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Autore: Selina    03/03/2010    6 recensioni
The woods are lovely, dark and deep. But I have promises to keep,
and miles to go before I sleep. And miles to go before I sleep.

E la Bella Addormentata si svegliò con il primo bacio di vero amore. [Riku/Sora, Axel/Roxas]
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Axel, Riku, Roxas, Sora
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Nessun gioco
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Nota legale:

Kingdom Hearts © Square Enix & Disney. Questa Fan Fiction è stata scritta per puro diletto, senza alcuno scopo di lucro. Nessuna violazione di © è dunque intesa.



:: MILES TO GO ::



Whose woods these are I think I know.

His house is in the village though;

He will not see me stopping here

To watch his woods fill up with snow.



Sono esattamente come li ha lasciati, decenni, secoli prima. Profondamente addormentati sul grande letto reale che invece di riunirli sembra dividerli, gigantesco per i loro corpi ancora congelati in quella dolorosa via di mezzo, ancora gambe e braccia e ossa lunghe e goffe chiuse in pelli che si dilatano faticosamente per coprirle. L’infanzia fatta a pezzi da un’adolescenza esplosa all’improvviso come una palla di cannone.

Si inginocchia al suo fianco, il freddo del marmo che penetra attraverso i vestiti. È davvero lì. È davvero tornato.

Gli sistema con cura la corona, scivolata un po’ sugli scompigliati capelli scuri. Gli avvicina la mano al naso per sentire il calore del suo respiro. Se si concentra può sentire il suono dei loro corpi, sentire che sono ancora vivi. Il ragazzino ha smesso di urlare, finalmente.

«Non preoccuparti. È tutto come l’hai lasciato.» La sua voce, sottile come carta, come i suoi capelli biondi che potrebbero disfarsi sotto le sue mani. Non si gira a guardarla. La sente esitare. «Non è cambiato niente.»

«Ma cambierà presto» le risponde, con un’eco della sua antica fiducia. È ancora lui. È ancora Riku. Nonostante la sua pelle sia scura, adesso, ed i suoi occhi gialli, e non ci sia niente che lo riporti indietro ad un tempo in cui era meno che un reietto, è ancora se stesso. «Era quello che ti serviva, no? Era quello giusto.»

Lei esita ancora. Non gli piace quella pausa, si gira a metà per includerla nel suo campo visivo. È così simile a Kairi che è terrificante guardarla, perché non sono mai state così uguali, prima, quando Kairi era viva e rideva e respirava e aggrottava la fronte e si tirava indietro i capelli e gli diceva che erano due ragazzini sconsiderati, e che se volevano fare cose stupide potevano almeno invitarla, ed è orribile che siano così identiche ora che di Kairi è rimasto soltanto un guscio svuotato.

Kairi ha gli occhi aperti adesso, spenti. Fissa il soffitto senza vederlo. Lei gli dice che è ancora viva, ma Riku non riesce a controllare di persona, a costringersi a toccarla. Un bambino spaventato in un corpo oscenamente adulto. Che pena.

Vede che una ciocca di capelli scuri gli è finita sugli occhi. Sono chiusi, i suoi, il cielo d’estate sigillato per sempre dietro le sue palpebre. Fa per scostarla, ma si ferma. Una mano troppo grande, troppo scura. Non può toccarlo, non così, ma finché è addormentato può se non altro restargli accanto.

…non sarebbe meraviglioso restare così per sempre?

«Era quello giusto, vero?» le chiede ancora, senza smettere di guardarlo.

Lei sospira piano. «Sì, è perfetto.» C’è un dolore indescrivibile nella sua voce, una pena ed una colpa atroci, ma a lui non importa. Pensa che sia per il ragazzino biondo che ha trascinato fin lì, ma lui non sente niente. Troppo lontano per capire, lo è sempre stato. «Quando ti sveglierai, domattina, Sora si sveglierà con te.»

Un sospiro che è come un singhiozzo.

«Sono così stanco, Naminé. Posso dormire, almeno un po’?»

Domattina sarà già in viaggio, lo sa perfettamente. Non può restare, non così. Ma in fondo non ha mai potuto restare, quindi che importa? Ora ha una scusa per non tornare.

Si costringe a non accarezzargli una guancia, a non sporcarlo, anche se la tentazione di marchiarlo per sempre è irresistibile. Esita. Quante volte è rimasto sospeso sul suo corpo addormentato, quante volte ha allungato la mano per toccarlo e si è fermato prima di raggiungerlo? Quante volte la sua pelle è stata bianca, e quante scura, corrotta?

Scuote la testa. La sua mano sporca di sangue, come una scossa. No, è stato tempo prima. Non deve pensarci. Deve dimenticare.

Sì, deve dimenticare.

Naminé gli accarezza i capelli. Gli tocca solo le punte, solo un secondo. La sente a stento.

Quante volte l’ha toccato in quel modo?

Stringhe di ricordi che si disfano.

Ho attraversato distanze interminabili per raggiungerti.

«Certo che puoi dormire.» Una voce dolente come una campana a morto. Dovrebbero essere le circostanze a renderla così tragica, ma è curioso che è l’unica che lui ricordi.

Percorso miglia come leghe.

Quanto tempo può essere passato, un mese?

A lui sembra molto di più.

Avevo promesse da mantenere, debiti da ripagare.

«Chiudi gli occhi, Riku.»

Posso dormire, adesso?

Deve solo riposare.

Appoggia la testa sul letto, al suo fianco. Vicino abbastanza alla sua mano da sentire il calore della sua pelle, se si concentra. La guarda, mentre il suo corpo finalmente si rilassa, si abbandona. Si lascia andare alla deriva.

Sangue sulle sue mani. Metallo che tintinna sul marmo. Rosso sul bianco.

Un ragazzino dai capelli biondi che urla, ma non ha mai la stessa faccia.

Deve solo dimenticare. Sì, deve solo dormire un po’.

Chiude gli occhi. Il suo corpo troppo grande, troppo sgraziato, protesta per quella posa innaturale, ingobbito sul suo letto. Lo ignora. Sprofonda lentamente.

Sarà sveglio prima dell’alba.



«…e quando il principe finalmente vide la principessa, rimase così incantato dal suo splendore che cadde in ginocchio di fianco al suo letto, e la Bella Addormentata si risvegliò con un bacio.»

Axel roteò gli occhi, rischiando di tagliarsi con il temperino. La statuetta di legno, appena sbozzata, sembrava guardarlo accigliata, come se gli rimproverasse di non finirla abbastanza alla svelta. Axel ricambiò con un cipiglio. Ci mancava solo di ricevere lamentele dai pezzi di legno.

«Cosa diavolo le stai leggendo?»

Roxas lo guardò storto.

«È una bambina. Cosa dovrei leggerle, racconti di guerra?»

«È una bambina che un giorno non lontano lavorerà per Xemnas, sarebbero sicuramente più appropriati.» Xion, sentendosi chiamata in causa, si girò lentamente per guardarlo, gli occhi grandi e scuri ed enigmatici come porte sprangate a squadrarlo. Aveva sei anni, ma c’era una solennità nel suo sguardo che li trascendeva, ed un vuoto altrettanto profondo che la faceva sembrare ancora più piccola, completamente cancellata sotto la superficie come un neonato. Era fottutamente inquietante. «Non stupirti poi se verrà su ritardata.»

«Non verrà su ritardata, non parlarle in questo modo» lo rimproverò Roxas, abbracciandola protettivamente. Xion esitò una frazione di secondo prima di passargli le piccole braccia paffute attorno al collo, ma fu abbastanza per dare all’intero gesto una sfumatura meccanica. Una reazione, senza vero slancio.

Era come se tutto quello che le insegnavano, tutto quello che le dicevano, le scivolasse addosso senza intaccarla. Axel si chiese, non per la prima volta, cosa le fosse successo prima che Xemnas la trovasse. Non aveva segni evidenti sul suo corpo, ma non voleva dire niente. Lui lo sapeva bene. Conosceva almeno un centinaio di modi per ridurre anche il più resistente dei guerrieri in un rottame sbavante senza lasciargli un graffio sulla pelle.

Marluxia sghignazzò senza pudore, dal piano superiore della rimessa. Aveva la schiena contro la parete, le lunghe gambe a ciondoloni nel vuoto.

«Axel ed il suo asilo nido. È un peccato che Xemnas abbia assegnato Demyx a Xigbar, ma puoi sempre chiedergli di prestartelo di tanto in tanto.»

