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Autore: Melanto    01/03/2010    1 recensioni
A bordo non era rimasto più nessuno, a parte lui.
Solo allora, avvolti entrambi da quell’innaturale silenzio, poteva sentirla più sua di quanto non fosse.
La sua nave.
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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!!!Storia molto spoilerosa per chi non ha letto la Trilogia!!!
Non imbarcatevi nella sua lettura se siete interessati a leggere i libri di Golding.
Per chi invece i libri li ha letti, e si è ritrovato il cuore spezzato come me, prego: i kleenex sono da quella parte *indica* XD
Sapevo che ne avrei scritto, insomma, è la morte di Charles, non potevo non farlo! Soprattutto se ci viene mostrata esclusivamente dall’occhio di Edmund. Io ho voluto affrontarla ponendomi ‘dall’altra parte della barricata’, ovvero attraverso l’occhio dello stesso Charles.
Non avete idea di quanto mi manchi questo pg, di quanto io mi ci sia affezionata e di quanto ho pianto quando il Maestro ha deciso di farlo morire. T^T

Considerando la fede cristiana di Charles, avrei consigliato questa lettura con l’ “Ave Maria” di Schubertiana memoria. Poi, però, ho sentito “Lux Aeterna” (titolo profetico, in verità. XD Potete ascoltarne una bellissima cover di solo piano: QUI) di Clint Mansell da “Requiem for a Dream” e mi si è spezzato il cuore, again (il mio cuoricino è rattoppato con l’attack! T_T).

Questa storia è dedicata in particolare a BlueSmoke e Melisanna, perché mi hanno fatto alcuni dei complimenti più belli che io abbia mai ricevuto e non so davvero come ringraziarle. T_T


