III Classificata al contest "Gossip&Omosessualità" indetto da Rekichan
Nick: Nemeryal
Titolo: Il Paradiso e l’Inferno di Christopher StreeT
Personaggi: Gaara e Rock
Lee
Genere: Drammatico
Musica: Men in Love - Gossip
Raiting: Arancione
tendente al Rosso
Avvertimenti: Yaoi – One
Shot – AU – Presenza di espressioni non propriamente caste e pure – Scene al
limite dell’esplicito di sesso
Introduzione: E se quello non era
il Paradiso, allora eri ormai certo che avresti fatto dell’Inferno la tua nuova
casa, il tuo angelico rifugio.
Note dell’autore: Kami, è la prima volta che scrivo un’Alternative
Universe..
All’inizio, questa storia volevo farla finire
con un HappyEnding, ma poi, pensando al personaggio principale di questa Shot
(Gaara), non credo che un finale felice sarebbe stato in accordo col
personaggio –e già, prego i Kami di non essere andata OOC-.
E così, niente HappyEnding. Povero
Lee, lo tratto sempre male.
Due parole sullo stile usato e sulla
linea temporale.
Come stile, ho cercato di richiamare
un poco il ritmo della canzone e, quindi, quasi somiglia ad un flusso di
pensieri ritmato dalle percussioni.
Linea temporale..allora, l’azione si
svolge partendo dalla notte precedente ai Moti di StoneWall fino a quando non
esplode la rivolta.
In quest’arco di tempo, i ricordi di
Gaara si intrecciano al presente, riportandogli alla mente dapprima a sprazzi,
e poi più dettagliatamente, i mesi e le situazioni che li hanno portato fino a
quel, diciamo, “punto di non ritorno” che è la lunga T dello StoneWall Inn.
Okay, dovrei aver detto tutto^^
Buona Lettura!
Il
Paradiso e l’Inferno di Christopher Street
Vergogna! Vergogna! Vergogna!
Vergogna, Gaara, vergognati
profondamente per ciò che sei sempre stato.
Vergognati per ciò che sei.
Vergognati per ciò che sarai per tutta
la vita.
Vergognati mentre gli mordi il lobo
dell’orecchio.
Vergognati mentre gli sfili la maglia
in modo febbrile.
Vergognati mentre lo getti sul letto
con foga.
Vergogna per ogni battito del tuo cuore diverso.
Vergogna per ogni gemito di piacere diverso.
Vergogna per ogni bacio infuocato e diverso.
Perché tu sei diverso.
Te lo ha ripetuto tuo padre, quando ti
ha tirato un pugno dopo averti scoperto a baciarlo per la prima volta, sul tuo
letto, il giorno in cui l’hai trovato davanti a casa tua, il volto gonfio e
tumefatto per le botte ricevute da qualche omofobo esaltato.
Te l’ha urlato mentre ti prendeva per
i capelli, gli occhi sgranati e solcati da linee rosse e arzigogolate e la
saliva che ti arrivava come sputo, ad ogni parola pronunciata con rabbia e veleno.
Perché per lui eri e sei un diverso, un mostro che va contro la
natura e contro Dio, un essere privo di ogni diritto.
Perciò vergognati, Gaara, mentre
intrecci le dita alle sue e gli passi le labbra sulla schiena, che si inarca
per il piacere.
Lui, che ti ha fatto conoscere quel
sentimento così diverso, ora geme e
rabbrividisce sotto il tuo tocco, rude e ancora inesperto.
Tu, che non ti eri mai sentito in quel modo fino a quando non hai avuto
diciassette anni, lo hai visto, con la sua ridicola divisa verde e i
capelli tagliati alla George Harrison, sfidando il sistema con la sua voce
stridente e il suo voler essere così diverso,
e soprattutto fiero di esserlo.
Diverso da quella massa di idioti
omofobi che lo picchiavano nei vicoli.
Diverso da quei bigotti che sputavano
sulla sua strada mentre passava.
Diverso da quegli ipocriti che si
allontanavano da lui quando passava, quasi portasse con sé un morbo che avrebbe
potuto contagiarli al solo sfiorarlo.
E mentre gli mordi il collo,
avvertendo i suoi capelli carezzarti appena la fronte, folle nella tua diversità, ti ritieni colpevole d’amore in primo grado.
E mentre fai scorrere le tue dita
affusolate dalle sue spalle lungo le braccia, senti ancora le parole di tuo
padre che ti urlano “Vergogna!” e la sua grossa mano che ti sbatte contro il
muro, facendoti cadere nell’oscurità per qualche istante.