«La tua cagnetta non ti dà più abbastanza soddisfazioni?» ritorse Axel, più per abitudine che per reale fastidio. Non gli importava granché di quello che pensava Marluxia.

Ad essere sincero, non gli importava granché di niente.

Marluxia smise di spalmare la lama della sua falce con il veleno ricavato da una delle sue piante, e saltò giù senza sforzo apparente. «Almeno ha smesso di pisciare nel letto da un pezzo.»

«Beh, è precoce abbastanza. Da quanti anni, due, tre?»

«Fottiti, Axel.» E questo chiudeva la questione. Marluxia aveva sempre saputo perdere con dignità.

Axel si strinse nelle spalle. Non si diede neanche la pena di guardarlo mentre marciava fuori, e continuò a sbozzare la sua irritante statuetta di legno.

Somigliava un po’ a Larxene, in effetti. Aveva la stessa faccia patologicamente scontenta da principessina viziata. Pensò di sfigurarla e di lasciarla davanti alla porta di Marluxia, ma aveva il dubbio che potesse essere interpretata come una minaccia, e quando si trattava di ladri e assassini erano malintesi che era meglio evitare. Continuò a sbozzarla, sperando con l’impegno di farle perdere quell’espressione da cagnetta presuntuosa, ma senza molte speranze.

Ci stava ancora lavorando, quando Roxas, dopo aver lasciato Xion sul pavimento insieme al vecchio libro consumato che stava leggendo, gli si avvicinò. Non dormivano in una vera casa, era più una specie di stalla in disuso alle porte della città che aveva ripulito, ma a Roxas e Xion non sembrava importare. Era meglio di dove stavano prima, doveva supporre.

«Voglio uscire, stanotte» dichiarò Roxas senza preamboli, con quel suo curioso faccino deciso da gattino spinto in un angolo. Axel non alzò neanche lo sguardo.

«Non se ne parla.»

«Credi che non sia in grado di badare a me stesso?» Arruffava subito le penne. Voleva essere considerato adulto con un’ansia che Axel non capiva. Cosa c’era di così eccitante in responsabilità che la stragrande maggioranza della gente non vuole prendersi neanche dopo aver passato da un pezzo i quattordici anni?

Lui lo sapeva bene. Non solo era una di quelle persone, ma sfuggiva le responsabilità di qualunque tipo come se fossero malattie contagiose. Per quello aveva deciso di seguire Xemnas. Niente cose come una casa, una famiglia, qualcuno che dipendeva da lui, persone che avrebbe sistematicamente deluso -pretese e pretese che gli si stringevano addosso come rami di vite. Solo un oggi eterno e strascicato, senza passato e senza futuro. Non dover pensare a niente, la sua vita che scivolava via senza aver lasciato un segno in nessuno ed in nessun posto. La libertà definitiva.

Poi Xemnas aveva avuto la geniale trovata di assegnargli Roxas perché ne cavasse fuori una prostituta, un ladro o un sicario da usare per i suoi commerci (o tutti e tre, se era dotato abbastanza), ed improvvisamente si era trovato a fare da balia ad un adolescente sospettoso che sembrava essere appena uscito da una gabbia di vetro. Xemnas gli aveva parlato di amnesia. Axel sospettava che non gli raccontasse tutto, ma Roxas stesso aveva ammesso che il suo primo ricordo era stato Xemnas che lo trovava in un canale di scolo appena fuori da Traverse Town. Il suo corpo era una mappa di cicatrici che Roxas non aveva la minima idea di come leggere. E come se questo non fosse stato fastidioso abbastanza, sei mesi dopo si era trovato fra i piedi pure Xion, che aveva la vitalità di un pezzo di legno. Marluxia non era l’unico a fare battute sull’allegro asilo di Axel (seriamente, come facevi a non sentire solo dal suono quanto fosse tremendamente sbagliato?!), ma l’unica cosa che Axel veramente non sopportava era avere due persone a carico, e per di più sentirsi in qualche modo responsabile che non cadessero da una scala e si ammazzassero sotto il suo naso.

Prima o poi Xemnas si sarebbe svegliato con un pugnale nella schiena, e sarebbe stato un risveglio incredibilmente breve.

«Hai quattordici anni. Hai tutta quest’ansia di vederti al migliore offerente?» Non che Xemnas avrebbe pianto all’idea, visto che già gli faceva notare che non erano un’organizzazione di beneficienza, ma Axel pensava di cavarne fuori qualcosa di meglio di una prostituta. Magari un assassino psicopatico. E se uno dei suoi clienti gliel’avesse rovinato, beh, sarebbe rimasto sulla strada per tutta la vita.

«Tu lo fai.»

«Io ammazzo e derubo tutti i miei clienti da quando ne avevo undici. Non sono mai stato una puttana. Ricordatelo bene.»

Il ragazzino spinse fuori il broncio, gli occhi blu grandi e ostinati e lucidi come specchi. Era bello, ed era biondo. Se l’avesse addestrato bene, avrebbe fruttato molto di più di lui. Axel era vecchio per adescare clienti ormai, aveva ventitre anni, e già da un po’ si limitava alle commissioni di Xemnas. Non che fossero mai noiose, ma gli mancava un po’ il brivido di cacciare e decidere chi e come ammazzare.

Pensò di toccarlo, per un attimo. Un impulso che gli scivolava fino alle dita sempre più spesso, ultimamente. Lo lasciò sfiorire. Non ancora. Voleva aspettare che fosse pronto, ed anche se non sapeva esattamente cosa questo volesse dire, sapeva che avrebbe riconosciuto il momento quando fosse arrivato. Era solo questione di tempo.

«Posso farlo anch’io» insistette Roxas, con tutta l’ostinazione di un adolescente. «Mi hai addestrato per questo.»

Era vero. Xigbar aveva spedito fuori Demyx con molto meno addestramento di lui, e Larxene, beh, batteva da quando aveva sei anni, quindi era una specie di autorità in materia.

Lasciò finalmente perdere la sua statuetta, e lo guardò. Era molto meno giovane di quanto sembrasse, ma non era vuoto.

Non ancora.

«Non hai mai ucciso nessuno.»

«C’è una prima volta per tutto.»

Axel ghignò. Si sfilò una daga dallo stivale, e gliela porse per l’impugnatura.

«Cerca di non farti ammazzare.»

Roxas la prese senza esitare, ricambiando il suo sogghigno con un’intimità che gli diede le vertigini.

Forse era quello, che stava aspettando. Che diventasse spazzatura, come tutti loro. Che diventasse vuoto quanto lui, e perdendo tutto quello che aveva non l’avrebbe più lasciato.



Naminé gli ha detto della foresta di rovi, ma anche se l’ha già percorsa una volta è impressionante da vedere. Spine grosse come daghe ed altrettanto appuntite, irte come i denti di un pettine tra le sterpaglie ed i rampicanti spessi che si inerpicano fino al cielo.

Riku resta fermo a guardarla, fino a quando un nitrito nervoso del suo cavallo non lo richiama indietro.

Il ragazzino si sta di nuovo agitando. Non capisce bene quale sia il suo piano -è legato ed imbavagliato come un tappeto, se anche riuscisse a buttarsi giù da cavallo e sopravvivere all’urto, magari di faccia, difficilmente potrebbe andarsene da qualche parte-, ma in un certo senso ammira la sua determinazione. Deve essere quello che chiamano istinto di auto-conservazione. Lui non ricorda di averlo mai avuto.

Accarezza distrattamente il muso del suo cavallo, che sterza con fastidio alla vista di quella mano estranea. Il ragazzino lo guarda con occhi blu pieni di odio feroce.

…come si chiama, gliel’ha detto? Forse no. Forse ha dimenticato. Dimentica un sacco di cose ultimamente, come se quel corpo che non gli appartiene fatichi a trattenerlo, e lasci scivolare via un pezzo di Riku dopo l’altro. Un giorno non rimarrà più niente, lo sa benissimo. Spera che per quel giorno Sora sia sveglio, ed il suo castello libero dai rovi, e lui sia lontano più miglia di quante chiunque possa percorrere in una sola vita.

«È meglio se stai fermo, adesso» suggerisce, senza reale interesse. Naminé ha bisogno di quel ragazzo, ma qualche ammaccatura non cambierebbe le cose.

Stringe il pugno, lentamente.

Quegli occhi. Lo stesso blu.

Riapre il pugno, altrettanto lentamente.

Non pensarci. Non è per questo che l’hai cercato, e non puoi restare nei boschi per sempre.

