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Autore: Mannu    31/03/2010    0 recensioni
Un cliente, un incarico, un carico da trasportare, una paga per il servizio reso. A Miki non sembra vero: ha trovato un lavoro. È poco, quasi niente, ma rappresenta un inizio. Ma il regolamento è il regolamento, e questo dice che deve viaggiare con un equipaggio minimo...
Questa storiella è anche un piccolo esperimento per vedere Miki da... un altro punto di vista.
Genere: Azione, Avventura, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ferraglia spaziale'
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La miniera nel cielo
LA MINIERA NEL CIELO

1.

In quasi cinquant'anni di vita sulle navi possono capitare molte cose. Verrebbe spontaneo immaginare mille avventurose esplorazioni di pianeti mai visti prima, fenomeni spaziali non ancora classificati, magari pericolosi e imprevedibili, o semplicemente strani. Niente di tutto questo. La maggior parte dei viaggi è noiosa routine e qualsiasi cosa giunga a turbare l'immobilità apparente della vita di bordo è guardata con apprensione, come minimo. Nonostante questo non ho mai cercato di scacciare dalla mia memoria il ricordo di quel viaggio che di immobile e noioso ha avuto davvero ben poco.
C'è stato un periodo della mia vita piuttosto buio e triste. Avevo perso il lavoro e non riuscivo a trovarne un altro. Nessuno sembrava interessato a un buon motorista con venti anni d'esperienza. O forse era proprio quello il problema: i miei quarantasette anni d'età erano visti come un pesante difetto. Non ero certo un giovane astronauta facile da circuire, a cui offrire una paga bassa o fuorilegge col ricatto di un posto di lavoro. Oltretutto sono sempre stato iscritto al Sindacato e chiunque avrebbe potuto verificare la mia appartenenza a esso.
Non solo sembrava che la mia figura professionale non fosse richiesta: non riuscivo a trovare un posto nemmeno come semplice tecnico di primo livello. Quando il denaro finisce, ci si adatta ai lavori più umili. Così abbassando il tiro sempre di più mi ero ritrovato a consultare gli annunci di lavoro anche delle categorie più basse. Le stesse che controllavo quando avevo diciotto anni e una gran voglia di mettere piede a bordo di una nave che non fosse quella dei miei genitori. Ma non ebbi fortuna: la concorrenza dei più giovani era spietata.
Giunse il giorno in cui con l'ultima card al portatore rimastami pagai l'affitto di un terminale pubblico per guardare un po' di annunci. Cercavo disperatamente un lavoro ed ero disposto a qualsiasi cosa. Era già da un po' che tiravo la cinghia, saltando i pasti uno dietro l'altro e dormendo dove costava meno, a volte anche per strada. Quelli erano gli ultimi soldi, il mio stomaco doleva per i crampi della fame e avevo la certezza che non sarei riuscito a mangiare nemmeno quel giorno. Con quei quindici minuti di connessione che consumarono gli ultimi miei soldi riuscii a trovare solo tre offerte tra le poche che apparivano nelle rubriche di inserzioni gratuite. Selezionate tra le montagne di trappole tese da truffatori e da armatori con pochi scrupoli, non mi lasciavano molte speranze. La prima pareva una truffa molto ben celata e mi lasciò molto incerto: il comandante di un cargo di classe Tortuga, una nave piuttosto grande, solitamente non cerca l'equipaggio con gli annunci gratuiti. Il secondo lo lessi e lo rilessi fino in fondo, controllando bene i requisiti. Era al di là delle mie capacità, ma non tanto e risposi ugualmente: facevo affidamento sulla mia anzianità di servizio e sulla mia esperienza sul campo. C'era la fila per essere contattati ma mi iscrissi ugualmente, con la speranza che venisse il mio turno prima della scadenza del mio collegamento.
Il terzo annuncio sembra scritto da un ubriaco. L'inserzione, largamente incompleta e con banali errori di battitura, era semplice, lapidaria, forse perfino sincera. Cercavano un equipaggio di complemento, con esperienza nella propulsione a spinta di fusione, disponibilità immediata per partenza in giornata, paga standard. Nient'altro. Non avevo niente da perdere: se si fosse trattato di una truffa non avrebbero certo potuto estorcermi denaro. Cercai di rispondere anche a questa inserzione, ma chi l'aveva pubblicata non disponeva un server che filtrasse le richieste di collegamento e non aveva lasciato recapiti. La cosa non era regolare e dovetti rivolgermi alle autorità del sistema per sapere il nome dell'inserzionista, il numero di registro della nave e il molo cui era attraccata. Presi nota di tutto, sperando che recarmi di persona sul posto fosse tollerato. Poco prima che la connessione scadesse fui informato che la mia richiesta di un colloquio preliminare presso il secondo inserzionista era stata respinta.