E in quella notte hai davvero creduto
di essere maledetto, di essere diverso
e orribile.
Ogni colpo ricevuto era una pena
giusta, perché eri un mostro e come tale dovevi essere trattato, battuto come
una bestia, come l’animale che eri.
Quando ti ha lasciato andare, hai
traballato fino al lavandino e hai stretto forte la presa –come ora stai stringendo le sue dita- l’unico appiglio che ti era
rimasto con la realtà.
E hai rigettato, vomitato fino a
quando non hai sentito la gola bruciare e gli occhi gonfiarsi nelle orbite.
Volevi disfarti del parassita che si
era impossessato del tuo corpo e lo stava divorando con ferocia dall’interno,
volevi far fuoriuscire quel sangue maledetto che come un forsennato ti scorreva
nelle vene ogni volta che lo vedevi.
Quel sangue mostruoso e diverso che il cuore pompava veloce ogni
volta che il suo sguardo si posava su di te.
Tu, un uomo innamorato che lottava contro la
realtà.
Che voleva
essere diverso da ciò che era.
Ma poi non hai resistito.
Il demone dentro di te aveva fame di
lui, lo volevi e lo desideravi.
Potevi stringerti la testa fra le mani
quanto volevi, strapparti i capelli fino a sanguinare, ma il tuo corpo
desiderava ardentemente ciò che la tua mente rifiutava.
Perché lui era diverso e tu non volevi essere come lui.
Perché lui era diverso e tu lo amavi per questo.
Ti sei lasciato trasportare dalla sua
fresca e giovane diversità. Lui e la
sua mania della giovinezza. Però lui non si definiva diverso, e nemmeno gli altri lo erano.
Lui amava diversamente da molta altra gente, ma non per questo era un mostro,
ti spiegava, cercando di stringere la mano che, ostinatamente ritiravi da lui
–perché avevi paura di essere diverso-.
E ora vai, prendilo, fallo tuo!
Lascia che i tuoi ansiti si intreccino
ai suoi gemiti, in un’unica infinita danza di piacere, dove a dare il tempo è
il ritmato cigolio del letto e lo sbattere continuo della testiera contro il
muro!
Poi il sole filtra dalle persiane
appena alzate e sfreccia sul tuo viso. Apri gli occhi, infastidito dal calore e
dalla luce improvvisa.
Ti porti una mano sul viso, stringendo
le palpebre sotto le dita, mentre un respiro caldo ti solletica il lobo
dell’orecchio.
Ti volti, scontrandoti con i suoi
occhi scuri e col suo sorriso, che nemmeno le occhiaie e i brividi di freddo
sulle braccia nude riescono a spegnere.
Ti prende la mano fra le dita,
sfiorandola con le labbra secche e senti i brividi correrti lungo la schiena.
Brividi intensi.
Brividi di piacere.
Brividi diversi.
Ride, perché sa che in quel preciso
istante i tuoi occhi sono divenuti simili a vetri e sei impallidito sotto la
carnagione già estremamente chiara, malsana quasi.
Si avvicina al tuo viso e ti soffia
dolcemente sulle labbra.
-Non
ricordo di essermi mai divertito così tanto- mormora, lasciandoti la mano e
passandola fra i tuoi capelli fulvi.
Tu non resisti e ancora una volta
lasci che il demone dentro di te si svegli, mentre catturi le sue labbra tra le
tue e lo spingi sotto di te, costringendogli le spalle contro il materasso.
Quando giunge la mattina
Tutti si svegliano, insieme a qualcuno..
Scendete le scale, con il sole che muore
dietro le finestre e le tende verde pallido.
Suo padre adottivo si sporge dalla porta
della cucina e alza il pollice nella direzione del figlio, con un sorriso
smagliante.
Ti senti arrossire anche se sul tuo
volto non si vede alcuna reazione, se non il serrarsi secco delle labbra.
Quell’uomo diverso, così uguale a lui.
Lo stesso sguardo, lo stesso sorriso,
la stessa diversità.
L’uomo che ti accolto in casa sua in
una notte di fine marzo, quando sei arrivato con un borsone rosso sulle spalle
e gli occhi vuoti e freddi, dopo che tuo padre ti aveva cacciato di casa.
Animale!
Sei solo un animale!
Vattene da qui, maledetto!
Bastardo!