Tira fuori la spada, l’occhio aperto sull’elsa che sembra guardarlo. Il Soul Eater affonda tra i rovi come burro, le spine acuminate che cadono a terra. Foglie in autunno. Sa che ricresceranno in meno di mezz’ora, devono sbrigarsi. Prende le briglie del cavallo con la sinistra e lo costringe ad avanzare, mentre con la destra falcia la sua strada per il castello.

Non si sente un rumore nel bosco. Sono le uniche creature vive. Il ragazzo si dimena ancora un po’, ma quando per poco non si conficca una spina lunga come un chiodo nell’occhio lascia perdere. Cerca di bilanciarsi e di non cadere. Non è stupido, nonostante tutto. Continua a fissarlo come se odiandolo abbastanza potesse fisicamente pugnalarlo.

Escono dalla penombra fitta e tetra del bosco dopo un tempo imprecisato. Non esiste il sole sopra il castello, solo un grigiore opalescente che attraversa le nubi fitte come coperte. Tutto è bloccato nella luce tremolante appena prima dell’alba.

Il ragazzino è quasi interessato, adesso. Si guarda attorno, scuotendo la testa da una parte all’altra. Il silenzio è pesante, opprimente. Non c’è niente di vivo, lì dentro, soltanto i rovi. Il rumore degli zoccoli del suo cavallo riecheggia violento come colpi di martello, rimbombando nella sua testa.

Attraversa il cortile con i porcai addormentati contro i recinti, cavalieri svenuti nel fieno marcescente. Una volta, quel posto era chiamato Radian Garden.

(Quanto tempo è passato?)

Non guarda la pelle tirata sulle ossa, la carne compatta in una maniera innaturale. Tutto è immobile, senza essere morto. Non ci sono neanche vermi a corrompere i corpi. Sono congelati nel tempo, e Riku è certo che siano ancora vivi, da qualche parte. Deve crederlo.

(Quanta strada ha fatto prima di tornare?)

Lascia il cavallo nel cortile, legato vicino ad un abbeveratoio. L’acqua è ancora limpida, cristallina. Trasparente come vetro.

Tira giù il ragazzo da cavallo, cercando di essere gentile, ma senza molto successo. Non ha mai imparato ad esserlo, e con quel corpo è come cercare di manovrare le sue stesse mani da una inconcepibile distanza, con goffa imprecisione. Il ragazzo grugnisce pesantemente, attraverso il bagaglio. Riku scioglie le corde che lo legano, ma non quella che gli blocca i polsi dietro la schiena. I suoi occhi dardeggiano come riflessi del sole sull’acqua. Vuole ucciderlo con tanta forza che Riku ne è quasi toccato. Lo prende per un braccio e lo trascina attraverso il cortile, ricordandosi appena in tempo che le sue caviglie traforate gli permettono soltanto piccoli, dolorosi passi.

Attraversano la porta, sorvegliata da guardie addormentate contro le loro lance. Il banchetto nuziale è ancora imbandito, la sala del trono ricolma di gente e di cibo che non è stato mai toccato, trombe che non hanno mai suonato. Cento persone bloccate un istante prima di aprire bocca, in uno snervante momento di attesa trascinato all’infinito. Riku sente il suo stomaco stringersi, il suo respiro assottigliarsi. Sembrano pronti a muoversi da un momento all’altro, ma quel momento non arriva mai. Trascina il ragazzo più velocemente, senza rallentare neanche quando lo sente lamentarsi ed incespicare.

Nel corridoio, sorpassa due persone schiacciate contro il muro, nella penombra. Gli occhi di Tifa socchiusi in un attimo di piacere assoluto, mentre Cloud affonda la testa nella sua spalla.

(Dentro di me, per sempre. Non è poetico?)

Il ragazzo non riesce neanche più a camminare, ormai, le caviglie gonfie e piagate che lo fanno incespicare ad ogni passo. Sono arrivati alle scale ai piedi della torre. Riku se lo carica sulla spalla come un sacco e comincia a salire. Sente la sua testa sbattergli contro le spalle ad ogni colpo, e si chiede se non abbia la febbre, se nonostante sia stato attento le sue caviglie non abbiano fatto infezione. I suoi occhi in effetti sono troppo lucidi, troppo intensi, ma sono troppo simili a quelli di Sora per poterli realmente vedere.

Ma non è importante, in fondo. Sono arrivati. Ha concluso il suo viaggio, finalmente, e tra poco potrà rivederlo. Un’ultima scintilla prima di sparire.

Naminé lo aspetta nella stanza bianca in cima alla torre, dove ha fatto costruire il pod appena prima che lui partisse. È esattamente come la ricorda, come un’immagine disegnata sulle pareti di una grotta, i contorni sbozzati, i colori pallidi, che un po’ di umidità potrebbe facilmente cancellare. Occhi grandi come uova, di un azzurro remoto. Troppo bianca per essere vera.

«Sei tornato.»

Lo accoglie con un sorriso. Lo stesso sorriso, tutte le volte. Ma non è mai successo, quindi non può essergli familiare. I suoi ricordi si rimescolano.

È piuttosto sicuro che il ragazzo gli abbia detto il suo nome, adesso. Seifer, possibile?

Scuote la testa. No, Seifer era qualcun altro, anche se non ricorda nessuno al castello con quel nome. Dove l’ha sentito?

I muri bianchi sembrano chiudersi attorno a lui. Non ricorda che il castello fosse così candido, prima.

«Torno sempre, lo sai.»

(Quante volte se n’era andato?)

Cosa sta dicendo? La guarda confuso, ma lei ricambia come se le sue parole abbiano perfettamente senso. Il suo sorriso si affievolisce un po’, ma resta, come un alone sulla sua pelle bianca, una macchia impossibile da cancellare.

«Lo so.»

Qualcosa ronza leggermente quando lei apre il pod, come il respiro di un animale, e per un attimo sentire qualcosa di vero in quel posto gli dà i brividi. Vorrebbe girare sui tacchi e scappare finché le sue gambe lo reggono, ma afferra il ragazzo per un braccio invece, e mentre lui ancora urla e si divincola e piange -oh, i suoi occhi sono davvero lucidi adesso, e la sua voce è così secca, come latrati-, lo sbatte dentro il pod e chiude la porta con uno schianto. Lo guarda agitarsi, dibattersi come una farfalla rinchiusa in un bicchiere, ma il ronzio cresce e cresce ed il pod si riempie di un liquido cristallino, leggermente luminoso. Arranca per stare a galla, i piedi che cercano di muoversi, il torso che si contorce e sbatte contro le pareti del pod, ma le sue caviglie trapassate non possono fare niente per aiutarlo. I suoi occhi sono giganteschi, terrorizzati.

Naminé si sta mordendo un labbro, fissa per terra. Il pod attutisce le sue urla, ma non le zittisce completamente. Riku non distoglie mai lo sguardo.

(Questo è quello che hai fatto.)

I suoi scatti erratici hanno consumato la poca aria che aveva, il terrore a bruciare l’ossigeno come un fuoco tra le sterpaglie. I suoi movimenti sono già lenti, quasi inesistenti quando il liquido tocca la punta del pod, ed i suoi occhi blu sono mezzi rovesciati all’indietro quando la luce esplode, zigzagando lungo i fili interrati nel pavimento e sparendo nelle pareti.

Riku finalmente chiude gli occhi. Gli sembra di sentire il castello respirare.

Li riapre, ed il ragazzo è un corpo spento nel pod. È solo questione di tempo prima che il liquido che lo avvolge non lo faccia a pezzi, nutrendosi di ogni più piccola cellula per risvegliare il castello addormentato.

Ho fatto quello che dovevo.

Anche adesso, anche guardando il cadavere galleggiante di fronte ai suoi occhi, non riesce a provare compassione. Ha fatto cose ben peggiori, ed il rimorso si è incancrenito nel suo cuore a tal punto che non riesce a provarne più per nient’altro.

La superficie sta già diventando opaca, nascondendo il corpo dietro il vetro.

Guarda la scalinata che scompare al piano superiore.

«Posso vederlo, adesso?»

Naminé sussulta come se avesse preso la scossa. Lo guarda come se non si aspettasse di vederlo, e dovesse metterlo a fuoco. Gli sorride di nuovo.

«Certo. È di sopra, ti sta aspettando.»

È ancora bello come lo ricorda?

Si scopre tremante al pensiero che anche un solo misero segmento di pelle possa essere cambiato, durante la sua assenza.

Cosa farò se, tornando da te, troverò qualcosa di diverso da quello che ho lasciato?

Sente le labbra scoprire i denti in un sorriso -in un ringhio.

