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Autore: samek    16/03/2010    5 recensioni
Si dice che la casa è dove si trova il cuore, ed il mio - senza ombra di dubbio - mi attendeva lì. Il mio appartamento Baker Street era esattamente come l’avevo lasciato.
(Scritta per la 221B, Baker Street Table di holmes_ita e per la FiveFandomChallenge del BradleyJamesFan Forum)
Genere: Generale, Romantico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Spoiler!
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«Già, ho abusato un po’ delle mie forze» risposi allo sguardo stupito e preoccupato del mio migliore amico, il dottor John Watson, quando quel giorno mi presentai all’improvviso nel suo laboratorio

Fandom: Sherlock Holmes;

Pairing: Holmes/Watson;

Rating: Pg;

Prompt: 04 – Violino;

Genere: Angst, Introspettivo, Romantico.

Warning: Fluff, Pre-Slash;

Beta: Narcissa63;

Summary: Si dice che la casa è dove si trova il cuore, ed il mio - senza ombra di dubbio - mi attendeva lì. Il mio appartamento Baker Street era esattamente come l’avevo lasciato.

(Scritta per la 221B, Baker Street Table di holmes_ita e per la FiveFandomChallenge del BradleyJamesFan Forum)

 

Note: Questa fic racconta gli eventi di “Le Memorie di Sherlock Holmes - L’ultima avventura” e “Il Ritorno di Sherlock Holmes - L’avventura della casa vuota” dal punto di vista di Holmes, ed i dialoghi in corsivo sono tratti proprio da queste storie. La conclusione, invece, è  un Missing Moment ed è tutta opera mia.

Scritta per il prompt 04 – Violino della 221B Baker Street Table di holmes_ita e per la FiveFandomChallenge del BradleyJamesFan Forum.

 

DISCLAIMER: Tutti i personaggi delle saga di Sherlock Holmes non sono opera mia, bensì della mirabile penna di Sir Arthur Conan Doyle. Dato, però, che i diritti d’autore sono ormai scaduti, stappiamo tutti insieme lo spumante ed appropriamocene beatamente! XD Ah, ovviamente non mi paga nessuno, anche perché altrimenti il succitato autore si rivolterebbe nella tomba, poverello.

 

 

Casa è dove si trova il Cuore

 

Questa è la vera natura della casa:

 il luogo della pace;

 il rifugio, non soltanto da ogni torto,

 ma anche da ogni paura, dubbio e discordia.*

 

«Già, ho abusato un po’ delle mie forze» risposi allo sguardo stupito e preoccupato del mio migliore amico, il dottor John Watson, quando quel giorno mi presentai all’improvviso nel suo ambulatorio.

Ovviamente, da quando si era sposato, non ci vedevamo più tanto spesso come quando dividevamo il nostro appartamento in Baker Street, e solo di rado, ormai, chiedevo il suo intervento - unicamente per quei pochi casi in cui il suo aiuto mi sarebbe stato indispensabile.

In quei giorni avevo fatto in modo che mi credesse in Francia, così da tenerlo al sicuro e nel contempo sviare le attenzioni di chi mi dava la caccia, ed il suo stupore nel trovarmi così all’improvviso alla sua porta, notevolmente pallido e provato, era quindi del tutto giustificabile.

Ero teso e, onestamente, anche impaurito. La prima cosa che feci, quando mi invitò ad entrare, fu sprangare le finestre, evitando che le carabine di eventuali sicari potessero ferire lui o me. Poi mi accomodai e gli spiegai tutto, raccontandogli del temibile avversario che stavo affrontando e, infine, lo invitai a partire con me.

Fu avventato da parte mia proporgli quel viaggio, ma ero cosciente che probabilmente non avrei più rimesso piede in patria - non da vivo, perlomeno - e, più di ogni altra cosa, desideravo trascorrere i miei ultimi giorni con lui.

Come mi aspettavo, Watson non pensò nemmeno per un momento di rifiutare la mia offerta e fu efficientissimo nel seguire le mie direttive per arrivare in stazione e salire sul treno da me indicatogli.

