Amore andato terribilmente male
[Prompt: Abito bianco e leggero; 1'236 parole]
[Prompt: Abito bianco e leggero; 1'236 parole]
Sono un’aquila quest’oggi.
Ho
scelto d’indossare un abito bianco e leggero, sventola assieme
alla brezza primaverile, ai capelli che volano all’indietro e
sferzano con morbidezza la schiena. Mi sento perfino io eterea, senza
alcun peso; mi guardo allo specchio e il mio viso pulito mi fa stare
male. C’è un piccolo solco più scuro sulla guancia
destra, è quel dannato occhio lacrimoso… si lascia andare
nei momenti peggiori e non so come fermarlo.
Continua
a svolazzare l’orlo di pizzo. Le gambe nude, le braccia scoperte.
Un tempo adoravo i mesi caldi, mi piaceva sentire il sapore del sole
sulla faccia, non bastava neanche la più pesante goccia
d’acqua per cancellarlo dopo. Ora non sappiamo più
prenderlo tra le mani.
« Abbiamo quasi finito »
Annuisco.
Sono un’aquila quest’oggi. La mia mente viaggerà
lontana mentre osserverò loro, poggiati gli uni sugli altri,
accovacciati nei loro colori cupi. Mi guadagno un’espressione
contrariata da parte di mia madre, vorrebbe che indossassi abiti
“consoni”. « Ma io devo volare oggi, mamma »
vorrei dirle. Ma lei non ascolterebbe, ha le orecchie tappate di quella
stessa sostanza che le impastocchia il completo elegante e gli occhi e
i capelli. È sempre la stessa cianfrusaglia chimica puzzolente e
intensa, arriva fin sotto la pelle e intossica il sangue e
l’ossigeno. La riconosco: è ciò che ci trascina sul
fondo, che ci fa perire ogni giorno.
Ci sono tante parole e un prato verde ed enorme, fin troppo. Qualche monumento di pietra e troppe persone. Se non fossi qui davanti, se ci fosse qualcun altro a bloccare il passaggio, mi sentirei soffocata.
Sono
un’aquila. È necessario ricordarlo, affinché non mi
lasci abbindolare dalle passioni umane che mi sottraggono la
possibilità di spiccare in alto e lanciarmi a capofitto nel
blu… no, oggi il cielo è nero. (Sarebbe stato stupido,
altrimenti, tutto questo. Se c’è un Dio da qualche parte
lassù ha preferito non rendere vani gli sforzi di chi ha
consumato una minima parte delle proprie energie per organizzare la
celebrazione). È necessario ricordarlo perché se non
dovessi tenerlo a mente rischierei di ritrovarmi aggrappata a una
qualche colonna portante, senza riuscirmi a staccare.
La
voce di chi apre bocca è sempre la stessa, si muove di labbra in
labbra, le osservo e cerco di cogliere dei movimenti differenti, che
non siano le inutili commiserazioni e false pene. Qualcun altro ripete
il mio nome, forse è lo stesso che mi scuote la spalla e domanda
se ho voglia di “qualche parola”. Il mio essere altrove
avrebbe dovuto essere sufficiente da settimane: non parlare è,
di per sé, una voglia di non farlo. Avrebbero bisogno di usare
il cervello, almeno un altro po’. Ci dicevano che eravamo noi a
dover ragionare.
Un ultimo coro di “avrebbe dovuto cambiare il mondo” e poi siamo pronti a ignorarci per il resto dei nostri giorni. Io non dovrò guardare loro, loro non dovranno invitarmi in casa né salutarmi. Come se non ci fossimo mai stretti la mano, non avessero mai sacrificato i loro sentimenti per il figlio unico che avevano.
C’è
una voce nella mia testa che da sta mattina mi tormenta… ripete
che questa è una canzone che parla di un amore andato
terribilmente male. Se solo l’ascoltassi, forse, ci sarebbe
un’onda d’urto spaventosa e io sarei catapultata tanti anni
indietro, alla mia nascita – se fossi fortunata. Potrei
distruggere tutto ciò che faceva parte di me, annientarmi,
annullarmi e rifugiarmi nel limbo, dove dimenticare e ricordare,
respirare l’aria delle anime o ciò di cui si nutrono
– e se fosse la sofferenza degli esseri umani il loro cibo?