Quanta strada dovrà percorrere per non essere tormentato dagli stessi incubi?

Mette il piede sul primo gradino, ed inizia a salire.



My little horse must think it queer

To stop without a farmhouse near

Between the woods and frozen lake

The darkest evening of the year.



«…cosa vuol dire che nessuno sa che fine ha fatto?»

Il ragazzino era stato furbo. Sapeva che l’avrebbe seguito, e ad un certo punto Axel l’aveva perso -semplicemente, aveva girato un angolo e lui non era più lì. L’aveva addestrato anche troppo bene, e per la prima volta se ne pentiva.

«Sarà scappato.» Xaldin scrollò le spalle. «Dovresti preoccuparti di più di Xemnas, al momento. Non è contento. Aveva progetti per lui.»

«Xemnas dovrà vivere con il fatto che affidarmelo è stata un’idea del cazzo. Gliel’avevo detto.» L’aveva fatto, ed a voce alta. Non era in grado di occuparsi di qualcun altro. Non era in grado e basta. «Gliel’avevo detto.»

«Suppongo che dovrai ripeterglielo di persona. Vuole vederti.»

«Non ora.» La sua voce come un ringhio. «Devo trovare Roxas.»

«E cosa devo dire a Xemnas?» Gli aveva già girato le spalle, e Xaldin fu costretto ad alzare la voce.

«Digli di andare a farsi fottere.»

Xemnas non l’avrebbe apprezzato, di sicuro. Ma neanche lui apprezzava granché Xemnas, quindi supponeva che fossero pari.

Passò la notte girovagando per la città, contattando tutti quelli che conosceva. Nessuno aveva visto un ragazzino biondo, non di quell’età, di certo non uno dai capelli puliti abbastanza da sembrare altro che un grigio sporco. Salì fino ai quartieri alti, scese fino all’ultima bettola. Fece passare tutti i bordelli.

All’alba, iniziò a setacciare i canali di scolo. A mezzogiorno era sceso nelle fogne.

Non un corpo. Axel non pensò neanche una volta che fosse scappato.

Fu solo quasi ventiquattrore dopo, quando la pista era ormai fredda, che trovò qualcosa. Una prostituta l’aveva visto andare via con un uomo alto ed incappucciato, su un cavallo che non era qualcosa che uno spiantato potesse permettersi. Non aveva visto l’uomo in faccia, ma Roxas aveva accettato di salire al primo approccio. Poteva essere un principe, aveva aggiunto Snow White sognante. Tutte loro volevano essere portate via da un bellissimo principe. Jasmine aveva roteato gli occhi e aveva aggiunto che Aurora stava intrattenendo una guardia ad una delle porte, quella notte, e se il fantomatico principe aveva portato Roxas fuori dalla città poteva essergli utile. Axel gli aveva lasciato la paga di un’ora intera, visto che Maleficent le stava già squadrando come se volesse far loro la pelle, e andandosene aveva scompigliato i capelli di Ariel. «Un’altra volta, dolcezza.»

Aurora non ricordava di aver visto Roxas, ma qualcuno era effettivamente uscito dalla città dopo il tramonto, con una sagoma infagottata ed immobile davanti alla sella. La guardia aveva chiesto chi era, ma quello aveva riso ed aveva risposto che non era nessuno, e con i pantaloni calati fino alle ginocchia Phillip non era esattamente dell’umore per indagare. L’aveva lasciato uscire, e quello era sparito nei boschi.

Il resto era stato semplice. Axel era tornato a casa, trovando Xion esattamente dove l’aveva lasciata più di ventiquattrore prima -immobile sul pavimento, a masticare una vecchia pagnotta dura come pietra. Per fortuna non aveva ancora denti definitivi da rompere.

Non ci aveva pensato due volte a portarla da Xigbar. Normalmente non gliel’avrebbe neanche lasciata guardare -Xigbar non ispirava esattamente fiducia con bambini nel raggio di dieci chilometri-, ma Roxas mancava da più di un giorno. Considerava più che sufficiente non averla abbandonata dove stava per corrergli dietro.

Uscì dalle porte che era quasi il crepuscolo, a piedi, senza nessun bagaglio a rallentarlo. Tutto quello che serviva ce l’aveva addosso, daghe e stiletti nelle maniche e negli stivali, coltellini da lancio attaccati alla cintura e spada lunga al fianco, e qualunque altra cosa poteva essere rubata. Non sapeva cosa Xemnas pensasse della sua missione di salvataggio, e non gli importava. Se qualcuno l’avesse intralciato, l’avrebbe ammazzato. Tanto bastava.

Uscì dal bosco che circondava la città tre giorni dopo. Nel primo villaggio che incontrò un fabbro gli disse che un cavaliere con uno schiavo biondo al seguito era passato di lì, e si era diretto a nordovest. Axel lo ringraziò e rubo il suo miglior cavallo ed il suo mantello appena prima dell’alba.

Lo seguì di villaggio in villaggio, a volte perdendo la strada, a volte arrivandogli vicino abbastanza da poter vedere le sue tracce fresche sul terreno. Ma più andava a ovest, più i villaggi diventavano rari, più le strade si interrompevano e riprendevano dopo miglia. Non era mai stato così lontano da Traverse Town. La gente iniziava a diventare sempre più superstiziosa, più chiusa nel micro mondo che li nutriva. Lo ascoltavano parlare della città con l’avidità con cui bambini avrebbero accolto una nuova storia. Attraversò le montagne, e stava per morire congelato su un passo quando alcuni montanari lo trovarono, raggomitolato contro il suo cavallo in un mantello troppo leggero per quelle altitudini.

Lo portarono nella loro casa per la notte, e pretesero tutti suoi munny. Gli dissero che l’uomo in nero ed il suo schiavo erano passati di lì poco più di una settimana prima. Axel glieli diede. Non esitò.

Si sistemò in un giaciglio di paglia nella piccola sala comune, e chiuse gli occhi. I bambini facevano un chiasso infernale, e lui era così stanco. Quando una bambina li zittì, radunandoli vicino al fuoco, pensò che se avesse avuto ancora munny l’avrebbe pagata.

«C’erano una volta, in un regno molto lontano, un re ed una regina.»

Aveva i capelli scuri raccolti in una treccia, un grosso fiocco rosa che sobbalzava ogni volta che muoveva la testa, ed una voce dolce, stranamente materna. Quanti anni poteva avere, nove, dieci? Una voce troppo vecchia per quel faccino tondo.

«Entrambi volevano disperatamente un figlio, e dopo molti anni gli nacque finalmente una bambina, bella come l’alba.»

Aveva un libro aperto sulle ginocchia. Era una storia che gli sembrava di aver già sentito. Parole sconnesse, mentre scivolava fuori e dentro dal sonno.

«…ma la maledizione non si era affatto indebolita, in tutti quegli anni, ed il giorno del suo sedicesimo compleanno la principessa si punse il dito con un fuso, e cadde in un sonno profondo.»

L’avrebbe trovato, ne era certo. Era solo questione di tempo.

Non dimenticato. Soltanto perso.

«E lì sarebbe restata, sigillata nella torre, in attesa del primo bacio di vero amore.»

Presto.



Osserva il ragazzino dormire, seduto contro un albero. Lo guarda come guarderebbe qualcosa di alieno e familiare allo stesso tempo, con uguale curiosità ed uguale repulsione. La fronte aggrottata, il broncio infantile, il ventaglio di ciglia fitte che sfarfallano ogni volta che ha un incubo. È buio pesto nella foresta, ma non ha davvero bisogno di un fuoco per vedere. I suoi occhi, i suoi veri occhi, sono bendati da moltissimo tempo. Quello che resta cattura i frammenti di luce come le pupille di un gatto, dilatandosi nell’oro gelido dell’iride.

Vorrebbe chiudere le palpebre, ma non è ancora tempo di dormire. E quel corpo non ne ha davvero bisogno, così come non ha bisogno della luce per vedere.

Si tocca la fronte, massaggia gli occhi stanchi. Si toglie il guanto e sfiora la pelle scabra delle guance, i peli duri che gli pizzicano le dita. Non ha mai davvero imparato a radersi, ma continua con ostinazione, ed ogni giorno è un macello che impiega ore e ore a guarire, anche con quel corpo che non esiste.

Sente la foresta ondeggiare, tremolare attorno a lui. Un rigurgito di vita che li circonda, e li isola, bollandoli fermamente come elementi estranei. La sente muoversi, respirare. Vorrebbe caricarsi il ragazzino sulla sella e continuare senza mai fermarsi, ma il suo cavallo ha bisogno di riposo, e neppure il suo forzato compagno di viaggio sembra esattamente al suo meglio.