Non sei mio figlio!
Lui apre la porta e si getta sula
strada, tenendoti la mano e costringendoti a correre sul marciapiede, con il
sole di Giugno che impallidisce davanti ai vostri occhi.
Passate attraverso gli sguardi irati
della gente, i loro insulti e gli sputi, mentre le loro facce si contraggono
per il disgusto e le labbra sibilano “Bastardi, mostri, animali, feccia,
froci..”
Ma fra loro c’è anche chi vi guarda
ridendo, tenendo fogli azzurri tra le mani, che distribuiscono a persone che li
insultano con pesantezza o li evitano quasi fossero appestati. Fogli sui
diritti per gli omosessuali, per coloro che per altri sono diversi, ma che si sentono uguali proprio a quegli altri.
Perchè sono uguali a tutti gli altri.
E tu lo hai conosciuto allo stesso
modo, mentre distribuiva quei volantini, all’angolo della strada.
Tuo padre ti aveva trascinato via,
sibilando parole incomprensibili contro “quel ridicolo omosessuale esaltato vestito
di verde”
E poi sempre lì, ogni giorno, a
passare davanti a lui quasi per caso, fino a quando non è diventata un’abitudine
e poi un bisogno.
Vedere ogni giorno quel suo sorriso e
quegli occhi scuri, anche solo per un istante, giusto il tempo di posare lo
sguardo su di lui e sentire la rabbia montare nel vedere altre mani poggiarsi
sui suoi fianchi e altre labbra soffiare sul suo orecchio.
E la sera steso sul letto, ad occhi
chiusi, immaginando le tue mani scivolare su di lui e le tue labbra catturare
le sue, morderle fino a sentirle sanguinare e sentire nelle narici il suo
profumo e l’odore pungente del sudore e del sesso. Poi la nausea, gli occhi
sbarrati e la doccia fredda e i graffi sulle braccia e sul petto, dove ti
colpivi e ti punivi per aver davvero pensato una mostruosità del genere,
fantasie erotiche su un “ridicolo omosessuale esaltato vestito di verde”
E poi quella sera quando non lo avevi
visto al solito angolo e lo avevi trovato davanti a casa tua, il volto pieno di
lividi, gli occhi pesti e il sangue che colava dalla fronte e dalle tempie, la
maglia stracciata e macchie scure dove quei luridi figli di puttana gli avevano
spento le sigarette addosso.
Lo avevi trascinato fino alla tua
camera, la casa fortunatamente vuota, il calore del suo corpo ferito che ti
premeva sul fianco e le dita del braccio che ti eri fatto passare dietro le
spalle che ti accarezzavano involontariamente il viso ad ogni passo.
E la tua mano stretta attorno al suo polso e
all’altro braccio, abbandonato lungo il fianco, per paura di scendere fino alle
sue dita, sentire la sua pelle sotto i polpastrelli.
Ti trattenevi a stento perché avevi
paura, ma lo desideravi.
Il demone ringhiante dentro di te
stava prendendo il sopravvento.
Lo avevi fatto sedere sulle lenzuola
cremisi, attardandoti più del dovuto nel lasciargli andare la mano e avevi
sentito una scossa attraversarti nel vedere i suoi occhi alzarsi quieti su di
te.
Ti era allontanato bruscamente ed eri
corso nel bagno, aggrappandoti al lavello.
E lo sentivi, quel sangue orrendo che
scorreva feroce nelle tue vene, il ringhio bestiale del demone dentro di te e
il calore, quel calore diverso e
piacevole che ti aveva colto nell’istante stesso in cui avevi realizzato che
era lì, che poteva essere tuo, che potevi toccarlo, baciarlo, fare qualsiasi
cosa.
Era lì.
Era tuo.
Eri uscito tremando, portando tutto il
necessario per medicargli le ferite e ti eri seduto accanto a lui.
Il materasso era sprofondato e lui si
era mollemente abbandonato contro il tuo fianco, con un roco sospiro.
Il fiato si era mozzato nella tua gola
e aveva cominciato a medicargli le ferite sul petto, i polpastrelli che
sfioravano la sua pelle ustionata e ruvida, sentendo sotto le dita il battito
rapido e incontrollato del suo cuore.
Avevi poi alzato la mano lentamente,
fino a poggiarne il palmo contro la sua tempia, per sostenergli la testa e
avevi cominciato a passargli il cotone imbevuto di alcool sulle ferite.
