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Autore: Meggie    10/03/2010    7 recensioni
Sono passati anni da quando si sono visti l'ultima volta. Anni. Eppure c'è ancora qualcosa. Qualcosa non quantificabile e neppure nominabile, ma c'è. E Sana lo sa.
Genere: Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sana Kurata/Rossana Smith
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: Niente di quanto narrato mi appartiene. Questa breve shot è ispirata alla bellissima Brothers…? di liz, ma penso sia leggibile anche da sola (non saprei se considerarlo esattamente uno spin off, quindi. Diciamo più o meno. Manca, infatti, anche un warning presente nella storia originale. Non l’ho inserito qui perché non c’è niente di riconducibile a quello. Ma se avete letto la storia originale, sapete di cosa sto parlando).

CAPITOLO UNICO

Capiva quando erano giornate no dalle piccole cose. A volte accadevano e lei non riusciva a farci niente, crollava come un castello di sabbia. I castelli di sabbia non hanno fondamenta solide.
Lei un tempo le aveva. Ora non più. Adesso si ritrovava appoggiata ad una sabbia fina e calda, che la rincuorava, ma che la faceva traballare ad ogni sospiro del vento. E il vento, ogni tanto, soffiava veramente troppo forte perché lei potesse resistere.
Così c’erano dei giorni in cui tutto sembrava storto. In cui tutto iniziava storto e proseguiva ancora peggio.
Quello, era uno di quei giorni. E la piccola cosa che le era capitata era successa mentre faceva la spesa, impegnata ad osservare il banco dei latticini.
E l’aveva visto.
Lui.
Alto. Biondo. Bello. Con l’aria un po’ imbronciata.
E si era sentita soffocare tra quegli scaffali pieni zeppi di oggetti inutili. Pieni di cose e vuote di lui.
Era un po’ meno alto. Un po’ meno biondo. Un po’ meno bello. E l’aria imbronciata non aveva niente delle piccole pieghe che prendevano la sua pelle quando pensava troppo intensamente o quando qualcosa lo faceva arrabbiare.
C’era un abisso tra i due.
Però era stato sufficiente.
Il cartone del latte che stringeva tra le mani si era abbattuto al suolo e lei era corsa a casa.
Era stato sufficiente per farle venire il batticuore. E per farla piangere.
Era da tanto che non le succedeva.
Ma lui aveva sempre avuto effetti sconosciuti sulla sua mente e sul suo corpo. Quindi, non se ne sorprese.
Solo, era triste pensarlo. Era triste constatarlo. Ma era così.

*

Ogni tanto la mano tremava leggermente. Era qualcosa di cui nessuno si accorgeva, perché era così lieve che al massimo poteva passare per uno spasmo involontario. Non certo per una volontà profonda e segregata all’interno del suo cervello.
Ogni tanto, però, accadeva. Era quando pensava a lui. E non c’era proprio bisogno di un pensiero martellante. Bastava qualcosa che riuscisse a ricollegarsi alla sua presenza – alla sua assenza – per farla fremere.
Prima, aveva visto un telefono e aveva pensato che le mancava la sua voce. Aveva pensato di chiamarlo.
Non l’aveva fatto.
Si era seduta davanti al mobiletto del telefono ed era rimasta lì, a fissarlo, per quasi un’ora. Poi il pensiero era sparito, l’aveva preso, accartocciato e buttato fuori dalla sua testa.
Non c’era più.
Così si era rialzata ed era tornata in camera sua.
La mano non tremava più.

*

Studiare era una palla. Ma fino ai quattordici anni aveva sempre trovato una motivazione per farlo. Adesso non ce l’aveva più.
Non aveva più molte cose. Erano rimaste indietro e lei era andata avanti. Più o meno. Se ci pensava si complimentava con se stessa.
Se non ci pensava, le veniva da piangere.
Adesso si limitava a sfogliare le pagine mentre con una matita scarabocchiava un quaderno per gli appunti. Il massimo del suo studio consisteva nel dedicare quel poco di tempo che non sapeva impiegare in altro nell’aprire e richiude un libro.
Lo faceva per noia, e per concentrarsi su qualcosa che non poteva ricollegare ad altro. Altro che rimaneva nel passato e che non era riuscita a portare avanti con sé. Lei era cresciuta. Lui era cresciuto.
Nessuno dei due lo sapeva.
Anche questo faceva male.