Si alza di nuovo per controllarlo, inquieto. Le caviglie sono gonfie, la pelle scotta sotto i suoi palmi. Ha cercato di essere il più attento possibile, di evitare il tendine, ma gli ha pur sempre traforato la carne con una corda per essere sicuro che non potesse correre, che non potesse scappare. Non che davvero servisse, visto che non dorme, ma vuole essere certo che il suo viaggio continui con il minimo ritardo possibile. Ha fatto molta strada per trovarlo, ed ora ce l’ha tra le mani. La sua redenzione.

L’ha detto a Sora, una volta. Erano scappati dal castello per una piccola avventura nella foresta dietro le colline, solo loro due, e si erano persi tra gli alberi. Sora era un po’ spaventato, ma lui sembrava così sicuro di sé che per non sembrare quello pauroso aveva finto di non esserlo affatto, che non era questo grande problema.

Si erano fermati di fronte ad un fiume, per far abbeverare i cavalli. Riku aveva aperto la mappa e cercato la direzione migliore da seguire, mentre Sora gironzolava attorno inquieto. I suoi occhi blu sembravano incredibilmente grandi, incredibilmente luminosi. Riku si era chiesto se avrebbero avuto la stessa luce, se Sora avrebbe finto di essere un bambino coraggioso nonostante fosse terrorizzato mentre il suo migliore amico lo fotteva sull’erba umida.

Poi Riku aveva alzato la testa all’improvviso, senza motivo. L’aveva guardato e l’aveva detto ad alta voce.

Farei qualunque cosa, se tu me lo chiedessi.

Sora aveva sbattuto le palpebre, ed aveva riso. Non aveva capito fino a che punto lo intendeva. Fino a che punto si sarebbe spinto.

Quando ha aperto le caviglie di quel ragazzino con una daga, e l’ha sentito urlare e urlare come se non fosse neanche un essere umano -un sudicio maiale al macello, nient’altro-, ha realizzato che non l’aveva capito neppure lui stesso. Ma lo sa, ora, e nonostante ciò che è successo non riesce a fare a meno di pensare che non esiste niente di più puro e devoto di quello -la volontà suicida di corrompere il suo stesso cuore per lui, di dedicargli le azioni più infime e terribili che sia in grado di fare. Offrirgli qualcosa di così intimo e dargli il potere di sporcarlo, rovinarlo per sempre.

È questo il suo regalo per Sora, ha pensato mentre il ragazzino finalmente sveniva e si zittiva, e lui passava la corda tra le piaghe sanguinanti. La cosa più importante che possiede deturpata fino a non avere più alcun valore.

(Non è amore, questo?)

Se non lo è, allora non sa che nome dargli, perché gli hanno insegnato che è quella la più alta forma di devozione. Neppure tradirla l’ha cancellata.

Percepisce l’arrivo dell’alba come una corrente sotto la pelle, la sente nell’aria, nel delicato fremere delle ombre. La foresta è profonda, e oscura, ed il sole deve lottare per attraversare le sue fronde fitte, ma lentamente i colori tornano a brillare, e tutte le cose notturne che strisciavano e si agitavano nella terra e nell’erba e nel cielo cupo si ritirano a dormire. Un altro Lungo Giorno. Riku guarda la minuscola porzione di cielo tra i rami degli alberi e vede il nero schiarirsi pian piano, tornare all’azzurro limpido di una mattina d’estate.

(È estate, adesso? Quanto a lungo ha dormito?)

Il suo cavallo si agita inquieto, e Riku solleva il ragazzino come se non avesse peso. Lui spalanca gli occhi -così blu, sempre così fottutamente blu-, e si dimena per istinto. Gli urla di lasciarlo andare, di togliergli le sue sudice mani di dosso. Riku vede la sua disperazione, ma sono scaglie, frammenti dispersi nelle rapide gorgoglianti della sua rabbia. È furioso e Riku sente la sua pelle rispondere, perché ha conosciuto lo stesso odio, la stessa collera e la stessa strisciante rassegnazione. Alla fine rimarrà solo quella. Riku lo sa bene.

«Stiamo per entrare in un villaggio» lo informa pacatamente, ignorandolo mentre lo sbatte sul suo cavallo come un sacco. Non gli parla mai, se non è strettamente necessario. Monta in sella un attimo dopo. «Sarai presentato come il mio schiavo. Non cercare aiuto, nessuno te lo darà. E non pensare neanche per un attimo che una ventina di contadini possano in qualunque modo essermi d’intralcio.»

«Credi che m’importi se per aiutarmi creperanno tutti?»

Riku lo guarda. Lo ha sottovalutato, forse.

Qualcosa pizzica sotto la sua pelle, nella sua gola. Ride per la prima volta da molto, moltissimo tempo.

«Suppongo di no. Ma è meglio se non cerchi di buttarti giù da cavallo come l’ultima volta, Hayner. Non è servito a molto.» E se non l’avesse acchiappato in tempo si sarebbe spaccato una spalla sul selciato.

Lui lo guarda con occhi duri, e fieri. Un animale non addomesticato.

«Mi chiamo Roxas» gli dice, un attimo prima che gli ficchi un bavaglio in bocca.

Certo, Roxas. Cosa aveva detto prima?

Scrolla le spalle, tenendoselo addosso mentre attraversa la foresta. Sente il suo odore fino al cervello. Sporco e sudore, principalmente, ma c’è qualcos’altro sotto. L’odore della sua pelle. È un sollievo che non può neppure cominciare a spiegare sentirlo così diverso da quello di Sora.

Si chiede come sarebbe, rivedere Sora con i suoi veri occhi. Si chiede se sembrerebbe ancora così piccolo, così fragile, se riuscirebbe a catturare tutti i riflessi della sua pelle, il modo in cui le ombre tracciano il profilo delle sue braccia, le ombreggiature sul suo viso.

Chiude gli occhi, solo un attimo.

Una stanza in penombra, voci lontane come piume. Qualcosa di appiccicoso sulle sue mani, sulla sua faccia. L’odore attaccato alla pelle che lo fa impazzire.

Non deve, non deve ricordare.

Qualcuno che gli pulisce la faccia.

Sh, buono, buono.

Una benda sui suoi occhi. Finalmente. Buio.

Non piangere, Riku.

Riavvolge ancora i suoi ricordi, torna ancora più indietro. Sente il peso del ragazzino tra le sue braccia, il movimento costante del cavallo, ma è in un’altra foresta adesso, in un altro tempo. Sora lo guarda di nuovo con quella insostenibile incrinabile fiducia, anche se è spaventato, e ce l’ha un po’ con lui perché Riku non lo è.

Sora non può saperlo, ma Riku ha un ingiusto vantaggio si di lui. A Riku non importa di restare nella foresta per sempre.



Sentì i bambini ridere, correndo a piedi scalzi fuori dal frutteto. Un’altra casa, altro cibo pagato con soldi rubati ed altre tracce sempre più fievoli. Una ragazzina bionda scivolò e finì di faccia in una pozzanghera fangosa, ed un’altra l’aiutò pazientemente a rialzarsi, mentre la sorella maggiore li guardava accigliata a braccia incrociate.

«Se continui a starle appresso non imparerà mai a camminare da sola, Yuna.»

Lei scrollò le spalle. «Non posso neanche continuare a lasciarla cadere.»

Ricordi che tamburellavano sotto la superficie.

«Abbiamo visto quelli che stai cercando, sì. Anche se sono passate settimane ormai.» La voce del fattore lo riportò indietro, e le ragazzine finirono subito dimenticate. «Si sono diretti da quella parte, oltre il bosco. Ma non c’è niente, là. Solo ruderi.»

Roxas era ancora vivo. Ne era sicuro. Non aveva senso fare tanta strada per ucciderlo ora.

«Come stava il ragazzino?»

L’uomo esitò, masticando nervosamente lo stecco che teneva in bocca. «Non bene. È tuo parente?»

In un certo senso l’unico che aveva. Annuì. «Lo sto cercando da molto tempo.»

Il fattore si grattò i capelli biondi. «Ho già visto quel tipo di ferite. Meglio che ti sbrighi.»

Axel annuì di nuovo. Non c’era molto da dire.

Stava per rimontare in sella, quando sentì qualcuno tirargli l’orlo del mantello. Era la ragazzina di prima, Yuna, possibile? Aveva occhi grandi e spaventati, come se stesse per confessargli un terribile segreto. Uno verde ed uno blu. Sua madre gli diceva che portavano sfortuna.

