LA MINIERA NEL CIELO
1.
In quasi cinquant'anni di vita sulle navi possono capitare molte cose. Verrebbe spontaneo immaginare
mille avventurose esplorazioni di pianeti mai visti prima, fenomeni spaziali non ancora classificati,
magari pericolosi e imprevedibili, o semplicemente strani. Niente di tutto questo. La maggior parte dei
viaggi è noiosa routine e qualsiasi cosa giunga a turbare l'immobilità apparente della vita di bordo è
guardata con apprensione, come minimo. Nonostante questo non ho mai cercato di scacciare dalla mia
memoria il ricordo di quel viaggio che di immobile e noioso ha avuto davvero ben poco.
C'è stato un periodo della mia vita piuttosto buio e triste. Avevo perso il lavoro e non riuscivo a
trovarne un altro. Nessuno sembrava interessato a un buon motorista con venti anni d'esperienza. O forse
era proprio quello il problema: i miei quarantasette anni d'età erano visti come un pesante difetto. Non
ero certo un giovane astronauta facile da circuire, a cui offrire una paga bassa o fuorilegge col ricatto
di un posto di lavoro. Oltretutto sono sempre stato iscritto al Sindacato e chiunque avrebbe potuto
verificare la mia appartenenza a esso.
Non solo sembrava che la mia figura professionale non fosse richiesta: non riuscivo a trovare un posto
nemmeno come semplice tecnico di primo livello. Quando il denaro finisce, ci si adatta ai lavori più
umili. Così abbassando il tiro sempre di più mi ero ritrovato a consultare gli annunci di lavoro anche
delle categorie più basse. Le stesse che controllavo quando avevo diciotto anni e una gran voglia di
mettere piede a bordo di una nave che non fosse quella dei miei genitori. Ma non ebbi fortuna: la
concorrenza dei più giovani era spietata.
Giunse il giorno in cui con l'ultima card al portatore rimastami pagai l'affitto di un terminale pubblico
per guardare un po' di annunci. Cercavo disperatamente un lavoro ed ero disposto a qualsiasi cosa. Era già
da un po' che tiravo la cinghia, saltando i pasti uno dietro l'altro e dormendo dove costava meno, a volte
anche per strada. Quelli erano gli ultimi soldi, il mio stomaco doleva per i crampi della fame e avevo la
certezza che non sarei riuscito a mangiare nemmeno quel giorno. Con quei quindici minuti di connessione
che consumarono gli ultimi miei soldi riuscii a trovare solo tre offerte tra le poche che apparivano nelle
rubriche di inserzioni gratuite. Selezionate tra le montagne di trappole tese da truffatori e da armatori
con pochi scrupoli, non mi lasciavano molte speranze. La prima pareva una truffa molto ben celata e mi
lasciò molto incerto: il comandante di un cargo di classe Tortuga, una nave piuttosto grande, solitamente
non cerca l'equipaggio con gli annunci gratuiti. Il secondo lo lessi e lo rilessi fino in fondo, controllando
bene i requisiti. Era al di là delle mie capacità, ma non tanto e risposi ugualmente: facevo affidamento
sulla mia anzianità di servizio e sulla mia esperienza sul campo. C'era la fila per essere contattati ma mi
iscrissi ugualmente, con la speranza che venisse il mio turno prima della scadenza del mio collegamento.
Il terzo annuncio sembra scritto da un ubriaco. L'inserzione, largamente incompleta e con banali errori di
battitura, era semplice, lapidaria, forse perfino sincera. Cercavano un equipaggio di complemento, con
esperienza nella propulsione a spinta di fusione, disponibilità immediata per partenza in giornata, paga
standard. Nient'altro. Non avevo niente da perdere: se si fosse trattato di una truffa non avrebbero certo
potuto estorcermi denaro. Cercai di rispondere anche a questa inserzione, ma chi l'aveva pubblicata non
disponeva un server che filtrasse le richieste di collegamento e non aveva lasciato recapiti. La cosa non
era regolare e dovetti rivolgermi alle autorità del sistema per sapere il nome dell'inserzionista, il numero
di registro della nave e il molo cui era attraccata. Presi nota di tutto, sperando che recarmi di persona
sul posto fosse tollerato. Poco prima che la connessione scadesse fui informato che la mia richiesta di un
colloquio preliminare presso il secondo inserzionista era stata respinta.
Non avevo altre possibilità: la nave del terzo inserzionista era lontana, ma avevo tutto il tempo di
raggiungerla.
Attraversai la folla nella zona del porto rimuginando pensieri cupi. Avevo visto nascere e fiorire molte
tecnologie oggi date per scontate, tra cui quella che dava vita ai motori a spinta di fusione. Quando mi
capitava di parlarne, raccontavo con orgoglio d'aver assistito alla partenza della cosmonave Dniepr, che in
quel viaggio avrebbe stabilito il record di velocità massima destinato a rimanere imbattuto per anni. Forse
mi consideravano un vecchio pazzo, probabilmente anche per via del mio aspetto: sono calvo e grigio dall'età
di ventinove anni. Oppure ritenevano che fossi un mitomane, che stessi cercando di darmi delle arie, in cerca
di importanza. Invece stavo solo cercando un lavoro.