L’ultimo fuoco
- Requiem for a Captain, his Ghost and his Dream -


A bordo non era rimasto più nessuno, a parte lui.
Solo allora, avvolti entrambi da quell’innaturale silenzio, poteva sentirla più sua di quanto non fosse.
La sua nave.
Una carcassa traballante il cui fasciame era tenuto assieme da nugoli di corde e nodi stretti tanto da essere inestricabili, ormai; monconi di alberi che stavano venendo smantellati adagio, un pezzo per volta, assieme alle vele; i già pochi cannoni rimasti erano stati tolti del tutto. Dove prima c’era stato il trinchetto rimaneva un buco che passava la nave per la sua intera altezza, quasi; sembrava dovesse affondare nel mare.
Un fantasma, dunque, lo spettro della gloria che un tempo era stata.
Ma era il suo spettro, e nessuno poteva capire quanto lui si sentisse orgoglioso di quel legno marcio, di quel guscio ormai privo di qualsiasi energia. Se ne sentiva fiero come se fosse stato appena varato dal cantiere navale.
Charles Summers, il Capitano, passeggiava per il ponte centrale, diretto a poppavia con lentezza. Misurava la nave un passo alla volta; una mano dietro la schiena e l’altra che scivolava lungo la ringhiera della murata di tribordo. Il sorriso gli increspava le labbra in un’espressione di affetto paterno, sognante. Poi arrestò l’incedere levando lo sguardo al molo e le sue acque, su cui brillavano sparsi cristalli di luce provenienti dalle altre imbarcazioni attraccate. Sciaguattavano adagio contro la chiglia con un mormorio piacevole e rilassante, ritmico a suo modo.
La bava di vento gli baciò la pelle del viso ora ritto e puntato verso l’orizzonte indefinito dall’oscurità notturna; gli solleticò i capelli liberi dal cappello che aveva lasciato nel suo nuovo alloggio. Perché, sì, aveva continuato a dormire lì, dentro il guscio vuoto, lo spettro sul mare, giacché la terra ferma, da anni, non era più adatta a lui: mentre alla gente comune il rollio faceva venire il mal de mer, per Charles era la dolcezza di una ninnananna, l’oscillare amorevole di una madre che dondolava la culla, e si sentiva a casa, nonostante non avesse mai avuto una famiglia che gli donasse quel tipo di calore e protezione.
Inspirò l’effluvio di salsedine fino a riempirsene i polmoni. Poi espirò, lentamente, socchiudendo gli occhi per alcuni istanti.
C’era ancora molto da fare perché la nave fosse completamente disarmata e le parti danneggiate portate via. Avrebbe effettuato un accurato controllo e stilato la lista delle riparazioni da eseguire affinché il vascello avesse potuto veleggiare per brevi tratte lungo le coste australi, dedicandosi, nel mentre, al suo lavoro per migliorare i sistemi di boe che il Vice Governatore gli aveva affidato.
Voleva dare il meglio, come e più di quello che aveva sempre fatto, voleva dare il massimo perché era solo così che avrebbe potuto onorare la famosa armatura d’oro - per usare la strana metafora di Edmund - che il suo Diomede gli aveva donato.
Un aperto sorriso fece capolino da sotto le labbra distese mentre pensava che avrebbe dovuto passare un po’ di tempo con lui: non gli era parso troppo entusiasta da quando erano arrivati a Sydney Cove, anzi, sembrava addirittura afflitto, irrequieto e non era da Edmund mostrare una tale espressione abbattuta. Preso come era stato dal nuovo incarico e dalla montagna infinita di cose che gli erano cadute tra le mani, aveva trascurato la loro amicizia e non ne andava fiero.
Ma sì, annuì con decisione, la sera seguente avrebbero potuto concedersi una cena insieme, proprio su quella stessa nave, per festeggiare la nuova carriera di entrambi. Avrebbe detto a Cumbershum di procurare una bottiglia di brandy in città e avrebbero bevuto, per quanto lui non fosse un grande estimatore degli alcolici, pensando a quanto le cose fossero cambiate dacché quel viaggio era cominciato; un semplice traghettar di anime speranzose, da un capo all’altro del mondo, si era evoluto in qualcosa di inaspettato, una strana quanto incredibile avventura che li aveva fatti diventare amici.
Riprendendo lo stesso, lento passo di prima, Charles tornò ad incamminarsi verso poppavia con ambedue le mani dietro la schiena. Salì sul ponte e varcò, finalmente, la soglia del suo nuovo alloggio.
Da che era stato fatto Capitano non aveva ancora avuto il coraggio di dormire in quella che fu la cabina di Anderson. Gli era parso di invadere uno spazio non suo e, per i primi giorni, era rimasto lì, nel quadrato ufficiali; la sua vecchia ‘gabbia’, per dirla alla Edmund.
Quella sera si era detto che, no, non poteva ancora tergiversare e comportarsi come fosse stato un ragazzino che, per la prima volta, saliva su una nave. Così, ora stava là, dritto al centro dell’alloggio di Anderson.
Si guardò attorno muovendo solo gli occhi e spostando il capo in manovre millimetriche. Tutto ciò che era appartenuto all’altro non c’era più. Nemmeno le piante che soleva coltivare verso la vetrata di poppa. Adesso, sarebbe spettato a lui e lui solo riempirlo con oggetti e particolari che avrebbero designato quel luogo non già come l’alloggio del Capitano Anderson, ma come l’alloggio del Capitano Summers.
Adagio, si avvicinò al letto, sedendosi sul bordo e valutando la comodità del materasso, temporeggiando. Poi si sdraiò. Gli occhi fissi al legno del soffitto su cui le luci della lampada ricreavano giochi di ombre che si rincorrevano tra le intercapedini delle assi.