«Stai attento, o Ansem prenderà anche te.»

«…Ansem?»

Il fattore, che li aveva sentiti, sbuffò. «Sei troppo grande per credere a queste storie, ed il nostro ospite non ha tempo di ascoltare le sciocchezze di una ragazzina. Torna a raccogliere le mele con le tue sorelle.»

Ma la ragazzina continuava a stringergli il mantello, con ostinazione.

«È il cavaliere in nero. Si risveglia una volta ogni cento anni, e vaga sulla terra in cerca di qualcuno da portare nel suo castello di rovi. Nessuno torna mai.»

«Lasciala perdere. Vecchie favole che le balie raccontano ai bambini per farli stare buoni.» Sospirò. «Non esiste nessun Ansem. E di certo non ha dormito qui, di questo puoi star sicura» aggiunse, al suo indirizzo.

La bambina tenne l’orlo del suo mantello ancora per un attimo, prima di lasciarlo andare.

«Stai attento» ripeté, mordendosi le guance. «Perché stai andando dritto ad Hollow Bastion.»

Poi girò sui tacchi e corse via, dove le sue sorelle la stavano aspettando.

Vecchie favole dimenticate.

Eppure lì stava ora, a guardare le accecanti guglie bianche di un castello abbandonato oltre una foresta di rovi.



Come lo riconoscerò? le ha chiesto prima di partire, ginocchio a terra di fronte alla porta della torre, il suo cavallo appena risvegliato dal suo sonno che scuoteva la testa poco distante.

Lei gli ha coperto gli occhi con una mano.

Lo vedrai. E saprai che è lui.

Cosa succederà se si sbaglia?

È stato sul punto di dirlo, ma poi si è fermato, riprendendosi indietro i suoi dubbi e costringendosi ad inghiottirli. Non avrebbe sbagliato. È Riku. Non può sbagliare.

E quando lo vede, in un vicolo buio in una città dimenticata, capisce immediatamente che è quello che gli serve per riportarlo indietro. Non esita.

(Non ha mai esitato. Neppure una volta.)

«Vuoi salire?»

Il ragazzino alza la faccia, lo guarda. I suoi occhi si stringono impercettibilmente, ma lui vede quella pazzesca sfumatura di blu, quella luce devastante e sa, sa che è quello giusto. Sa che è quello che ha cercato per miglia e miglia, di villaggio in villaggio, senza mai fermarsi. Senza mai dormire.

«Dove mi porti?»

Sente un sorriso crepargli la faccia. Lo sente rompere la struttura pietrificata di quel viso che non gli appartiene.

«In un castello lontano lontano.»

Il ragazzino esita, i suoi occhi si stringono ancora di più. Gli somiglia incredibilmente. Anche in quel posto ed in quel tempo (tempo?), anche con un’altra anima a muoverlo, è ancora incredibilmente bello.

Poi il ragazzino sorride, e l’immagine si distorce appena. C’è qualcosa di rapace sotto la sua bocca, sotto i suoi occhi. Riku sbatte le palpebre come se fosse abbagliato, ma è l’esatto opposto.

«Certo.» Prende la mano che Riku gli porge, si lascia issare a cavallo. «Io sono Roxas.»««

Lo dice come se fosse una sfida. Riku non la coglie.

«Io non sono nessuno.»

È tempo di tornare a casa, ormai.



He gives his harness bells a shake

To ask if there is some mistake.

The only other sound's the sweep

Of easy wind and downy flake.



Aveva percorso miglia come leghe, giorni come anni, e lì era arrivato. Senza un cavallo, scappato al primo tentativo di infilarsi nel gigantesco roveto, e senza un mantello, ridotto ormai a brandelli. Sette paia di scarpe di ferro consumate per cercarlo. Ed ora era in un castello popolato da morti che sembravano soltanto addormentati, sul punto di svegliarsi, ma le loro carni erano consumate, e le loro pelli come cuoio, e le sue mani avevano toccato troppi cadaveri per non riconoscerne uno quando lo vedeva.

Non importava che quel castello fosse stregato. Nessuno si sarebbe risvegliato, mai più.

Ma Roxas non era tra loro, non tra gli stallieri caduti come bambole di pezza vicino agli abbeveratoi, non tra gli sguatteri sulla strada per le cucine. Non era una nuova aggiunta a quell’orrida ed arida collezione, e ad ogni volto sconosciuto e scarnificato Axel provava un’ondata di sollievo, potente come un pugno.

Non si chiese che posto fosse quello. Ma camminava in punta di piedi, per essere certo di non svegliare nessuno. Persino l’odore della morte era stato prosciugato.

E tutto il castello cadde in un sonno profondo, insieme alla principessa addormentata.

Si costrinse a non ridere, perché non voleva sapere che suono avrebbe avuto la sua voce in quel posto, e che suono la sua risata. Bastava quello dei suoi passi a nausearlo.

Alzò la testa, e la torre si stagliò contro il cielo cupo.

Non era lì che aspettava per sempre la principessa? Nella torre più remota. Altra strada da percorrere per raggiungerla.

Solo quando fu arrivato alla scalinata a chiocciola realizzò che non aveva neanche pensato di tirar fuori la spada. Si era infilato nella tana del leone, e dopo aver abbattuto i rovi che lo chiudevano fuori l’aveva rinfoderata senza neppure pensarci. Chiunque avesse deciso di attaccarlo, in quel luogo così silenzioso, di certo l’avrebbe sentito arrivare. Ma era sconsiderato abbassare la guardia in quella maniera, e Axel impugnò la spada con entrambe le mani mentre saliva la stretta scalinata, rallentando per non sbatterla contro i muri che gli si chiudevano addosso.

Attraversò stanze vuote, cucine che non avevano visto cibo per secoli, salotti mai usati. Non c’era un filo di polvere, finto come se fosse stato messo in posa il giorno prima. Un passo dietro l’altro, pelle d’oca sul suo collo quando piantò il piede in un tappeto, e lo sentì affondare.

Esisteva, allora.

C’era qualcosa di vero in quel posto?

Continuò a salire, testardamente, anche se persino quella parte più dura e temprata di sé, quella che si era macchiata di tanto sangue da poterne richiamare il sapore sulla lingua ogni momento, bussava sotto la sua pelle e strattonava per scappare.

Ma persino quella, persino l’istinto primordiale di sopravvivenza che credeva di aver estirpato anni prima, si zittì quando arrivò alla stanza bianca.

L’unica cosa che si vedeva, un uovo gigantesco e traslucido collegato al pavimento da reti luminose, come una pianta carnivora con le radici profondamente infossate nel terreno, ricambiò il suo sguardo. Pensava di essere vuoto, ma solo quando guardò quella cosa, quell’abominio che non capiva ma che sembrava più orribile di tutti i corpi mutilati che avesse mai visto, realizzò che per la prima volta nella sua vita non c’era davvero più niente sotto la sua pelle.

Non si rese neanche conto di aver abbassato la spada, di aver colmato la distanza. Cercò di aprirlo, ma sentì resistenza. Tirò più forte, e ancora, e ancora. C’era una piccola consolle di fianco, pulsanti trasparenti e luminosi. La tagliò in un due con la spada come un’ascia, senza nessuna tecnica, solo l’intento deliberato e istintivo di distruggere. Riprese a tirare la porta. La colpì con l’elsa, la grandinò di calci e pugni. Tirò ancora.

La porta sigillata finalmente s’incrinò, lasciando fuoriuscire un liquido giallastro che puzzava in maniera insopportabile in piccoli zampilli. Nel giro di un attimo aveva impiastricciato il pavimento dell’intera stanza, mentre la struttura si frantumava, sezioni collassavano, e bip sempre più allarmanti e frenetici si susseguivano come un lamenti.

Poi Axel tirò ancora, più forte, tirò come se fosse l’ultima cosa che avrebbe fatto nella sua vita, perché anche se non sapeva cosa c’era dentro, anche se non voleva saperlo, sapeva che quella cosa doveva essere aperta, doveva essere distrutta. La porta cedette con uno schiocco, e qualcosa di viscido e umido ed irriconoscibile gli cadde addosso con un rumore molle e bagnato che gli fece salire la bile fino in gola.