Passai attraverso tutta la zona del porto, un po' affollata, scansando piccoli trasporti elettrici traballanti
sotto il peso di troppa merce e nugoli di persone affaccendate. Scansavo anche gli ambulanti che vendevano cibo:
nella maggioranza dei casi si trattava di persone disoneste o semplicemente ignoranti in termini di igiene e
regolamenti riguardanti conservazione, cottura e vendita del cibo. Ma le esalazioni di cibo cotto che mi
arrivavano al naso dai loro malridotti carrelli erano per me un delizioso, irresistibile profumo e un'atroce
tortura. Il mio stomaco doleva così tanto per la fame che più volte presi in considerazione di farmi servire
uno dei loro cartocci untuosi e di scappare a gambe levate senza pagare.
Servendomi di quello che mi era rimasto del mio orgoglio riuscii a sfuggire a ogni minaccia e a ogni
tentazione. Camminare non mi ha mai entusiasmato, ancora meno farlo a stomaco vuoto. Camminai per più di un'ora
prima di giungere al molo 55 e quando arrivai dovetti sedermi su una delle panchine pubbliche della struttura di
accoglienza per riposare un po'. Ne approfittai per dare uno sguardo in giro: la struttura di accoglienza del molo
55 era molto più bella di tante altre. C'erano i terminali per chiamare le navi gratuitamente, ma consentivano
di contattare esclusivamente le navi ormeggiate a quel molo e di parlare solo per cinque minuti ogni mezzora. Serviva
a scoraggiare i chiacchieroni, ma per me fu più che sufficiente. Mi avvicinai ansioso al terminale libero più
vicino e contattai la nave del terzo inserzionista. Speravo ardentemente che andasse tutto bene.
- Chi è? - mi rispose una voce femminile. Lì su due piedi mi parve assonnata, stanca.
- Salve, sono Kaufman... ho visto l'annuncio e...
- Ah, sì... senti, non ho tempo da perdere quindi se hai qualcosa da chiedere fallo subito.
Mi piacciono le persone schiette, ma al momento mi parve un'esagerazione. Fui sul punto di salutare e togliere
il disturbo, ma mi ricordai che nell'unica card che mi era rimasta in tasca non c'era denaro abbastanza nemmeno
per un solo involtino primavera.
- Basta che lei mi paghi – schiettezza per schiettezza, mi dissi. In realtà ero terrorizzato dal pensiero di
essere respinto per l'ennesima volta.
- Non posso andare oltre la paga standard. Sono sei giorni di viaggio, tutto compreso. Niente premi, niente
extra.
Non era molto, ma non avevo scelta.
- Va bene.
- Hai il permesso di salire a bordo. Sbrigati, su.
Chiusi il collegamento, convinto di aver venduto la mia dignità. “Basta che lei mi paghi”: quelle parole mi
risuonavano in testa come una eco e me ne vergognavo. Non mi sembravano nemmeno mie. Ero molto avvilito mentre
aspettavo la mia tuta, trasportata gratuitamente grazie ai servizi automatizzati di quella parte dello
spazioporto. Osservandola mentre il meccanismo trasportatore la avvicinava alla piazzola dove avrei potuto
indossarla, mi resi conto che non era stata né lavata né ricaricata. La mia “leggera” verde brillante, vecchia
come me e tutta da revisionare aveva meno di quaranta minuti di autonomia, dopodiché l'aria avrebbe cominciato
a scarseggiare e l'energia a esaurirsi. Non avevo soldi per la ricarica, ma non ero preoccupato: la gabbia motrice
mi avrebbe portato a destinazione in dieci minuti circa.
Con un po' di fortuna mi trovai da solo nella gabbia motrice e fui in grado di dare uno sguardo alla nave cui
mi stavo avvicinando. Intravidi i motori con le loro gondole alettate: era una nave di classe Europa configurata
con due propulsori. Evidentemente al comandante piace correre, pensai. Ma non ci fu tempo per troppe elucubrazioni:
la gabbia motrice arrivò in breve tempo di fronte alla camera di equilibrio che si aprì davanti a me, svelando il
suo interno vuoto illuminato di rosso. Saltai dentro e fui subito saldamente afferrato dalla gravità artificiale,
regolata piuttosto forte. La procedura di compressione fece scricchiolare le guarnizioni della mia tuta. Probabilmente
la camera di equilibrio era stata riprogrammata per ottimizzare il ciclo di compressione. Fortunatamente la mia
“leggera” resse bene ancora una volta.