Charles chiuse gli occhi ed un senso di rilassatezza cominciò a sciogliere la tensione che teneva rigidi i suoi muscoli. In fondo, era solo una cabina e quella una normale cuccetta, si disse, non doveva essere così nervoso e agitato. Andava tutto bene.
Con lo sguardo ancora al sicuro dietro le palpebre, sorrise dei maldestri tentativi di rassicurare sé stesso e del fatto che fosse ancora in preda a quell’agitazione un po’ infantile che lo aveva stordito fin da quando Edmund gli aveva portato il foglio che aveva sancito il primo passo verso la promozione effettiva. Ormai non era più un bambino, ma era bello sentirsi emozionati ancora come quando aveva preso la via del mare ed era solo Charles Summers, perfetto Signor Nessuno, ma pieno di buona volontà.
Nel rincorrersi di quei pensieri e ricordi nemmeno si rese conto di scivolare nel sonno. La frenesia degli ultimi giorni lo aveva sfiancato ben più di quanto avrebbe creduto. E dire che quello era solo l’inizio, il nuovo passo della sua carriera in continua evoluzione, ma a lui, per una volta, sarebbe bastato anche che si concludesse lì. Il grado di Capitano era stato il massimo cui aveva sempre aspirato perché gli avrebbe permesso di avere finalmente una propria nave; un piccolo regno di cui sarebbe stato il Re. Ed era giust’appunto di questo che stava sognando, del navigar piacevole tra le onde, del vento che spingeva l’odore di salsedine alle sue narici e gonfiava le vele, degli uomini che si muovevano come formiche operaie per il ponte, sugli alberi e sottocoperta. Poi un colpo di tosse cominciò a sbiadire l’immagine azzurra dell’acqua su cui la nave veleggiava felice; un secondo colpo ne sfilacciò i contorni, lasciando emergere solo un tenue nero di sottofondo. Infine, al terzo colpo, si svegliò.
Lo strano odore di fumo, denso e pungente, si sostituì definitivamente alla salsedine facendogli aprire gli occhi, che presero a lacrimare quasi subito. Il grigio di una fitta nebbia aveva invaso l’alloggio.
Charles s’alzò di scatto; continuando a tossire e con la testa che sembrava piena d’aria, barcollò ancora non perfettamente conscio di ciò che stava succedendo.
Fumo?
Da dove?
Qualcosa stava bruciando, ma non riusciva a capire bene cosa fosse in quel primo momento in cui le informazioni si riversavano a raffica nella sua mente. Invano cercava di elaborarle il più in fretta possibile.
Vacillando, come dopo una sbronza colossale, uscì sul cassero. L’improvviso ricambio d’aria sembrò farlo rinascere, schiarendogli di colpo tutti i pensieri per permettergli di capire la peggiore delle verità.
La nave stava bruciando.
All’interno della struttura, dal profondo delle sue viscere, il fumo saliva e s’addensava come nebbia terribile e spaventosa, giungendo addirittura a lui, nella parte poppiera.
La realizzazione di ogni minimo particolare gli balenò nella mente in un attimo. Come un fulmine si lanciò in una corsa, attraversando l’intera nave e scomparendo nel castello di prua, dove il fumo aveva invaso già buona parte dell’ambiente.
E lui si rese conto di sapere da dove continuava a nascere, quale fosse l’origine di quell’incendio che stava divampando sottocoperta. Lo sapeva, l’aveva sempre saputo, ma nessuno, nessuno!, aveva mai voluto credere alle sue paure e dubbi, eccetto Edmund. Nessuno. Anderson era addirittura arrivato ad accusarlo di fare ostruzionismo.
Con un ringhio tornò fuori animato da un furore che, in vita sua, non aveva mai provato.
Il fumo dal foro in cui, fino a poco prima, c’era stato l’albero di trinchetto, prese a levarsi, riversandosi all’esterno in maniera continua a veloce. Lo vomitava come fosse la bocca d’un vulcano.
Charles lo superò consapevole di avere pochissimo tempo perché, Dio Santissimo!, la chiatta polveriera era troppo vicina alla nave e rischiava di saltare in aria mettendo in pericolo anche tutte le altre imbarcazioni attraccate. Si scapicollò fino a fermarsi presso l’albero di maestra, rimestando tra i vari oggetti quivi abbandonati alla fine del giorno da Cumbershum ed i suoi. Ricordava di averla vista lì ed infatti la trovò quasi subito: un’ascia grossa, dal manico di circa trenta centimetri e spesso tre dita. Con decisione la afferrò e tornò di corsa a prua, colpendo con tutta la forza che aveva in corpo sulle corde d’attracco per sciogliere gli ormeggi.
Il fumo prese ad avvolgergli i piedi; ormai emergeva sul ponte centrale da qualsiasi fessura o spiraglio tra il fasciame.
Una volta che le cime furono recise, si volse, perdendo con orrore il proprio sguardo in quella nube urticante. Eppure non ci pensò due volte e attraversò di nuovo il ponte per raggiungere il cassero. La tosse gli bruciò il petto, ma non vi badò. Altri colpi vennero vibrati sulle funi, ultimo legame della nave al ponte di biga, e quando finalmente anche quelle cedettero, Charles gettò a terra l’ascia. Alle sue spalle, il vulcano prese a sputare lunghe fiammate infuocate ed in quella visione i suoi occhi s’allargarono con sconcerto, ma non aveva tempo di lasciarsi sopraffare dalla paura e restare lì a fissare il lento divorare della nave che era ancora troppo vicina al molo e aveva preso solo in quell’istante a muoversi lentamente, scivolando sull’acqua cheta.