E senza accorgertene, avevi avvicinato
il tuo viso al suo, fino a sentire il suo respiro solleticarti le labbra e i
capelli scuri sfiorarti la fronte e le sue ciglia abbassate toccarti appena le
guance.
E poi era successo.
Un istante.
Un attimo.
Le tue labbra contro le sue.
Le tue dita che lasciavano andare il
cotone.
Le tue mani che si stringevano sulle
sue spalle.
E quel bacio diverso ricambiato, la sua presa attorno alla tua vita e la sua
gamba che sfiorava la tua.
Poi un istante ancora più terribile e
doloroso.
Una presa ferrea sulle spalla, il
brusco spostamento e la consistenza dura e fredda del pavimento sotto la
schiena.
Avevi alzato il viso e avevi visto tuo
padre prendere lui per i capelli, tirandolo con forza e trascinarlo fuori dalla
stanza.
E mentre sentivi i suoi gemiti
diventare sempre più lontani, ti eri preso la testa fra le mani, sgranando gli
occhi e tremando come un bambino.
Eri un mostro, un essere immondo e
colpevole, macchiatosi di un peccato orribile!
Avevi aperto la bocca per gridare, ma
eri stato colto da una scossa violenta e ti era gettato carponi sul pavimento,
vomitando.
Il respiro ti era venuto a mancare e
avevi cominciato a ferirti il viso, le guance e le labbra, ogni singola parte
dove eri entrato in contatto con lui.
Quel contatto diverso, ma non privo di calore.
Un calore forte e terribile, che
minacciava di distruggerti.
E poi di nuovo la mano di tuo padre su
di te e lo schiaffo e gli insulti e i pugni e gli sputi.
Gemevi e gridavi, ma non lo pregavi di
smettere perché credevi fosse giusto, perché ti eri lasciato guidare dal tuo
istinto, eri stato animale, bestia, non uomo e non meritavi altro, nient’altro
che dolore!
Ti aveva afferrato i capelli e ti
aveva sbattuto contro il muro, tu bastardo, immondo, che avevi sputato
sull’onore di tuo padre e della tua famiglia, sulla memoria di tua madre che era
morta nel dare alla luce un simile mostro, un peccatore, un dannato, un
omosessuale!
E non riuscivi a contraddirlo e lo
sapevi!
Perché l’avevi sentito, in quell’attimo
fugace avevi voluto il suo corpo come non mai, essere suo e averlo, possederlo
nello stesso istante! Avevi amato quella sensazione di estasi!
E ad ogni colpo, ad ogni insulto la
tua brama, il tuo desiderio cresceva.
Lo volevi!
Era peccaminoso, era orribile, era diverso, ma lo volevi!
E lo hai avuto mesi e mesi dopo,
quando ancora uscivate di nascosto, lui per assecondarti, tu per paura.
Perché la paura non ti aveva mai
abbandonato.
Avevi accettato di essere diverso, ma una parte di te continuava a
lottare, mordeva e sibilava, riportandoti alla mente la faccia contratta di tuo
padre e i colpi e il sangue e le grida.
Nella sua casa, protetti dalle tendine
verde pallido, i poster dei Beatles e il sorriso consapevole e aperto di suo
padre adottivo, avete raggiunto l’apice del peccato dell’estasi.
E mentre gemevi sotto il suo tocco,
nella tua mente soffiava il tuo demone appagato
Vieni e vedrai che questo è il crimine
perfetto.
E lo era.
Il crimine perfetto nel suo essere
peccaminoso e diverso.
Lui si ferma solo in Christopher
Street e senti il cuore balzarti in gola nel vedere il piccolo edificio sulla
cui facciata sporgono cinque piccoli balconi da altrettante finestre. E la
lunga T che pende dal tetto, sui cui la scritte StoneWall Inn sembra ondeggiare
nell’aria della sera, illuminata a sprazzi dalla luce proveniente dalla grande
finestra sotto di essa.
Per un attimo rimani fermo e in
silenzio, perché i ricordi di quel luogo ti assalgono e ti fanno mancare il
respiro.
Perché la prima volta in cui sei entrato
in quel locale è stata anche l’ultima.
Era una sera come questa, frizzante e
piena di promesse.
Era la prima uscita segreta e tu
sentivi un brivido correre lungo la schiena.
Eri scappato dalla finestra di casa
tua, arrampicandoti sull’albero accanto alla tua camera, scendendo veloce, con
lui che ti aspettava con la mano tesa –che tu non avevi preso-
Nascosti dalle ombre, le luci che si
allontanavano da voi come gli ipocriti lungo la strada, siete corsi fino a quel
locale, che lui conosceva così bene.