Osservare la preoccupazione con la quale attendeva il mio arrivo mi scaldò il cuore, mentre seduti nel nostro scompartimento privato, gli stavo davanti travestito da sacerdote. Fu un piacere prenderlo bonariamente in giro e rivelargli che mi trovavo proprio di fronte a lui, alleggerendo così, almeno per qualche momento, l’aria tesa ed assaporando il suo volto meravigliato.

Cambiando treno dopo qualche stazione, riuscimmo a liberarci momentaneamente del professor Moriarty, e finalmente la nostra vera avventura ebbe inizio. Nonostante la mia personale guerra psicologica contro quel criminale, fu un viaggio piacevolissimo e fui felice di poter dedicare tutta la mia attenzione al mio compagno.

Mi dedicai a memorizzarne ogni dettaglio, studiando il suo profilo come facevo ai vecchi tempi. Il fisico vigoroso e prestante, il portamento elegante e composto, gli occhi decisi e sinceri, la bocca morbida e gentile… incisi nella mia mente ogni sua sfaccettatura. Mi lasciai travolgere dal suo entusiasmo, dalla gioia con cui osservava ogni tappa del nostro cammino; godetti ogni attimo della sua compagnia, lasciandomi cullare dalla presenza rassicurante di quell’uomo che mi aveva sempre affascinato.

Era una persona speciale, il mio caro Watson. Intelligente e colto, anche se non particolarmente sveglio; ma, alla luce dei suoi pregi, era un difetto che passava in secondo piano. In lui c’era una certa ingenuità di fondo che lo rendeva, senza alcuna possibilità di scampo, un animo onesto e buono. Era paziente, discreto, orgoglioso, determinato, premuroso… se non avesse avuto qualche piccolo difetto, Dio avrebbe veramente plasmato una creatura in grado di mettere in soggezione la maggior parte degli esseri umani.

E per lui, ancor più che per me stesso, ora dovevo stare costantemente all’erta. Non mi sarei mai perdonato se gli fosse accaduto qualcosa.

In quella settimana, più volte avemmo delle discussioni, perché desideravo che rientrasse a Londra, ma lui si rifiutò ostinatamente di lasciare il mio fianco.

Quando arrivammo alle cascate Reichenbach, compresi subito che il messaggio che gli venne recapitato fosse opera di Moriarty, proprio per questo lasciai che si allontanasse.

Ero pronto a morire e portare con me il professore nella tomba, senza alcun rimpianto; ma quando inaspettatamente mi salvai, compresi come fosse l’occasione per ricominciare da capo, per vivere una nuova vita, sparire dalla circolazione e fare in modo che i rimanenti scagnozzi di Moriarty perdessero le mie tracce e non importunassero il mio collega.

A fatica riuscii ad arrampicarmi sulla parete rocciosa, rischiando più volte la vita, con l’impressione che l’anima di quel malvagio professore mi stesse chiamando dalle viscere dell’inferno. Ero appena riuscito a raggiungere un punto nascosto, quando Watson tornò. Lo vidi seguire, con i metodi che gli avevo insegnato, le tracce che Moriarty ed io avevamo lasciato nella colluttazione e giungere all’inevitabile conclusione. Scrutai il suo viso angosciato ed incredulo tingersi di disperazione, mentre leggeva il messaggio che gli avevo lasciato, e dovetti fare violenza su me stesso per non rivelargli la mia presenza, sentendolo chiamare senza sosta il mio nome.

Mi aggrappai alla roccia con tanta forza da scorticarmi le dita e, intanto, lui gridava ancora ed ancora, sino a grattarsi la gola, sino a perdere la voce, cercando nuovi indizi senza darsi pace. Le sue urla mi riempivano le orecchie, i polmoni, le viscere… mi filtravano sotto pelle, mi incidevano le ossa, mi appesantivano il cuore.

Sciocco, ostinato, lealissimo amico mio. Essere testimonio della sua sofferenza e sapere di esserne l’unica causa, fu l’esperienza più dolorosa della mia vita.

