stai diventando anche tu un freddo assassino, proprio come l'uomo di cui ti vuoi vendicare. Ormai il tuo non è più un viaggio in cerca di giustizia: è un'ossessione. Fermati, te ne prego.”
Ricordò di averlo guardato stupito, poi di aver provato rabbia, per l'ultima volta.
Lì per lì era stato convinto, o aveva tentato di convincersi, che quel sentimento fosse dovuto al fatto che Ken si sbagliava: lui, Sanshiro Kurenai, diventare come l'uomo che tanto odiava?
Lui, stabilirsi in un posto e vivere felice rinunciando a vendicare suo padre?
Lui, lasciare che magari quel delinquente uccidesse altri innocenti?
In realtà, adesso lo capiva e forse l’aveva sempre saputo, si era arrabbiato perché, nel profondo, sapeva che Ken aveva ragione.
Ormai uccideva con ogni mezzo, senza alcuna pietà e a sangue freddo, proprio come il suo odiato nemico.
Non provava più nulla, né odio o disprezzo per i criminali che uccideva, né comprensione o simpatia per le persone che aiutava, né rabbia per le ingiustizie da loro perpetrate o subite.
Entrava ed usciva dalle vite delle persone così come loro entravano ed uscivano dalla sua.
Non ricordava l’ultima volta che aveva pianto e nemmeno l'ultima volta che aveva riso di cuore.
Non gli era mai importato di morire, ma da qualche tempo a quella parte si era reso conto che non gli importava nemmeno più di vivere.
Tutto ciò che gli stava a cuore, ormai, era di trovare quel criminale con un occhio solo, a qualunque costo.
Anche allora, quando aveva voltato le spalle a quel ragazzo che l’aveva accompagnato ed aiutato per tanti anni rischiando la vita al suo fianco, anche quando lo aveva sentito singhiozzare, non aveva provato nulla.
Era salito in sella alla moto ed era partito senza dirgli una sola parola, senza voltarsi indietro neanche una volta.
Rosso.
Il petalo di un tardivo fiore di ciliegio gli cadde sulla mano e si tinse di rosso.
Un giorno, qualcuno gli aveva detto che il cuore umano era come un giardino in cui i legami ed i sentimenti erano fiori e piante da coltivare con cura perchè fiorissero rigogliosi, rendendolo bello e ricco. L'amore era l'acqua e la serenità dell'animo il concime, mentre al contrario l'odio era un veleno e la sete di vendetta un fuoco che gli avrebbero prosciugato l'anima, che l’avrebbero bruciata e consumata fino a quando, sul terreno ormai sterile e attraverso lo spesso strato di cenere dei suoi sentimenti perduti, non sarebbe mai più germogliato nulla.
Forse quella persona aveva ragione. Forse lui era veramente arrivato a quel punto e il suo cuore era ormai un deserto.
Afferrò il manubrio della moto e lo vide.
Rosso.
I capelli del ragazzo in piedi accanto all'albero mandavano lucenti riflessi ramati.
Anche i suoi occhi marroni, colpiti dalla luce, sembravano due braci ardenti.
Lo fissava in silenzio come se fosse stato un mostro, le labbra tremanti, gli occhi colmi di lacrime e brucianti di odio.
Aveva lo stesso sguardo che aveva potuto osservare tanti anni prima sul suo stesso viso, riflesso negli occhi morenti di suo padre mentre lo supplicava di non rincorrere il suo assassino.
“Non farlo, Sanshiro, non inseguire quell'uomo!”.
Ricordò la sua mano, già fredda e scossa da un tremito, serrarsi attorno al suo polso mentre l'uomo dall'occhio di vetro si allontanava, una figura alta e massiccia di spalle, indistinta contro la luce rossa dell'aurora.
Forse, adesso lo capiva, suo padre aveva tentato di trattenerlo non per paura che venisse a sua volta ucciso ma proprio per timore che sarebbe diventato uguale al suo uccisore: un invincibile, freddo omicida ossessionato dalla sua forza e sostenuto dalla sete di vendetta.
“Non diventare come lui!”.
Invece era successo.
Aveva ancora due occhi, ma nelle pupille scure di quel ragazzo che lo guardava scosso da irrefrenabili tremiti di odio e di rabbia, Sanshiro vedeva il riflesso del suo odiato nemico.
