L'ULTIMO VIAGGIO DI KAMI
Quando lasciarono Freeze City arrivai io. L’odore dei
fiori era forte in quel posto dimenticato, e anche il loro, ma si stava
indebolendo. Era come se tutto si stesse allontanando da me con lentezza, come
quando ti stai svegliando da un sogno poco a poco e le immagini diventano
confuse e lontane.
Ero sicuro del mio viaggio, del mio fiuto che mi aveva portato fin lì, anche se
avevo avuto più di un dubbio, quando le tempeste si erano fatte forti, quando
il vento mi stava strappando la pelliccia di dosso, quando la neve era così
alta che a malapena riuscivo a respirare quando affondavo dentro…
Ora ero lì, un posto desolato e pieno di umani, così
tanti da farmi sentire male. Ero abituato a loro, in un certo senso, e sapevo
come mostrarmi.
Mi vedevano come un ragazzo con uno strano ciuffo bianco in mezzo ai capelli,
ma non più strano di mille altre cose che avevano
visto in quegli ultimi tempi. Il mio aspetto trasandato non era una cosa rara
da quelle parti, dove avevo visto di peggio.
Camminavo per le strade tentando di percepire gli odori, ma come già avevo
capito stavano svanendo.
Così decisi di partire.
Ero arrivato da poco, ero arrivato attirato come da un
sogno di fiori e di compagni lontani, di fratelli nella notte.
Adesso dovevo ripartire.
Affrontai deserti di ghiaccio e sabbia, vidi animali e luoghi strani, che non
avevo mai pensato potessero esistere. Mi chiamavano
Kami, per via del mio strano ciuffo, credo. Venivo da una terra lontana, ad
ovest, dove i sogni erano morti e le speranze erano ormai svanite. Non c’era
più nulla per un giovane lupo come me laggiù, solo individui che erano come
morti dentro, senz'anima, senza più colore.
Per questo ero partito, e poi… un giorno quell’odore di fiori era apparso.
L’odore mi portò sulle loro tracce, compagni coraggiosi che come me si erano
messi in viaggio, prima uno solo, poi altri. Avevano
combattuto lungo tutta la via, c’era odore di lotta dappertutto, di
sangue, di sudore. Avevo sentito la gente parlare di grossi cani, di scompigli,
di paura. In quella città li avevano cacciati, o
forse… se n’erano andati loro, in cerca del luogo da dove vengono i fiori.
Ne avevo già sentito parlare una volta, di questo
luogo lontano, leggendario. Dicevano che non esisteva, ma allora da dove
venivano i fiori? Un luogo pieno di fiori della luna non può che essere un
posto meraviglioso. Almeno, in cuor mio, era questo quello
che pensavo.
Per me esisteva.
Seguii l’odore dei fiori e quello dei compagni che lo seguivano per molto
tempo, giungendo in luoghi che sembravano pullulare di umani,
alle volte, e in altri deserti e desolati come quello dal quale ero partito un
giorno. Spesso degli uomini armati mi diedero la caccia, mi spararono addosso,
e ci mancò poco che mi uccidessero. Cercavano anche loro il branco del Lupo
Bianco, ma non ho mai capito per quale motivo.
Fu un giorno, lasciata l’ultima città, che si parò ancora una volta il deserto
davanti ai miei occhi grigi. Fu allora che la vidi.
Stavo seguendo le tracce del branco e l’odore dei fiori, quando una nuvola di
fumo all’orizzonte attirò la mia attenzione. Poi arrivò alle mie narici, forte,
diretto come un pugno allo stomaco.
Odore d’uomo, odore cattivo.
Stavo già allontanandomi, perché sapevo bene cosa quell’odore portava…
sofferenza, disperazione, morte. Appena un attimo prima
che voltassi le spalle a quella scena sopraggiunse un altro odore, ancora più
forte, ancora più sconvolgente.
Era l’odore di una femmina.
Non ne sentivo così da tanto tempo, da quando il mio viaggio era cominciato, e
forse non ne avrei mai più sentito in vita mia. Sapevo
cosa stava succedendo laggiù e allora le mie zampe scattarono, automaticamente.
Corsi come un matto, coprendo la distanza che mi separava da quel veicolo degli
umani che stava inseguendo la loro preda, e finalmente la vidi.
Era un lupo dal pelo grigio chiaro, snella e agile,
correva come una scheggia davanti a loro, quasi facendosi beffe di tutta la
loro tecnologia. Vidi che aveva una specie di fazzoletto, un foulard rosso
attorno al collo, che sventolava nella corrente.
Benché fosse molto veloce e magari era anche abituata a
quelle situazioni, l’avrebbero presa. Vidi che si aprivano i portelli
superiori del mezzo (un corazzato leggero) e che ne emergeva
un uomo armato. Fece fuoco una o due volte, ma non gli
diedi tempo per la terza.
Arrivai veloce, non capirono neanche cosa fosse successo: tagliai loro la
strada e travolsi la femmina, portandola lontano dalla loro gittata. Il veicolo
ci passò davanti, mi rialzai, la lasciai là e tornai alla carica.
Saltai sul tetto ma erano troppo veloci e scesi subito dopo. Una raffica di
mitra mi raggiunse. Il veicolo fece una svolta e ritornò su di me. Vidi quegli
uomini, erano corazzati, armati fino ai denti, come se per loro dare la caccia
ad un lupo o due fosse stato un mestiere. Erano simili agli stessi uomini che
mi avevano sparato lungo la strada del mio viaggio.
Tentarono d’investirmi ma io saltai di nuovo sul tetto, perché erano troppo
stupidi per cambiare tattica. Vidi l’esitazione nei
movimenti dell’uomo con il mitra sul tetto… un attimo e i miei denti
affondarono dentro la sua carne. Il suo odore era disgustoso, e peggio era il
sapore. L’uomo urlò poi ricadde dentro il veicolo, mentre la sua arma faceva
fuoco all’impazzata.