Ti aveva sorriso, tenendo il pollice
alzato e ti aveva preso la mano, dicendo
-Staremo
fuori per tutta la notte e dormiremo tutto il giorno-
E poi eravate entrati, la soffusa luce
blu che rivestiva pigramente i muri altrimenti chiari e il brusio di voci roche,
calde e stridenti che si scioglievano e si accavallavano poco distante.
Ti aveva preso un polso e ti aveva
trascinato oltre lo sguardo corrugato del buttafuori, che mai ti aveva visto
nel locale e non si fidava di te –come tu non ti fidavi di lui-
Conosceva Rock Lee, ma non conosceva te.
Il bancone lucido, il barista dai
lunghi capelli scuri e la mascella squadrata, i ragazzi che ballavano sulla
superficie liscia del tavolo, i colli piegati all’indietro e il torace nudo,
mentre persone di mezza età dall’aria insospettabile si asciugavano il sudore
che colava come lacrime lungo la fronte.
Lui ti aveva spinto fino al bancone,
ordinando qualcosa di semplice e analcolico. Non reggeva l’alcool –diceva-
diventava estremamente violento quando beveva.
E tu ti guardavi intorno stupito,
nelle orecchie il ticchettare ritmato e brillante delle scarpe lucenti e lustri
di ragazze dalla voce profonda, mentre la luce si rifletteva sulla bigiotteria
di qualche donna coi capelli ricci e le grandi mani e poi le parole sussurrate
a mezza voce, come un segreto, mani femminili strette l’un l’altra e labbra
maschili che si sfioravano senza paura.
Era tutto così diverso, quasi grottesco.
Ma sentivi un brivido e la bestia
dentro di te ghignare soddisfatta.
Perché era un piccolo Paradiso, molto diverso da quello che sentivi a Messa: gli
angeli non avevano lunghi capelli biondi, ma parrucche brune e rosse, e la loro
voce non era asessuata e vibrante, ma calda, ruvida e le mani affusolate non
stringevano le Parole del Signore, ma altre dita, dita fini di donne e dita
callose di uomini.
E se quello non era il Paradiso,
allora eri ormai certo che avresti fatto dell’Inferno la tua nuova casa, il tuo
angelico rifugio.
E poi uno dei ballerini era sceso con
un salto dal bancone e tu, ancora stordito, avevi sentito le sue parole
scivolare lente e sinuose dentro di te, strappandoti un brivido ad ogni sillaba
strascicata.
-Balla,
come se nessuno stesse guardando..Muoviti come se sapessi ciò che stai facendo-
E avresti davvero voluto seguire il
suo consiglio, lasciarti andare e sentire quel sangue maledetto pulsare dentro
di te, guidare ogni tuo passo, ogni tuo sospiro, ogni tuo sguardo.
Ma eri un peccatore, un animale e la
punizione per te era pronta, stava arrivando e si è palesata a te come uomini
coi vestiti lucidi, ghignanti e manganelli scuri tra le mani.
Come segugi che avevano appena fiutato
la loro preda, si sono avvicinanti con passi cadenzati e tranquilli, afferrando
le parrucche e lanciandole a terra, prendendo le spalline dei vestiti e
gettando a terra la gente, sputando e ringhiando come belve, intimando di dar
loro i documenti e senza documenti in prigione, subito, dove forse si sarebbe
recuperata la decenza.
E i ringhi, gli insulti, gli sputi, il
veleno per chi è diverso, contro chi
si sente uguale agli altri, ma in un corpo non suo, ma che gli è stato imposto
e che la società non vuole che cambi.
Sentivi il respiro mozzarsi nella gola
e pregavi, Dio, ti prego, che non mi trovino, aiutami Signore, perché, non ho
fatto nulla di male, so che è sbagliato, ma ti prego, Signore, non puoi aver
creato un simile peccato così dolce e desiderabile, aiutami Signore, non
abbandonarmi.
Ma nessuna preghiera poteva aiutarti
in quel momento, perché eri scappato al tuo castigo per troppo tempo, avevi
gustato quel frutto rosseggiante e invitante del peccato, ti eri perso troppo a
lungo nel suo profumo acre di sudore e sesso.