La tenne per istinto, e sentì le dita affondare in qualcosa di cedevole, putrefatto, rivoltante, e guardando quella che doveva essere stata tempo prima la faccia di qualcuno che conosceva lo riconobbe, perché sapeva, aveva sempre saputo, e lasciandolo cadere -le mani che perdevano la presa, la spada che cadeva tintinnando sul pavimento- si piegò in due e vomitò. Non urlò, non pianse -solo conati dopo conati, il suo corpo che reagiva per puro istinto mentre la sua mente scivolava via, pezzo per pezzo.

Fu solo quando ebbe finito, eternità dopo, realizzò che c’era qualcuno in piedi vicino a lui.

Afferrò l’elsa della spada, viscida, scivolosa, senza neppure pensare. Schizzi di cose che non voleva sapere gli arrivarono in faccia quando si alzò di scatto, e la punta della lama ondeggiò davanti alla gola di una ragazzina.

«Il mio nome è Naminé» dichiarò lei con tutta calma, come se presentarsi fosse la cosa più ragionevole da fare, date le circostanze. Aveva una voce fragile, ma bucava come le sue ossa.

Axel avanzò leggermente, sentendo la resistenza della carne contro la punta della spada. Lei continuò a guardarlo con occhi azzurri che sembravano quelli di Xion, vuoti, lontanissimi. C’era l’ombra di un’espressione sulla sua faccia, ma non era sicuro che quella cosa malaticcia come un uccellino ferito fosse davvero un sorriso.

«Sei stata tu a fargli questo?»

Lei sembrò dispiaciuta, ma non si mosse. Non sembrava spaventata, o rilevare minimamente la minaccia. Una bambola vuota in un involucro di carne.

«Sono stata io.»

Axel non pensò. Affondò la spada con un movimento secco, preciso, e quasi le franò addosso quando la trapassò senza incontrare resistenza, e lui realizzò, finalmente, che la ragazzina non era davvero lì.

«Mi dispiace» disse lei, ed era incredibile come riuscisse a sembrare sincera. Axel recuperò l’equilibrio in un attimo, e la fissò guardingo, pronto per il prossimo assalto. «Non ho più un vero corpo da tanto, tanto tempo.»

Ma Axel conosceva perfettamente qualcuno che un corpo, invece, lo aveva.

«Dov’è lui?» Esitò un solo attimo. «Dov’è Ansem?»

Lei abbassò le palpebre, lentamente. Le ciglia a fremere come farfalle sul suo faccino traslucido.

«Di sopra.» Aprì la bocca, come se volesse aggiungere qualcosa, ma la richiuse. «È di sopra» ripeté soltanto.

Colpa sulla sua faccia, e qualcos’altro, più indefinibile, appiccicoso come miele sulle dita.

La sorpassò senza fare domande. Non si chiese neppure perché somigliasse così tremendamente al sollievo.

Salì le scale due gradini alla volta, gli stivali impiastricciati che  si appiccicavano al marmo. Un rumore sdrucciolevole, come un risucchio, a marchiare ogni passo. Lo stava sentendo arrivare? Strinse la presa sull’elsa, ma non era veramente preoccupato. Potevano mandargli contro tutto quello che avevano, e lui avrebbe bruciato, e bruciato. Divorato la sua strada fino a lui.

Poi il corridoio si aprì in una stanza enorme e pesante, tende scure che pendevano dal soffitto, armadi e mobili come monoliti, e Axel esitò un attimo davanti ai corpi abbandonati sul letto. Ma c’era qualcun altro inginocchiato come un supplice, profondamente addormentato, ed Axel aveva già alzato la spada.

…e quando il principe finalmente vide la principessa, rimase così incantato dal suo splendore che cadde in ginocchio di fianco al suo letto…

Stupide storie. Colse un’impressione vaga, macchie di colore come schizzi su una tela -bianco su nero, pelle scura come legno di quercia, così vecchio, così sgraziato, lineamenti sbozzati sulla pietra-, ma aveva già abbassato la spada ormai. Sbagliò la mira, e la lama s’incastrò come un’ascia appena sopra il collo, sfondando la nuca. Frammenti di osso e cartilagine che schizzarono, sangue invisibile sul copriletto scuro. Non un fiato.

Fece forza per estrarla, e dopo alcuni tentativi la lama si scastrò dal suo corpo con un suono fradicio, nauseante. Axel non sbatté neppure le palpebre. Un altro colpo, stavolta dritto sul collo. Capelli che cadevano a manciate, rosso sul bianco. L’uomo in nero non sussultò neanche. Axel alzò la lama ed affondò di nuovo, ed ancora. Legamenti che si spezzavano, si tendevano, carne che si apriva come una mela marcia. Qualcosa che si strappava, sangue che gorgogliava appena sotto la superficie. Avrebbe voluto sentirlo urlare.

Poi la spada si piantò nel materasso, facendo a pezzi le coperte. La scastrò brutalmente, e la testa rotolò fino al bordo e dopo essere rimasta sospesa per un attimo cadde con un tonfo bagnato. C’erano piume attaccate alla lama. Axel guardò il corpo immobile della cosa che aveva appena ucciso, e lo vide cambiare lentamente, la pelle perdere colore, le dimensioni scivolare goccia goccia in qualcos’altro. Sbatté le palpebre. Era stato reale, prima?

«Non c’era altro modo, vero?»

Si girò di scatto, la spada alzata per affrontare una minaccia. Una voce -una voce viva- l’aveva spaventato quando nient’altro c’era riuscito, in quel posto.

Ma era solo Naminé, e Axel abbassò di appena una frazione di centimetro la spada mentre lei si avvicinava a passi piccoli e dolorosi, come se ogni movimento facesse male in maniera indicibile. La guardò inginocchiarsi per terra, prendere in grembo la testa. Il suo vestito bianco s’inzuppò immediatamente di sangue. Axel la fissò in silenzio e vide che era la faccia di un ragazzino, quella, ma non sentì niente, neppure sorpresa. Di certo non compassione.

Naminé guardò la testa con affetto, ossa e carne e strisce di pelle che pendevano dal collo reciso, come se non fosse neppure lontanamente ripugnante. La osservò accarezzargli i capelli impiastricciati di sangue.

«Riku non ha mai capito che Sora non si sarebbe svegliato» dichiarò a voce bassa, come per rivelargli un segreto. Stava sorridendo, con una dolcezza velenosa, rivoltante. Gli si appiccicava addosso come polpa marcita. «Non sono riuscita a dirglielo, sai. Che tutto questo -tutto- non serviva a niente, solo a farlo sognare ancora. Altri cento anni passati come minuti, e poi l’espiazione, qualcuno da trovare per riportarlo indietro. Per sentirsi meno colpevole.» Gli scostò la frangia insanguinata dalla fronte. La testa aveva gli occhi chiusi. Sembrava oscenamente serena. «Non è quello che vogliamo tutti? Un unico momento di pace.»

Voleva davvero sapere? Roxas era morto. Che gli importava?

«Cosa cazzo è successo qui dentro?» chiese ugualmente, perché non riusciva ad andarsene, non riusciva a staccarsi -non riusciva a smettere di guardarla lisciare i capelli di quella cosa morta oh così teneramente, e non sopportava l’idea di ascoltare di nuovo quel silenzio pregno del suono della putrefazione, se mai ne esisteva uno. Abbassò ancora un po’ la spada, ma non la ritrasse. Era stato abbastanza per uccidere quella cosa mostruosa? Avrebbe voluto piantarla nel suo corpo decapitato ancora e ancora, fino a schizzare tutto di sangue.

Naminé chiuse gli occhi, solo per un attimo. Erano di nuovo di quella lontana indescrivibile sfumatura di azzurro quando li riaprì, e lo guardò come se vedesse attraverso di lui.

«Era stata una mia idea, sai. Il fidanzamento ed il matrimonio. Re Mickey ha ascoltato la sua figlioccia. Perché no, dopotutto? Nessuno li conosceva come me. Sarebbero stati felici, ho detto, finché fossero stati insieme.» Fece una piccola pausa, tornando a guardare in basso. Prese tra le dita le punte dei capelli di Ansem -Riku?-, e le lasciò scivolare lentamente. «Era doloroso da vedere. Pensava di avere qualche speranza, prima o poi, che se avesse aspettato abbastanza e avuto abbastanza pazienza avrebbe avuto quello che voleva. Avrebbe aspettato tutta la vita, lo sapeva lui e lo sapevo anch’io. Anche Kairi lo sapeva. Avrebbe aspettato e sarebbe diventato un vecchio pieno di un risentimento che prima o poi l’avrebbe ucciso. Ho pensato che così sarebbe stato meglio. Nessuna illusione. Avrebbe potuto affrontare il fatto che non l’avrebbe mai avuto ed andare avanti.»