Doveva aver colpito qualcuno là dentro, perché dopo che saltai giù si
ribaltarono… una fiammata e quell’ammasso di ferraglia esplose.
Le fiamme si alzarono alte nel giorno infuocato del deserto, come se fossero
vive.
Mi voltai verso di lei. La vidi adesso per come gli umani la vedevano: era una
ragazza alta, capelli castani, indossava una giacca, lunga e color della
sabbia, maglietta e pantaloni scuri. Aveva un foulard rosso al collo e mi
sorrideva, anche se mi guardava severamente. Fu un attimo e poi la vidi di
nuovo per quello che era, per quello che siamo.
Lupi.
Feci un passo, feci due passi… poi caddi a terra.
Sentii il dolore solamente quando il mio volto urtò contro la sabbia del
deserto, rovente e amara. Quell’umano doveva avermi colpito, forse faceva male,
forse… non lo so, perché già non lo sentivo più.
Vidi solamente lei che mi veniva incontro, afferrandomi con i denti per il
collo.
Era la femmina più forte che avessi incontrato nella
mia breve vita. Mi trascinò per tutto il deserto, notte
e giorno, senza mai riposarsi. I suoi denti erano forti quanto la sua volontà.
Per me fu tutto come un sogno. Le cose diventavano distanti e non vedevo più
bene come prima. Per me anche l’odore dei fiori e dei lupi stava
lentamente svanendo. Era come se il destino mi stesse avvisando, come se tutto
intorno a me mi stava dicendo che non avrei più
sentito nessun odore, che quella meta per me ormai era troppo lontana. Loro se
ne stavano andando e io ero rimasto indietro.
Lei continuò a trascinarmi.
Aveva dei bellissimi occhi, tristi ma belli.
Mi disse di chiamarsi Manako.
Arrivammo a quel villaggio d’indiani che ormai non sentivo
più quasi nulla. C’era molta gente attorno a me, figure che non riuscivo più a distinguere bene. Credo avessero raccolto tutti e due nel deserto… ricordo il nitrito di un cavallo…
qualcuno che ci sollevava, e niente di più.
Era notte, una notte profonda, il cielo pieno di stelle come mille occhi che
ammiccavano verso di me, che non potevo più dir loro
nulla.
Adesso sto qui. La tenda del capovillaggio è piccola ma il fuoco è caldo. Lei
sta accanto a me, posso sentirla, anzi no, posso avvertirla.
Il capovillaggio parla lentamente e sento a malapena quello che dice, ma io
riesco a capire tutto. Parla di quel posto lontano, quel luogo dove nascevano e
crescevano i fiori della luna. Mi dice che anche io lo sto cercando, che quel
posto è ricercato da tutti e che non si può sempre trovarlo.
Si chiama Rakuen.
Non so che mi prende quando dice quel nome, mi sento strano, come se l’avessi
sempre saputo.
Il Rakuen.
Anche lei lo cerca, come me. Forse lei l’avrebbe raggiunto il Rakuen, forse…
Con le ultime forze mi stringo a lei, mentre comincio a sentire più freddo,
nonostante sia molto vicino al fuoco. Lei fa lo stesso, in questa lunga notte,
che per me forse non sarebbe mai più finita.
Il capovillaggio racconta che altri erano passati da
lui, giorni prima; altri con il mio stesso sguardo negli occhi, altri in cerca
della mia stessa meta. Mi chiede perché anch’io stavo cercando il Rakuen, e io
rispondo che non lo so. Deve essere così, dovevo
andarci, e basta.
Poi, infine, chiedo io una cosa a lui, perché per me la ricerca del Rakuen
termina in questa notte di deserto, davanti a questo fuoco, accanto a Manako.
«Qual’è il nome del Lupo Bianco» dico, con l’ultimo
respiro che ho in corpo.
Non lo sa, non l’aveva mai saputo, anche se mi dice che un capo doveva avere
forza per diventare quello che era.
Forza… ricordo i denti di Manako che mi trascinavano per il
deserto, le sue zanne...
Kiba. Doveva essere questo il suo nome.
Si dice che alla fine di un viaggio non ci si ricorda
più perché si è partiti. Io invece non l’ho mai capito.
Dentro questa tenda sento come il dilatarsi del mondo, e ogni cosa ha una sua
eco. Sento i miei pensieri che diventano lunghi e profondi, come un sasso che viene gettato in un pozzo, il cui rumore riecheggia nel buio
fino a morire. Non credo di avere rimpianti, non ho vissuto una vita che potesse farmi accorgere di averne. Non ho mai visto tante
cose… la pioggia, lo scodinzolare di un cucciolo, il tramonto in un cielo
sereno.
Il mio cielo non è mai stato sereno.
Dentro questa tenda tutto sembra rallentare, come il mio tempo, che adesso
scorre lentamente. È come se tutto si stesse chinando verso di me ad ascoltare.
Sto scivolando via…
Manako mi stringe più forte, e ritorno, forse per un altro istante
ancora.
Spero che almeno lei riesca a raggiungerlo, il
capobranco, e assieme a lui trovi i suoi compagni e il Rakuen. Forse il mio
viaggio serviva a questo, per salvarla, per fare in modo che la sua grande forza non si spegnesse in quel modo, per farle
raggiungere il Rakuen. Lei forse lo sa perché deve arrivarci.
Mi piace credere così… o almeno così la mia vita e la mia morte avranno un
senso.
Fu a lei che dissi le mie ultime parole.
«Manako, ormai non riesco più a sentire l’odore dei fiori».