E uno di loro si è avvicinato
ghignando. “E’ il figlio del direttore della banca” aveva detto al suo
compagno, squadrandoti vittorioso “Non sapevo che frequentasse un locale per
froci” e l’altro aveva riso, latrato come un animale “ Chissà se al piccolo piace
farselo infilare nel culo!” aveva esclamato, afferrando Lee per la maglia e
facendogli picchiare la schiena contro lo spigolo del bancone “Allora, è questo
gay verde che ti infila il cazzo in culo, frocetto?” ti aveva chiesto con un
ringhio “Ma che begli occhioni da donna che ha! Oh sì, mi ricorda Mary Sue, la
puttana all’angolo! Solo che da lei mi farei volentieri fare un pompino come si
deve, ma da un fighetto del genere nemmeno se mi pagassero!”
E tu avevi visto Lee serrare le labbra
e corrugare le sopracciglia. Vedevi la rabbia montare in lui, mentre dentro di
te cresceva solo la vergogna.
“No, ti sbagli! Secondo me a lui piace
proprio metterlo nel culo! Proprio come il padre! Deve essere una tradizione di
famiglia!” e quello davanti a te ti ha afferrato per il bavero della camicia e
ti ha trascinato fuori latrando e ridendo, mentre l’altro faceva voltare di
scatto Rock Lee, che cercava invano di ribellarsi.
E il vento di marzo che ti frustava il
viso e tu che remissivo, svuotato di ogni sensazione, di qualsiasi emozione,
seguivi con sguardo vitreo il poliziotto, che ti trascinava con forza verso la
macchina.
Dentro, buttato nell’automobile a
forza, rannicchiato come un bambino sul sedile e poi la portiera chiusa e la
consapevolezza che dopo aver assaporato l’Inferno, non vi era altro destino che
la pena, dura, crudele, ma giusta.
E nel silenzio ti tormentavi le mani,
mentre la paura ti assaliva e ti schiacciava con il suo peso freddo e crudele,
mentre capivi che avresti ricevuto botte, sangue e veleno, senza poter fare
altro che sopportare.
Perché eri fuggito dal Purgatorio per
scaldarti tra le fiamme dell’Inferno, per ballare coi demoni la loro macabra
danza e unirsi con uno di loro, una Bestia Verde, di cui ancora sentiva l’odore
e bramavi il corpo e l’anima.
Non ricordi altro che la porta che si
apriva con lentezza e il volto livido di Temari, mentre il forte braccio di tuo
padre ti trascinava dentro casa, la porta chiusa di scatto e le urla e i gemiti
e le botte e tua sorella che gridava basta! e la mano rude di tuo padre che si
abbatteva con rabbia sul tuo viso e le sue dita strette ai tuoi capelli e la
compattezza dura del muro contro la schiena e il freddo del pavimento e il
sangue e le lacrime che non riuscivi a versare.
E quelle parole, frocio, vergogna, non
sei mio figlio, sporco omosessuale, non ho un figlio, sei una vergogna, sei un
mostro, una bestia, col tuo sangue immondo hai ucciso tuo madre, una belva, un
essere contro Dio.
E poi la sacca rossa sulle spalle,
qualche vestito e via da quella casa, la faccia coperta di lividi, il labbro
spaccato, il sangue che colava tra i capelli e dalle tempie e le lacrime che
ancora non volevano uscire.
Il sorriso del padre di Lee e l’amara
accettazione dell’Inferno.
Se una parte di te avrebbe voluto
gridare e piangere, l’altra non aspettava altro che crogiolarsi tra le calde e
sensuali fiamme dell’Inferno.
E ora sei di nuovo lì, con Rock Lee
che ti porge la mano.
Deglutisci a vuoto e non sai cosa
fare.
Fino a quel momento ti eri tenuto
lontano dal girone più interno dell’Inferno, limitandoti al piacere del Limbo,
eppure sentivi che in quella sera di Giugno c’era qualcosa di diverso, un brivido, un fremito, un cambiamento.
Chiudi gli occhi e ancora la voce del
ragazzo sul bancone ti arriva
strascicata e calda.
Danza,
come se nessuno stesse guardando. Muoviti, come se sapessi ciò che stai
facendo.
Allora entri –senza prendere la mano
di Lee- e di nuovo ti immergi in quella grottesca atmosfera di sogno, dove
tutto è diverso da ciò, ed è fiero,
desidera esserlo.
Ti senti la testa girare, inebriato
dal puzzo di fumo e il profumo dell’alcool, il tintinnare della bigiotteria
come tamburelli e il tacchettio delle scarpe che scandiscono il tempo.