Nonostante ciò - quando, infine, lo vidi allontanarsi insieme alla polizia - mi dissi che doveva andare così, che era la scelta migliore, e tale considerazione mi fu confermata dall’attacco del colonnello Moran, che mi aveva atteso appostato in cima alla scarpata.

Riuscii di nuovo a scamparla, e per tre anni viaggiai in lungo ed in largo, facendo nuove esperienze, conoscendo il mondo e scrivendo, per lasciare anonimamente qualche traccia. Speravo, forse, che il mio caro dottore leggesse quei libri – come era solito fare la sera, prima di ritirarsi in camera da letto – e vi trovasse un minimo di conforto, pur non sapendo che l’autore fossi io.

Mi convinsi che il mio sacrificio fosse necessario, che non fosse un prezzo alto da pagare per aver reso la mia patria più sicura ed aver trasformato Londra in un luogo più tranquillo, dove Watson avrebbe potuto vivere serenamente e crescere i figli che il Cielo gli avrebbe concesso.

Poi, un giorno, lessi un trafiletto sul giornale e percepii il mio stomaco tramutarsi in un blocco di ghiaccio: Mary Watson, l’amata moglie del mio amico, era morta.

Mi sentii soffocare, mentre tutti i sentimenti provati nell’ormai lontano giorno alle cascate Reichenbach, e mai sopiti del tutto, mi assalivano nuovamente, e solo allora mi resi conto di aver sempre sperato in un perdono. Invece l’avevo di nuovo lasciato solo, nell’ora più difficile, e potevo biasimare soltanto me stesso.

Forse fu destino, apprendere poco dopo la notizia di un delitto apparentemente incomprensibile, avvenuto a porte chiuse, e trovare in esso la possibilità di arrestare Moran – l’esponente più temibile della banda di Moriarty rimasto in circolazione – e tornare finalmente in Inghilterra.

Si dice che la casa è dove si trova il cuore, ed il mio – senza ombra di dubbio – mi attendeva lì.*

Il mio appartamento in Baker Street era esattamente come l’avevo lasciato. Avevo dato le mie disposizioni a mio fratello Mycroft, che aveva mantenuto tutto com’era, e quel pomeriggio, mentre mi trovavo di nuovo seduto nella mia poltrona preferita, il mio desiderio più profondo fu che in quella di fronte – come ai bei vecchi tempi – fosse accomodato il mio caro amico.

Quella stessa sera mi recai sulla scena del crimine e, sfoggiando uno dei miei migliori travestimenti, mi aggirai nel giardino gremito di curiosi, quando per un malaugurato caso qualcuno mi venne addosso. Il profumo familiare del suo dopobarba e della pomata che usava per curarsi i baffetti mi sopraffece e lo riconobbi ancor prima di alzare lo sguardo ed incontrare i suoi occhi chiari. Potei solo inscenare la parte di un vecchio bisbetico ed allontanarmi il più in fretta possibile, prima che Watson mi riconoscesse, insospettendo così i miei inseguitori.

Il cuore mi rimbombava in petto come un tamburo e, con sgomento, mi resi conto di avere il respiro affrettato. Non riuscivo a calmarmi, quella che provavo era autentica euforia, fomentata ulteriormente dal fatto che il mio buon dottore non avesse avuto alcun sospetto. Lo guardai allontanarsi e gli diedi un lieve vantaggio, prima di dirigermi al suo ambulatorio.

Fu piuttosto divertente presentarmi di fronte a lui vestito da anziano libraio, con nostalgia immaginai addirittura la sua faccia stupita, quando infine  mi sarei rivelato, ma – da vero sciocco – avevo sbagliato i miei calcoli, perché tutto ciò che ottenni fu la più ovvia delle reazioni: nel ritrovarsi davanti un amico che credeva morto, Watson svenne.

Riuscii ad afferrarlo appena prima che stramazzasse a terra e, solo allora, quando raccolsi  il suo corpo inerme tra le braccia, ebbi modo di osservarlo minuziosamente. In soli tre anni era molto invecchiato, il pallore dovuto al mancamento evidenziava delle rughe marcate sulla fronte ed agli angoli degli occhi, che davvero non ricordavo ed il suo fisico mi parve fin troppo leggero.