Distolse lo sguardo ed inforcò la moto.
Come sempre più spesso accadeva, dovette faticare prima che il motore si avviasse.
Il ragazzo indietreggiò di un passo, strinse il pugno all’altezza del petto.
- Scappa pure, mostro! Ma sappi che ti troverò anche in capo al mondo e ti ammazzerò come un cane, lo giuro!
“Non diventare come lui!”…
- Non ce ne sarà bisogno, ragazzo - ribatté senza nemmeno voltarsi – Non ce ne sarà bisogno.
Per la prima volta dopo tanto tempo, Sanshiro desiderò una cosa che non aveva nulla a che fare con la sua vendetta: che quel ragazzo, al contrario di lui tanti anni prima, non lo seguisse. Che percorresse un altro sentiero, sia fisico che spirituale.
Non era paura, la sua.
Soltanto, prima che quel ragazzo commettesse i suoi stessi errori, prima che un altro giardino finisse contaminato per sempre dal veleno dell'odio e bruciato dal fuoco della vendetta, desiderava tentare d’interrompere la spirale di violenza che lui stesso aveva innescato.
Guidò la moto giù per la collina e, attraverso i sentieri che percorreva sempre da bambino arrivò alla sua meta.
Rosso.
Il sole era tramontato.
Rosso.
La giacca del suo kimono era strappata senza rimedio dal bavero fin quasi sul fianco.
La manica pendeva sul suo avambraccio destro, muscoloso e pieno di cicatrici come tutto il suo corpo, ormai del tutto stracciata.
La tolse e la ripiegò sul braccio. Non l’avrebbe mai più indossata.
Rosso.
Ripensò a Ken, a Bobo che, se era ancora in vita, ormai doveva essere un cane vecchissimo, forse artritico  e quasi sordo, alle persone che aveva conosciuto nei suoi viaggi prima di diventare un guscio vuoto ossessionato solo dalla vendetta.
A tutti coloro che gli avevano chiesto di fermarsi e che lui non aveva mai ascoltato.
Alla ragazza dagli occhi blu a cui aveva promesso che un giorno sarebbe tornato.
Ripensò agli uomini che aveva ucciso, ergendosi a giudice, giuria e boia.
Chissà se, oltre a quel ragazzino, c'erano altri vendicatori sulle sue tracce. Chissà...
Non se l’era mai chiesto, o forse era più giusto dire che si era sempre rifiutato di farlo, preferendo non pensare a quelle persone come ad esseri umani con una vita, dei sentimenti e dei legami.
Se avesse avuto ancora un Dio in cui credere, avrebbe recitato una preghiera, avrebbe chiesto perdono e pietà per la sua anima, ma aveva perso la fede ormai da tanto e dubitava che persino il più misericordioso degli dei avrebbe potuto avere pietà di lui.
Lui stesso non ne provava e si chiedeva, persino, se possedesse ancora un'anima.
Aveva sempre saputo a cosa sarebbe andato incontro.
Era stato avvisato.
Lo aveva fatto lo stesso, era stata una sua scelta, ed in fondo non poteva dirsi neanche davvero pentito.
Sapeva che, anche se avesse avuto la possibilità di tornare indietro, avrebbe compiuto le stesse scelte, commesso gli stessi errori, ucciso le stesse persone.
No, una preghiera non aveva davvero senso.
Il suo viaggio era finito, tutto qui, e lui era conscio che il sipario su quella lunga e sanguinosa storia doveva calare.
Un sipario rosso. Come quello dei migliori teatri, come quello che sempre chiudeva le migliori tragedie.
- Sono Sanshiro Kurenai, e sono un assassino.
Finalmente, dopo tanti anni, una lacrima scese sulla sua guancia lavando via il sangue.

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Judo Boy (紅三四郎 Kurenai Sanshirō) è © di Tatsuo Yoshida, Shogakukan, Tatsunoko e probabilmente molte altre persone.
Sanshiro Kurenai, Ken, Bobo e l'uomo con un occhio solo non mi appartengono, e la loro presenza nella storia non implica approvazione dai proprietari. Il ragazzino senza nome è mio, ma potete prendervelo, se proprio lo volete! ^_^.

Siccome la storia è stata scritta da una fan per altri fans, prego di non ridistribuirla a pagamento e di citarmi come autrice in caso di pubblicazione altrove. Grazie!
   
 
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