*

A letto, quando ogni tanto la sua mente le faceva dei brutti scherzi e le riproponeva vecchi ricordi ingenui e innamorati, si rendeva conto di quanto fosse cambiata. O di quanto non fosse cambiata affatto.
Alcune cose rimanevano.
Il batticuore c’era sempre. Ma non era più come allora. Era meno innocente, meno persistente, meno ingenuo. Non sapeva se fosse meno innamorato, perché aveva capito che lei, dell’amore, non era riuscita che a cogliere stralci improvvisati su una tela. Il quadro complessivo non le era mai stato fornito.
E a quattordici anni, poi, che amore potevi provare?
Non lo sapeva. Non sapeva se fosse mai stato amore. Ma sapeva che era stata felice, un tempo. Felice veramente, con tutte le follie del caso. Quindi sorrisi stupidi, risate nascoste e soffocate contro un cuscino, sguardo fisso. Batticuore continuo.
Adesso non trovava molti motivi per sorridere stupidamente. Né per ridacchiare come una ragazzina. Né di imbambolarsi ad osservare un ragazzo.
Alcune cose erano cambiate. Lei era cresciuta. L’amore avrebbe dovuto assumere altre forme.
E non sapeva se fosse colpa sua, che quelle forme non sapeva riconoscerle, o fosse proprio la totale assenza dell’amore. Solo che quando ci pensava le tornava in mente lui. I capelli biondi. I suoi occhi bellissimi. La smorfia sulle labbra.
Akito.
E a pensare al suo nome, tornava a fremere. La sua mano fremeva di desideri. Tantissimi desideri. Innocenti. E maliziosi.
Erano pensieri confusi, ma non sapeva se fosse amore. O rassegnazione. O malinconia per un passato che non ci sarebbe più stato.

*

Quando si svegliava, a volte rimaneva un po’ di più nel letto, a confortarsi con l’abbraccio caldo delle coperte. E a volte desiderava che ci fosse dell’altro oltre che della semplice stoffa ad avvolgerla. Era un pensiero triste e confortante allo stesso tempo. Le faceva male, la pugnalava senza riserve, ma la curava anche con una dolcezza che non riusciva a trovare da nessun altra parte. Solo nei suoi ricordi di bambina, perché all’epoca lo era, ritrovava qualcosa di quella sensazione.
Poi, però, doveva alzarsi. Abbandonare quelle coperte che riuscivano a confortarla, a farla sentire altrove, non solo con la mente ma anche con il corpo, e tutto si affievoliva dietro una normalità apparente. Non c’era niente di normale nella sua vita, se non la facciata.
Se l’era fatta bastare.
Perché ogni giorno affrontava qualcosa di nuovo e qualcosa in più. Ogni giorno si ricordava di lui un pochino di meno. O un pochino di più. Ogni giorno era una sofferenza o un piacere intensissimo.
Andava così.
Era meno ingenua di un tempo e per questo capiva che il futuro che si era figurata anni prima non avrebbe mai trovato una via per realizzarsi.
Ma ogni tanto tornava a piangere.
Ogni tanto tornava a fremere.
Ogni tanto pronunciava il suo nome nella testa ed era ancora bello come allora.
Ogni tanto tornava ad avere quattordici anni e ci credeva ancora.
Poi, però, si ricordava che, di anni, ne aveva qualcuno in più. Non tanti, ma abbastanza per guardare le cose in modo diverso.
E non piangeva più, ma si alzava dal letto convinta che sarebbe andata meglio.
E a volte andava proprio così.

****

Note finali: Auguri tata <3
In principio doveva essere molto diversa e molto meno triste. È uscita così, pazienza ._.’
Spero che ti sia piaciuta, e che piaccia anche a voi che la leggete.
E’ uno spin off, ma penso che sia leggibile anche da solo… però, leggete la storia di Liz, che tanto non ve ne potete pentire di certo <3

Titolo preso dalla canzone dei Skunk Anansie, che mi ha fatto da colonna sonora mentre scrivevo.

   
 
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