Axel lasciò scendere ancora la lama, fino a puntarla a terra. Era pesante da tenere alzata, e non vedeva più minacce, ormai. Ignorò il senso di rivoltante devastazione che gli strisciava sotto la pelle. Guardò il corpo decapitato e vide che la sua mano era vicina a quella del ragazzino addormentato, ma non la toccava. Patetico, pensò, da molto lontano. Il sangue continuava a scorrere, sempre più lentamente, impregnando le coperte ed il materasso e gocciolando sul marmo. Era schizzato fino alla guancia di Sora, ma a parte quella singola macchia non si vedeva nient’altro. Il ruggine dei suoi vestiti l’aveva assorbito.

«Indovino -qualcosa non è andato secondo i piani?»

«Qualcosa lo fa mai?» L’ombra di una risata nella sua voce. Axel non capiva se fosse felice o incredibilmente triste. Tutto sembrava sfarfallare sul suo viso, e scivolare via un attimo dopo, come se la sua pelle non riuscisse a trattenerlo. «Riku… ha reagito peggio del previsto. Dovevo preparare Kairi per le nozze, sai, ma quando sono arrivata non c’era più nessuno da preparare.» Naminé gli lisciò i capelli sulla tempia, con amore. «Riku stava piangendo in un angolo. Non ho mai sentito nessuno piangere in quel modo, nessuno di quei ragazzini che Riku ha portato qui negli anni, e le urla erano orribili, orribili, ogni volta lo stesso, non riusciva neppure ad essere peggio, ma non ho mai sentito nessuno piangere come Riku quella notte. Non ha neanche gridato, sai? Neanche gridato.»

«…fammi capire. La storia delirante del cavaliere in nero che rapisce un bambino ogni cento anni è vera, e tutto perché questo idiota, questo piccolo stupido patetico ragazzino che non poteva accettare un no come risposta ha dato di matto perché voleva qualcosa che non poteva avere…?»

«Riku ha sempre voluto cose che non poteva avere. Ed ha sempre lasciato che fossero quelle a dominarlo.» Naminé chiuse gli occhi, senza rilevare l’incredulo furore della sua voce. «È stata colpa mia. Dovevo fare qualcosa, non credi? Così ho gettato un incantesimo su tutto il castello, e mi sono rinchiusa nel pod perché il mio corpo lo alimentasse.» Accarezzò il pavimento con la punta delle dita. «Sono entrata nelle pareti, nei soffitti di questo posto. Sono nella torre e nelle mura e nel cortile, e perché nessuno disturbasse il nostro sonno ho protetto il castello con un impenetrabile bosco di rovi. Ho dato a Riku un corpo che non invecchiasse, ed ogni volta l’ho portato a dimenticare. Sora sarà sveglio, domani. Chiudi gli occhi, Riku. Puoi riposare, adesso.»

«Hai idea di quanto tutto questo sia assurdo?» Axel sentì la bile che gli gorgogliava in gola, ma non c’era più niente da vomitare nel suo stomaco svuotato. Era per questo che Roxas era morto in quel modo? Per questo?

Naminé chiuse gli occhi, con dolcezza.

«Possiamo riposare tutti, ora. Ti ringrazio.»

Non lo stava più ascoltando. Axel scosse la testa. Follia che gocciolava come sangue sul pavimento. Voleva solo svegliarsi.

«Che succederà adesso?»

Naminé scrollò le spalle. «Senza nessuno ad alimentarlo, l’incantesimo si esaurirà lentamente. Hai distrutto il pod prima che il processo fosse completato, quindi credo che durerà al massimo un’altra cinquantina d’anni.» Gli sorrise, un sorriso radioso, terrificante. «Poi scomparirò, finalmente.»

Axel annuì. Guardò il letto con le due figure immobili, e fece un passo verso di loro.

«Kairi è morta, lo sai. Sono tutti morti. Soltanto Sora è addormentato.»

Axel sollevò la spada fin sopra la testa.

«Non è stato un sogno incredibilmente lungo?»

…e la Bella Addormentata si risvegliò con un bacio.



Sente il suo respiro, prima ancora di uscire dal sonno.

Tiene gli occhi chiusi a lungo, si aggrappa alle immagini rimaste impresse nella sua mente. Frammenti di sogni che gli scivolano tra le dita. Sogni in cui è felice. Sogni in cui riesce a ricordare.

Si aggrappa al vecchio se stesso prima che sprofondi, e per un attimo è su un prato al tramonto, e Sora tiene le loro mani come se potesse trattenerli per sempre, e proteggerli dall’andare in pezzi. Ma la sua stretta non è forte abbastanza, non lo è mai stata, e Riku apre gli occhi sulla sua mano immobile, le dita morte che non possono stringere più niente.

Il passato che va sempre più giù, inabissandosi inesorabilmente, i ricordi che cadono goccia a goccia, e lui non ha abbastanza fiato per tuffarsi così a fondo. Ma non importa, finché riesce a ricordare l’unica cosa rimasta da fare.

(Ancora una, prima di riposare.)

Alza la testa, e barcolla un attimo. Proporzioni così sbagliate da sentirle come fratture fino alle ossa.

Mi stringeresti, adesso?

La stanza sembra diversa, più piccola, i muri come gabbie, le porte come fessure. Ma è lui ad essere cambiato, e quando guarda in basso, frenetico, terrorizzato, gli spezza il cuore vedere che anche il modo in cui percepisce Sora è cambiato.

È sempre stato così piccolo?

(Stoffa e pelle e carne che si aprono come frutti maturi sotto le sue mani.)

I vestiti da cerimonia lo soffocano, lo schiacciano. Gli stivali fino al ginocchio, i pantaloni ricamati, gonfi, le maniche strette della tunica e le spalle larghe, il mantello allacciato sotto la gola. La corona spessa, pesante, un po’ storta. Gliela riaggiusta con un gesto meccanico, e sussulta quando vede la sua mano, ed è grande, scura.

Ha funzionato, dopotutto.

(Qualcuno aveva gridato?)

Sangue sulla sua pelle bianca. Si sfrega le mani sulla lunga giacca nera, e quando le guarda di nuovo è contento di trovarle diverse, le mani di qualcun altro che possono macchiarsi e macchiarsi senza sporcarlo. Così corrotto che neanche l’ossido si vede più, ormai.

Kairi dorme più in là, gli occhi spalancati. Una piccola bambola con i vestiti della madre. È bellissima, così congelata. Remota, irraggiungibile. Perfetta.

La sente arrivare come un soffio freddo sulla nuca. Un attimo e Naminé è alle sue spalle, e lui non ha bisogno di girarsi per saperlo.

«Quanto ho dormito?» le chiede, senza reale interesse. Dovrebbe metterci di più ad abituarsi al suo nuovo corpo, ma è come se fosse rimasto rinchiuso lì dentro per secoli. Non sa se potrà mai uscirne, e non gli interessa. Gli va bene così. Almeno non dovrà più sforzarsi di sembrare normale, e la gente potrà allontanarlo come la bestia che è. Niente più trucchi, niente più bugie. Orrendo all’esterno come sa di esserlo sotto la sua pelle, una ferita infetta ed incancrenita nel suo cuore marcito.

(Cos’hai fatto?)

Sente il suo sorriso come se fosse un rumore, senza vederlo.

«Soltanto un pochino.» Si ferma, prende un respiro profondo. Sta per immergersi. Giù giù giù. «Sei pronto a partire?»

Vorrebbe riposare ancora, e continuare a sognare. Ma si alza in piedi, e sente quel corpo che non gli appartiene rispondere, lo sente vivo attorno a lui. Più forte, più resistente. In grado di portare a termine il suo compito, di fare ammenda.

Avrà tutto il tempo per riposare, poi. Potrà sognare così a lungo da dimenticare di essere stato sveglio, una volta, e di essere stato un mostro.

Ma ha promesse da mantenere, adesso.

E miglia da percorrere, prima di dormire.



The woods are lovely, dark and deep.

But I have promises to keep,

And miles to go before I sleep,

And miles to go before I sleep.



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Note dell’autrice:

La prima delle mie storielle Disney è pubblicata! ;*; Non è la prima che ho scritto, ma l’altra è più lunga e ci sono un po’ di cose da ritoccare XD

Che altro dire ;_; Era da un po’ che non scrivevo, quindi questa storiella ha tutto il mio affetto *heart* La poesia citata è Stopping by Woods on a Snowing Evening, di Robert Frost.

Fatemi sapere se vi è piaciuta *_*

Selina



  
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