Mi affrettai ad adagiarlo sulla poltrona, gli slacciai la cravatta ed i primi bottoni della camicia, poi gli bagnai le labbra con del brandy. Con apprensione gli controllai il respiro, il battito cardiaco e gli posai le labbra sulla fronte, sentendomi immensamente sollevato quando vidi le sue palpebre vibrare, in procinto di schiudersi.

«Mio caro Watson» sussurrai «le devo mille scuse, non pensavo che sarebbe rimasto così sconvolto» ammisi dispiaciuto.

«Holmes!» gridò «E’ davvero lei? Può essere che lei è vivo? E’ possibile che sia riuscito a risalire da quello spaventoso abisso?» domandò in modo concitato afferrandomi le braccia, quasi avesse bisogno di assicurarsi che non fosse un sogno.

«Aspetti un attimo» intervenni «E’ sicuro di sentirsi proprio bene, tanto da parlare di questo?» scrutai quel volto ancora cereo, ma il mio amico mi diede ben poca scelta.

«Sto benissimo, ma onestamente, Holmes, non credo ai miei occhi. Pensare che lei – proprio lei – sia qui nel mio studio!» mi afferrò nuovamente la manica ed il suo volto mi parve quasi contemplativo «Be’, in ogni caso non è un fantasma» constatò piuttosto banalmente, ma volli attribuire questa frase allo stato di shock in cui ancora versava «Amico mio, non so dirle quanto sia felice di rivederla. Si sieda e mi racconti in che modo è uscito vivo da quella voragine» aggiunse poi.

Nonostante fossi ancora preoccupato, mi accomodai di fronte a lui e gli raccontai tutto, sin da quell’infausto giorno alle cascate Reichenbach. Mentre gli narravo le mie vicissitudini, annunciandogli infine che quella sera stessa ci saremo imbarcati in una nuova avventura, lo vidi riprendere poco a poco colore; sembrò quasi ringiovanire e tornare l’uomo vigoroso che conoscevo tanto bene. Watson non era mai stato un tipo rancoroso, solitamente i suoi malumori duravano poco, ma almeno in quell’occasione mi sarei aspettato rabbia e violente recriminazioni. Invece, malgrado fosse chiaro che avermi creduto morto tanto a lungo fosse stato per lui un grandissimo dolore, la gioia dell’avermi ritrovato sembrò aver soppiantato ogni altro sentimento.

Ed io mi chiesi sinceramente cosa avessi mai fatto per meritarmi tanto.

Mi supplicò di rivelargli ciò che ci aspettava, ma io non volli anticipargli nulla. Sino all’ora in cui saremmo entrati in azione, avevamo tre anni del nostro passato di cui parlare e non volevo sprecare un solo minuto.

Alle nove uscimmo e ci dirigemmo in carrozza alla nostra meta: la casa vuota dirimpetto al nostro appartamento in Baker Street. Entrammo con passo furtivo e, dato che al buio vedevo meglio di lui, gli afferrai un polso per guidarlo, sentendo i tendini tesi ed il battito cardiaco accelerato sotto i miei polpastrelli. Ci appostammo dietro alla finestra che dava proprio sul nostro vecchio alloggio e lo esortai a scrutare la vetrata del soggiorno dove, quel pomeriggio, avevo posizionato sulla mia poltrona preferita un busto di cera in tutto simile a me

«…Vediamo se, dopo tre anni di assenza, ho davvero perduto la facoltà di stupirla» sorrisi mestamente, protetto dall’oscurità, pensando all’incidente di solo qualche ora prima. Attesi pochi attimi, poi avvertii una delle sue mani cercare un contatto con il mio corpo, come per accertarsi che fossi davvero lì, accanto a lui. «Allora?» lo incalzai.

«Santo cielo, è incredibile!» esclamò, ed eccola lì, quella faccia stupita e pregna d’ammirazione, che ricordavo così bene.