Doveva avvertire tutte le altre imbarcazioni ormeggiate.
Ancora e di nuovo, come sempre aveva fatto nella sua vita da che era stato un semplice marinaio, poi un guardiamarina e su fino al suo attuale stato di Capitano, Charles corse. Corse alla campana di segnalazione, cominciando a suonarla con forza e disperazione affinché chiunque si rendesse conto di cosa stesse succedendo.
Di come il sogno di una vita stesse andando in fumo, di come il frutto di infiniti sacrifici stesse ardendo come uno stoppino, di come la nave, la sua nave, stesse morendo. E questa volta, per quanto avrebbe potuto ingegnarsi e dare fondo a tutte le sue energie, non avrebbe mai potuto salvarla: anche se lo vedeva innalzarsi impavido e presuntuoso dal foro del trinchetto, l’incendio doveva essere divampato ormai ovunque sottocoperta, ma lui… per Dio! Non l’aveva fatto per una vita intera, non si sarebbe arreso ora! No! Non avrebbe gettato la spugna! Non gliel’avrebbe data vinta a quell’idiota di Benét, vero colpevole di quello sfacelo!
Lui aveva cercato di mettere in guardia tutti sulle pericolose conseguenze che la risaldatura dell’albero col metallo fuso avrebbe potuto scatenare, ma non era bastato per riuscire a fermare l’altro ufficiale spalleggiato dal Capitano, anzi, era stato umiliato come mai gli era capitato in tutta la sua carriera. Il primo, vero richiamo gli era costato un prezzo ben più amaro di quanto avesse creduto: aveva piegato il suo senso di giustizia ed ora sembrava costretto a dire addio al vascello che era stato suo per un tempo troppo terribilmente breve.
Quando vide che c’era finalmente agitazione nelle altre imbarcazioni, Charles smise di scampanare per poter fronteggiare l’ultimo nemico.
Nel cielo, i fuochi d’artificio, dai vivaci colori, stavano illuminando interamente il porto, coprendo il suono crepitante delle fiamme con i loro scoppi.
Charles li ignorò, come se non esistessero. Si proiettò ancora nel castello di prora deciso ad entrare da lì, ma il fumo lo intossicò quasi subito, costringendolo ad uscire. Era troppo denso, da quel lato, e l’unica soluzione rimastagli fu quella di tentare da dove emergevano fiamme vive. Barcollando, si resse alla ringhiera delle scale, tossendo in maniera convulsa, ma, questa volta, nulla l’avrebbe piegato. Nemmeno il dolore.
Tornò sul ponte, attraversandolo nella sua interezza, e quando fu innanzi all’ingresso dell’atrio guardò solo per un attimo la luce fiammante provenire da esso. Sembrava la porta degli inferi, ma non si fece spaventare e scese. Gli sembrò di venire inghiottito dalla stessa nave; non più la casa, il rifugio, l’isola, il regno, ma un mostro che richiuse le sue fumose fauci dietro di sé, intrappolandolo per sempre.
Avanzò a piccoli passi tra lame di fiamma che avvolgevano le travi e le assi, avvolgevano le paratie, provenivano da ogni dove tanto da non saper nemmeno da che parte cominciare per tentare di spegnerle o arginarle o qualsiasi altra cosa. Si tolse la giacca della divisa che aveva ancora indosso, provando ad utilizzarla a mo’ di coperta, ma era il tentativo più disperato che potesse fare, giacché nulla era in grado di placarle, ormai, e lui era da solo. Un solo uomo per domare l’incendio di una nave intera con un semplice pezzo di stoffa e la forza di volontà, ma le fiamme continuavano ad avanzare e poi ci fu solo un calore intenso, sudore che colava dalla fronte, occhi che bruciavano, e lacrime, che non capiva né si chiese se fossero frutto del fumo e delle fiamme o della frustrazione di non poter evitare l’inevitabile. C’era solo lui, laggiù, sottocoperta, nel cuore dell’Inferno. Il fuoco s’era chiuso alle sue spalle, la giacca prese a bruciare, il fumo gli entrò fin dentro i polmoni e gli occhi non videro altro che giallo e rosso in una danza meravigliosa e letale. La coscienza si fece più labile, il mondo intero rallentò la propria corsa ed i suoi stessi movimenti. Le immagini capovolsero la loro prospettiva quando si trovò disteso senza nemmeno sapere quando avesse perso la capacità di stare in equilibrio, ma quello che gli occhi videro non cambiò: ancora fuoco sul soffitto, fuoco accanto e attorno a lui, crepitava con un suono che si fece a poco a poco più distante e lontano, quasi piacevole, come una nenia, un tenue canto o un triste requiem. Le speranze morirono nel lento chiudersi delle palpebre sulla sua sconfitta.
«Charles!»
- Edmund?... Hai visto che avevo ragione? Il ferro nella scarpa(1)… il legno… Benét si sbagliava e il Capitano… ma avevo ragione, uomo... -
«Charles!»
- Non urlare… la nave… sveglierai tutti… -
«Charles! Il guardiamarina Talbot…(2)»
- La veglia... ne sei ancora entusiasta, vero?... ora arrivo… avremo ancora la Luna, stanotte, mio caro amico… -
La chiatta polveriera deflagrò assieme alla nave del Capitano Charles Summers, illuminando d’oro rosso il porto di Sydney Cove come un ultimo, piangente e insanguinato fuoco d’artificio.

 


(1): è chiamata 'scarpa' la base in cui è infisso l'albero di trinchetto.

(2): sono le tre volte che Edmund lo chiama, quando riesce finalmente a salire a bordo della nave, senza, tuttavia, ricevere risposta. T_T il fatto che Edmund non riesca a trovarlo, mi ha fatto talmente male che non ne avete idea. *piange*


 

Fine

   
 
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