«
So che hai paura, che è una situazione nuova per te, che
è difficile… ma ci siamo passati tutti, e tutti siamo
stati costretti ad andare avanti perché-
» Se solo si accorgessero di quanto sfiorino la perfezione certi
giorni! Basterebbe fermarsi e riascoltare ciò che si ha detto.
Si ammirerebbero le poche frasi intelligenti esposte dal cervello, come
quella appena pronunciata “e tutti siamo stati costretti”:
è esatto. Costretti, non “abbiamo deciso”, “abbiamo voluto”.
Costrizione, obbligo, l’unica alternativa. L’altra? Morire.
Troppo semplice, dicono loro. Io sono dell’idea che sia
complicato, invece. Ed è per questo che non scelgo la via
dell’abbandonare tutto, non potrei tornare indietro e se non
esistesse alcunché cosa accadrebbe?
Rimango qui, correggo le loro affermazioni nella mia mente e volo.
Quello che ho addosso è davvero un ottimo tessuto. Mamma una volta mi raccontò che quando non volevo piangere ed ero sul punto di scoppiare mi lisciavo le gonne e massaggiavo tra le dita il tessuto, mi rilassavo e subito dopo ero pronta a sorridere di nuovo. Ho voglia di tentare, e provo. Strizzo perfino le palpebre e si formano quelle fastidiose sfere di luce. Ma nulla, non c’è altro che una sala ghermita di persone. Qualche ragazzo mi sembra più familiare di quella zia di secondo grado, e la nonna meno triste che mai.
« Per favore, potresti prendere dell’altro ponch? »
Con
piacere, vorrei rispondere. Ma non so più articolare voce, non
c’è alcun suono che abbia voglia di spuntare fuori da
chissà quale nascondiglio. Li sento, gli organi, le emozioni, le
sensazioni e i ricordi, sono tutti stipati in confusione nel mio corpo,
come se fosse una scatola disordinata e stracolma che non aspetta altro
che essere aperta e vomitare fuori tutto il suo contenuto – e
sporcare i giorni e le ore e il mio vestito.
Nel frattempo, vi lego un nastro attorno e spero che regga – almeno con qualche ritocco di tanto in tanto.
Con
un cenno della testa sono di nuovo tra di loro e porgo le caraffe di
liquido rosso a chi me le ha chieste. Forse una cugina…
È la canzone di un amore finito terribilmente male.
C’è
perfino la musica di sottofondo, si prendono gioco di me, dovrei
concentrarmi a fissare nella mente ciò che il parroco ci sta
comunicando, riguarda lui. Ma no, c’è la vocina che mi incita a uscire fuori.
«
Guarda, c’è la pioggia » E c’è il sole,
contemporaneamente. Si riflette sulle gocce e quelle sembrano diamanti.
Ed è impossibile, ora, che io li segua.
Dove?
Sul tetto. Potrei sfiorare le stelle e carezzare le aquile come me.
Volare con le mie ali, dimenticare tutto ciò che non sia
l’aria ad alta quota e il nome dell’amore andato a male e
marcito. Soltanto l’istinto di sopravvivenza ed io, che lottiamo
l’uno contro l’altro – e spero che alla fine
l’abbia vinta lui, anche se lo credo difficile. E poi tornare
qui, tra tanti anni, riguardare il giardino e scoprire
che ciò che è accaduto non è altro che frutto di
immagini raccolte in precedenza, ritrovarlo seduto sulla panchina del
parco più rumoroso e allegro, a riscaldarsi con una tazza di
caffè tra le mani e aspettare l’ispirazione. Magari si
sarebbe voltato verso di me e le mie piume marroni, mi avrebbe
accarezzato e domandato da dove provenissi. Gli avrei risposto
silenziosamente, come sono costretta oggi a esprimermi, ma lui avrebbe
compreso che il luogo da cui nasciamo è sempre lo stesso, lo
avrebbe ascoltato anche se non vi fosse stato modo.
Piove ancora di più. Il cotone è fradicio e le scarpe sono simili a un acquario, qualcuno è aggrappato alle finestre della propria casa e gli automobilisti che sfrecciano sull’asfalto suonano il clackson. Ma io… io non sento nulla. C’è soltanto la pioggia con la canzone dell’amore andato terribilmente male.