«Vedo che l’età e la consuetudine non hanno diminuito la mia abilità istrionica» constatai compiaciuto. Mi faceva sentire importante quell’espressione, indispensabile… invincibile.

Gli spiegai il trucco che c’era dietro, poi ci predisponemmo all’imboscata, ma passarono delle ore e non accadde nulla, così cominciai ad innervosirmi ed a fare su e giù per la stanza. Uno dei malaugurati commenti sciocchi del mio amico non fece che irritarmi maggiormente ed avemmo una piccola discussione, però, all’improvviso, percepii un rumore e spinsi Watson contro il muro, coprendogli la bocca con un palmo. Avevo sentito dei passi attutiti sulle scale ed, dallo sguardo del mio compagno, compresi che se n’era accorto anche lui, così lo strascinai nell’angolo più buio e rimanemmo in attesa.

Un attimo dopo riconobbi la sagoma del colonnello Moran emergere dalle tenebre. Questi si accovacciò sotto al davanzale e, aprendo la finestra d’un palmo, lo usò come sostegno per il fucile, con cui sparò un colpo che andò dritto a colpire il mio sosia di cera. Nel momento in cui sentii i vetri dell’appartamento 221B andare in frantumi, gli saltai addosso, prendendolo alle spalle; ci fu una breve colluttazione e quell’uomo forte come un toro riuscì ad afferrarmi alla gola, ma Watson lo colpì alla testa con il calcio della pistola e poi lo immobilizzò a terra, piantandogli un ginocchio sulla schiena – è sempre un piacere collaborare con il mio amico. Subito dopo utilizzai il fischietto d’ordinanza per richiamare l’ispettore Lestrade ed i suoi uomini, che per tutto il tempo erano rimasti celati in strada, in borghese.

Lasciai a quest’ultimo gli oneri e gli onori di quell’arresto, e Watson ed io tornammo alla nostra modesta dimora. Lì, finalmente seduti l’uno di fronte all’altro, con le nostre pipe in mano, gli chiarii i dettagli del caso che lui ha già illustrato in un racconto intitolato “L’avventura della casa vuota”. Infine, stappammo una bottiglia di brandy e ci dedicammo ad argomenti più lieti, incuranti del trascorrere del tempo.

Ascoltare la voce del mio amico infervorarsi sulle questioni che gli stavano più a cuore, risentire la sua risata calda, vederlo glissare elegantemente sui miei commenti cinici… non so davvero dire quanto tutto ciò mi fosse mancato, e la scintilla che illuminava i suoi espressivi occhi azzurri mi fece sentire finalmente a casa. Durante quelle ore, non sempre parlammo, a volte rimanemmo in silenzio per interi minuti, come per riprendere fiato – per imbrigliare nuovamente le emozioni scalpitanti che ci squassavano – ma non era mai un silenzio pesante; era familiare, era intimo, era nostro.

«Holmes» mi chiamò all’improvviso, rompendo uno di quei momenti quieti «vorrei sentirla suonare il violino» aggiunse sorridendo.

«Mio caro Watson, non deve essere molto sobrio se mi sta chiedendo una cosa simile, nonostante siano le tre del mattino» gli feci notare, e la sua bocca si arcuò ancor di più.

«Una volta lei non si faceva di questi problemi, vecchio mio. Mostri alla signora Hudson che siamo tornati!» mi incitò sorprendentemente, ed alla fine mi lasciai convincere.

Balzai in piedi e recuperai il mio amato violino dal suo solito posto. Le palpebre di Watson si chiusero docili, quando attaccai una delle sue sonate preferite, mentre quel sorriso sereno continuava ad aleggiare sulle sue labbra.

Suonai ancora ed ancora, tutti i brani che ricordavo amasse di più, ed ogni tanto potevo avvertire il suo sguardo scrutarmi da capo a piedi, come se avesse bisogno di controllare che fossi presente. Stimando il tempo che passò rifacendomi alla lunghezza d’esecuzione delle vari pezzi, direi che suonai per almeno un’ora e, quando mi accorsi che il suo respiro si era fatto profondo e regolare, riposi il mio strumento, credendo che il dottore si fosse addormentato. Invece, nel momento in cui mi voltai al suo indirizzo, mi stava di nuovo fissando.