La camera di equilibrio si aprì e io entrai in una specie di vestibolo, ingombrato dalla discutibile installazione
di un armadio robot che si stava occupando di una ingombrante tuta EVA. Mi tolsi il casco e assaggiai la fredda
aria di bordo, frizzante e piacevole. Fui contento: era prassi piuttosto comune che i serbatoi dell'aria non
venissero caricati con aria fresca in previsione di un viaggio di pochi giorni. Col casco in mano aggirai
cautamente l'armadio robot e mi sporsi nello spinale, dove la camera di equilibrio si affacciava, chiedendo
educatamente il permesso.
Mi venne incontro un tecnico della manutenzione. Doveva essere impegnata da tanto a bordo: il viso stanco, le
guance paffute un po' arrossate facevano risaltare gli occhi cerchiati. La pettorina blu aveva una bretella
sganciata e penzolava, svelando la curva di un pesante seno premuto contro la maglia grigia a maniche
lunghe. Camminava posando i piedi scalzi direttamente sul lindo pavimento dello spinale.
- Salve – mi salutò, mettendo poi la mano davanti a uno sbadiglio.
- Non c'è il comandante? - la mia domanda le fece brillare una luce cattiva negli occhi scuri.
- Sono io – mi detti immediatamente dell'idiota. Avevo appena compiuto il primo errore grave. Così presto che
avevo ancora il casco della tuta sotto il braccio. Mi fu chiaro come il sole che non aveva gradito.
- Allora, ti interessa il lavoro? - aggiunse grattandosi la testa coperta da una gran massa di capelli ricci e
ribelli trattenuti da infantili mollette colorate apparentemente disposte a caso. Sperai che avesse letto il mio
imbarazzo. Sperai che quella domanda fosse la prova che non si era offesa. Ma che diamine, mi era davvero sembrata
un tecnico della manutenzione.
- Certo – non avrei potuto rispondere diversamente. Mi rivolse quindi parecchie domande, facendomi parlare per
diversi minuti. Volle sapere dei miei incarichi e io le parlai dei miei esordi come meccanico presso i moli di
Apollo, della mia carriera come tecnico specializzato in sistemi di potenza in cantiere, della promozione a
motorista, dei miei viaggi. Non sbadigliò nemmeno una volta.
- Senti, per me va bene. Niente scherzi del cazzo e vedrai che andremo d'accordo. Se ti togli la tuta, io ti
preparo il contratto da firmare.
Non penso che in quel momento avrei potuto udire parole più belle. Cercando di mantenere la calma mi sfilai la
tuta nel vestibolo e mi presentai a lei, senza osare superare la soglia del ponte di comando e con le scarpe in
mano. Ogni nave è un mondo a sé e io avrei dovuto imparare le regole di quella. Poi il modulo di comando era
davvero piccolino, non c'era molto posto.
- Che ci fai con le scarpe in mano?
Si era voltata verso di me e aveva indicato le mie scarpe, vagamente stupita. Di rimando indicai i suoi piedi
scalzi e per la prima volta le sue labbra rosa si piegarono in un sorriso che fuggì subito via.
- Non è obbligatorio camminare senza scarpe – disse porgendomi la penna ottica – ma sono contenta che hai anche
tu quelle.
Le mie scarpe da astronauta: leggere e sottili, con la pianta in grado di aderire alle strisce di velcro nel
caso venisse a mancare la gravità artificiale. Erano un po' vecchie, ma ancora presentabili. Ne avevo sempre
avuto cura evitando di usarle una volta sbarcato. Ricambiai il sorriso, ma lei stava già guardando da un'altra
parte. Strisciai il mio badge firmando felice il contratto, dopo averlo letto di sfuggita. Apparentemente un
contratto standard, autentico.
- Ah! Che scema sono!
Mi porse la mano. Istintivamente la strinsi, calda e carnosa. Senza la tuta ero più basso di lei.
- Non mi sono nemmeno presentata! Che maleducata...
- Non c'è problema... – iniziai una banale frase di circostanza, ma lei non mi lasciò finire, per fortuna.
- Sono Michaela Patris e, anche se sembro uno spazzino, sono il comandante del Coyote.
- Piacere – sorrisi più serenamente, certo di essere stato compreso se non perdonato per la gaffe di poco
prima. La sua mano stringeva fortemente la mia. Mi piace chi stringe la mano così, con forza e decisione.
- Piacere mio... Kaufan – come fanno tutti la prima volta, dovette leggere due volte il mio nome e lo sbagliò
ugualmente. Lasciò la mano e chinò gli occhi sul contratto.
- Kaufman – la corressi pacatamente - … e sì, il mio nome è proprio Philo.
- Che nome curioso! Ha un significato?
Era la prima volta che qualcuno mi rivolgeva quella domanda. Non sapendo cosa rispondere, esitai.
- Non che io sappia...
- Occhei, Kaufman... te la senti di cominciare subito? Dobbiamo andare a caricare. Io ho bisogno di mettermi
un po' a posto... ho un mal di testa che mi sta tagliando in due il cervello.