E ancora quei signori di mezza età che
si detergono il sudore con il fazzoletto piegato e quelle risa, quei sussurri,
quei baci proibiti.
Poi, come in un incubo, ecco che
entrano e ti senti gelare il sangue nelle vene.
Hai paura, sei terrorizzato, perché di
nuovo ti sembra di vedere i messi del Giudizio Divino.
Otto agenti, ma uno solo porta la sua
lucida divisa. E ghigna, divertito.
Arretri, e Lee ti posa una mano sulla
spalla, piano, dolcemente, eppure senti la sua stretta tremante.
Ha paura anche lui, il dolore delle
percosse ricevute non è ancora passato.
E di nuovo i documenti, gli arresti, i
vestiti incriminati e la gente portata via, ma qualcosa si muove.
Con la coda dell’occhio, vedi un
agente pungolare col manganello nero una donna dai lunghi capelli scuri, il
naso pronunciato, i vestiti attillati e le braccia mascoline nude.
E tutto accade in un secondo.
La bottiglia presa tra le dita callose
e scagliata contro l’agente e il tumulto, la rivolta della folla.
Tutti premono, tutti urlano e gridano
e tu non sai che fare.
Senti che Lee ti afferra per il polso
e ti trascina via, ma appena fuori dallo StoneWall si blocca e riprende fiato,
gli occhi lucidi per l’emozione.
E tu sai il perché.
Era tutto quello che aveva sempre
desiderato, la rivolta, i diritti, finalmente essere riconosciuti uguali.
I poliziotti si rinchiudono
all’interno del pub, hanno paura di quella folla di froci coi tacchi a spillo e
i vestiti femminili e delle donne che mano nella mano urlano contro una porta sbarrata,
colpendo l’aria a pugni chiusi, le palpebre
abbassate e le labbra piene del veleno così a lungo trattenuto.
Alcuni afferrano un parchimetro e
cercano di sfondare la porta, altri vogliono appiccare il fuoco.
E tu rimani lì, fermo, immobile, senza
parlare, in silenzio, con il grido “Gay Power! Gay Power!” che tuona, rimbomba
nelle tue orecchie.
E poi, nella confusione, la vedi.
La mano di Rock Lee, aperta, bianca
davanti a te.
E sai cosa vuol dire.
Prendere una decisione, quella vera e
definitiva.
Il tempo dei giochi è finito, ora devi
veramente scegliere.
Tornare a capo chino in Paradiso o
difendere a gran voce i diritti dell’Inferno?
Oh certo, era stato facile fino a quel
momento, non era stato altro che carne e sesso, niente di più, l’esperienza del
diverso che ti infiammava e ti faceva perdere il controllo, lasciando che il
demone avesse il sopravvento.
Ma ora è diverso.
O è bianco o è nero.
Il grigio non esiste.
Si è dileguato, sciolto nel crepuscolo
di quella sera di fine Giugno e nemmeno sai come sarà l’alba che sorgerà, se
sarà il bianco puro dei bigotti o il nero dei capelli di chi, per prima, ha
scagliato la bottiglia che ha fatto scoccare la scintilla di un incendio.
Rock Lee ti guarda speranzoso, ma tu
sei un codardo e hai paura. Perché hai ancora un ponte che ti collega alla
normalità e non vuoi attraversarlo del tutto.
Lì, nel mezzo, traballi sotto il vento
sferzante che urla “Gay Power”, mentre si mischia al ruggito di tuo padre, che
come un fiume scorre rombando sotto di te chiamandoti, urlandoti animale!
E sai che non puoi.
Tu, che hai chiamato figli di puttana,
omofobi, bigotti chi se la prendeva con Lee o con gli altri come lui, ti stai
comportando come il peggiore degli ipocriti.
E ne sei consapevole.
Questa è la cosa peggiore.
Non hai il coraggio di unirti a loro,
non hai la forza di stringere tra le dita una pietra, come Lee, e scagliarla
lontano, perché non è il tuo mondo, non è la tua battaglia.
La tua è una guerra già persa in
partenza, dove credi di poter uscire vincitore, ma ogni volta, ti ritrovi
sconfitto.
E non hai più la forza di combattere,
perché se il premio della ribellione ti infiamma, la sua dolcezza si mescola
all’amaro della punizione, al metallico sapore del sangue, mentre il tuo corpo
che prima gemeva per il piacere, urla per il dolore e si piaga, coperta di
lividi.