Stese un braccio nella mia direzione, invitandomi ad avvicinarmi e, quando posai la mia mano nella sua, accomodandomi sul bracciolo della poltrona, sussurrò semplicemente: «Grazie».

I nostri occhi s’incatenarono per un tempo interminabile, incuranti di tutto il resto, comunicando in quel modo un universo di cose non dette. Non siamo mai stati uomini avvezzi alle dimostrazioni d’affetto, ma mentre le sue dita tremanti s’intrecciavano alle mie, compresi come le parole fossero totalmente superflue. Vidi tutto il dolore che il mio amico aveva portato sul cuore negli ultimi anni, e fui cosciente che non c’era nulla che potessi fare, né frasi che potessero confortarlo.

Watson posò la fronte sul mio braccio, abbassando il capo, forse temendo di essere compatito, ed io vinsi la mia intrinseca reticenza al contatto umano e passai quello stesso braccio attorno alle sue spalle. Non c’era assolutamente niente – niente! – di cui dovesse vergognarsi di fronte a me.

Lasciammo che il silenzio continuasse a farla da padrone e gli unici rumori, nel salotto, rimasero il ticchettio della pendola, lo scoppiettio del fuoco ed i nostri respiri.

Immagino che dovesse essere stata una giornata pesante, perché, dopo pochi minuti, il dottore si assopì davvero. Cercando di non svegliarlo, ben sapendo quanto il suo sonno fosse leggero, tentai di farlo mettere più comodo, con il risultato che mi ritrovai con la testa di Watson sulle gambe.

Quando, qualche ora dopo, la luce del mattino filtrò tra le persiane, investendo i suoi capelli di riflessi dorati, provai l’istintivo impulso di accarezzarli. Il contrasto tra quelle ciocche biondo cenere e le mie dita pallide, eternamente macchiate d’inchiostro ed acidi, mi fece ritirare la mano con un senso d’orrore. Non avevo il diritto di toccarlo. Non avevo il diritto di contaminarlo.

Intanto, però, i tenui raggi del sole erano scivolati sino al suo viso, destando il mio amico. Per un secondo o due rimase immobile, poi parve realizzare di colpo dove si trovasse, spalancò le palpebre e mi afferrò un polso con una forza che mi stupì. Evidentemente le abitudini della guerra afghana non erano ancora sopite; forse un uomo non si libera mai delle ombre del passato.

«Lei è veramente qui» fu la prima cosa che mormorò.

«Sì, mio caro Watson e non vado da nessuna parte» lo rassicurai «Buongiorno» aggiunsi poi.

«Buongiorno, Holmes» replicò automaticamente, poi si rese conto di dove fossimo e la domanda seguente, posta in quel tono preoccupato tanto familiare, mi strappò un sorrisetto «E’ rimasto sveglio per tutta la notte?»

«Ha dormito solo poche ore, vecchio mio» lo rassicurai «Tuttavia abbiamo fatto appostamenti ben più lunghi ed esposti alle intemperie» gli ricordai, facendogli capire che non fosse niente.

«Sono felice che lei sia tornato» ammise, allentando di pochissimo la presa sul mio braccio.

«Anche io» convenni con sincerità assoluta.

«E vorrei tornare a stare qui, se lei è d’accordo» concluse con un filo d’esitazione.

«Questa è sempre casa sua, mio insostituibile Boswell» replicai pacato.                                                Il sole, ormai alto, ci prese alla sprovvista, rovesciando su entrambi una pioggia di luce, attraverso gli spiragli delle persiane.

Un nuovo giorno era sorto nell’appartamento 221B, in Baker Street.

 

FINE.

 

*“La casa è dove si trova il cuore” aforisma di Gaio Plinio Secondo, detto Plinio il Vecchio.

La citazione che fa da introduzione alla storia, invece, è di John Ruskin.

 

 

   
 
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