Ti volti di scatto, scappi via, suoni
il campanello, cadi in ginocchio, gemi, batti i pugni contro la porta, attendi
che si apra, alzi lo sguardo, sgrani gli occhi, supplichi tua sorella di farti
entrare.
Perché al Paradiso dei sensi,
preferisci l’Inferno del castigo.
Perché preferisci essere diverso da
ciò che sei, piuttosto che essere normale.
Perché dopo essere caduto, sei un
angelo dagli occhi vuoti che vuole fuggire dall’Inferno di Christopher Street.
Sebbene ci sia un demone che ringhia
dentro di te e una Bestia Verde dagli occhi scuri che ti attende ai cancelli
della dannazione.
Sotto la lunga T della tentazione
dello StoneWall Inn.
Giudizio di rekichan:
Ammetto che la prima volta che ho letto questa storia – rapidamente, giusto per vedere cosa avevo tra le mani -, mi sono chiesta: “E che cosa cazzo c’entra Stonewall?”
Dedicandole poi una seconda lettura, ho capito: la rivolta di Stonewall, il bar e Christopher Street sono il filo rosso dei pensieri di Gaara; tutto il suo percorso – la sua dannazione, per così definirla – comincia e finisce proprio lì, ma andiamo con ordine.
La storia è avvincente, un po’ caotica forse, in quanto, senza aver letto le note, avrei avuto problemi a comprendere l’andamento temporale della trama.
La storia si concentra principalmente sul problema di Gaara e sull’accettazione della sua omosessualità. La presenza di Lee sembra condurlo verso la strada della comprensione di sé e sul proprio essere orgoglioso di quel che é.
Eppure, Gaara, quando arriva il momento della verità, di decidere da che parte stare, rifiuta la libertà che aveva assaporato.
Nonostante fosse andato via di casa, le percosse del padre e la libertà assaporata, Gaara non riesce comunque ad accettarsi.
O meglio, lo fa, ma…
È quel “ma” che mi lascia perplessa, lo ammetto: Gaara fa comprendere chiaramente che sa di essere gay. Non ha dubbi in merito: non pensa di essere semplicemente bisessuale; non è confuso, né niente: gli piace il cazzo. Punto.
Eppure, torna indietro. Non mi quadra. È in linea con tutta la storia, ma non mi quadra: non ho visto all’interno della storia questo “ponte” che lo collega alla normalità. Gaara mi è parso una persona che ha perso tutto e che sembra voler ricostruire la propria vita, invece… Non lo so. Lo capisco, ma non mi convince. Non quando ormai ha fatto quel passo – andare a vivere da Rock Lee e ammettere di essere gay – che per un omosessuale costituisce la porta per l’emancipazione.
In ogni caso, la trattazione è buona – forse un po’ confusa ad una prima lettura -; l’argomento centrato e i personaggi molto gradevoli. Un errore di distrazione e qualche ripetizione, ma nel complesso un bel lavoro: le immagini sono molto vivide; sembra quasi di vedere il padre di Gaara mentre lo picchia; di respirare l’atmosfera totalmente diversa che si trova nella casa di Lee; si percepiscono discretamente le paure di Gaara, ma non si “sentono”, come un musicista che suona e c’è solo un sordo ad ascoltarlo.
Voto: 8
Giudizio di Stateira:
Questa fic va in crescendo, e per quanto mi riguarda questo è un punto a favore. Ciò che sentivo che l’inizio non riusciva a trasmettermi, il finale riesce a farlo; quello che nelle prime parti mi sembrava zoppicare, acquista via via più solidità e sicurezza. L’IC o l’OOC non mi interessano minimamente, in questo contesto, perché è chiaro che i personaggi sono chiamati a rappresentare qualcosa di più grande di loro ed esulano dalla loro “normalità”. Hanno una loro coerenza, e questo basta a rendere la storia credibile, nel suo insieme. Ho apprezzato la decisione del finale amaro, non tanto perché lo ritenga più originale, ma perché l’autrice riesce a non banalizzarlo, a trovare un equilibrio nel comportamento di Gaara che lo giustifichi e non faccia semplicemente leva sul patetismo.
Se devo appuntare qualcosa, direi che ciò che ho amato di meno è il battere ossessivo sul termine “diversità”, che ovviamente è adatto alla storia, ma viene ripetuto e insistito talmente tante volte che finisce con il perdere la sua incisività.
Voto: 8