Non avevo altre possibilità: la nave del terzo inserzionista era lontana, ma avevo tutto il tempo di raggiungerla.
Attraversai la folla nella zona del porto rimuginando pensieri cupi. Avevo visto nascere e fiorire molte tecnologie oggi date per scontate, tra cui quella che dava vita ai motori a spinta di fusione. Quando mi capitava di parlarne, raccontavo con orgoglio d'aver assistito alla partenza della cosmonave Dniepr, che in quel viaggio avrebbe stabilito il record di velocità massima destinato a rimanere imbattuto per anni. Forse mi consideravano un vecchio pazzo, probabilmente anche per via del mio aspetto: sono calvo e grigio dall'età di ventinove anni. Oppure ritenevano che fossi un mitomane, che stessi cercando di darmi delle arie, in cerca di importanza. Invece stavo solo cercando un lavoro.
Passai attraverso tutta la zona del porto, un po' affollata, scansando piccoli trasporti elettrici traballanti sotto il peso di troppa merce e nugoli di persone affaccendate. Scansavo anche gli ambulanti che vendevano cibo: nella maggioranza dei casi si trattava di persone disoneste o semplicemente ignoranti in termini di igiene e regolamenti riguardanti conservazione, cottura e vendita del cibo. Ma le esalazioni di cibo cotto che mi arrivavano al naso dai loro malridotti carrelli erano per me un delizioso, irresistibile profumo e un'atroce tortura. Il mio stomaco doleva così tanto per la fame che più volte presi in considerazione di farmi servire uno dei loro cartocci untuosi e di scappare a gambe levate senza pagare.
Servendomi di quello che mi era rimasto del mio orgoglio riuscii a sfuggire a ogni minaccia e a ogni tentazione. Camminare non mi ha mai entusiasmato, ancora meno farlo a stomaco vuoto. Camminai per più di un'ora prima di giungere al molo 55 e quando arrivai dovetti sedermi su una delle panchine pubbliche della struttura di accoglienza per riposare un po'. Ne approfittai per dare uno sguardo in giro: la struttura di accoglienza del molo 55 era molto più bella di tante altre. C'erano i terminali per chiamare le navi gratuitamente, ma consentivano di contattare esclusivamente le navi ormeggiate a quel molo e di parlare solo per cinque minuti ogni mezzora. Serviva a scoraggiare i chiacchieroni, ma per me fu più che sufficiente. Mi avvicinai ansioso al terminale libero più vicino e contattai la nave del terzo inserzionista. Speravo ardentemente che andasse tutto bene.
- Chi è? - mi rispose una voce femminile. Lì su due piedi mi parve assonnata, stanca.
- Salve, sono Kaufman... ho visto l'annuncio e...
- Ah, sì... senti, non ho tempo da perdere quindi se hai qualcosa da chiedere fallo subito.
Mi piacciono le persone schiette, ma al momento mi parve un'esagerazione. Fui sul punto di salutare e togliere il disturbo, ma mi ricordai che nell'unica card che mi era rimasta in tasca non c'era denaro abbastanza nemmeno per un solo involtino primavera.
- Basta che lei mi paghi – schiettezza per schiettezza, mi dissi. In realtà ero terrorizzato dal pensiero di essere respinto per l'ennesima volta.
- Non posso andare oltre la paga standard. Sono sei giorni di viaggio, tutto compreso. Niente premi, niente extra.
Non era molto, ma non avevo scelta.
- Va bene.
- Hai il permesso di salire a bordo. Sbrigati, su.
Chiusi il collegamento, convinto di aver venduto la mia dignità. “Basta che lei mi paghi”: quelle parole mi risuonavano in testa come una eco e me ne vergognavo. Non mi sembravano nemmeno mie. Ero molto avvilito mentre aspettavo la mia tuta, trasportata gratuitamente grazie ai servizi automatizzati di quella parte dello spazioporto. Osservandola mentre il meccanismo trasportatore la avvicinava alla piazzola dove avrei potuto indossarla, mi resi conto che non era stata né lavata né ricaricata. La mia “leggera” verde brillante, vecchia come me e tutta da revisionare aveva meno di quaranta minuti di autonomia, dopodiché l'aria avrebbe cominciato a scarseggiare e l'energia a esaurirsi. Non avevo soldi per la ricarica, ma non ero preoccupato: la gabbia motrice mi avrebbe portato a destinazione in dieci minuti circa.
Con un po' di fortuna mi trovai da solo nella gabbia motrice e fui in grado di dare uno sguardo alla nave cui mi stavo avvicinando. Intravidi i motori con le loro gondole alettate: era una nave di classe Europa configurata con due propulsori. Evidentemente al comandante piace correre, pensai. Ma non ci fu tempo per troppe elucubrazioni: la gabbia motrice arrivò in breve tempo di fronte alla camera di equilibrio che si aprì davanti a me, svelando il suo interno vuoto illuminato di rosso. Saltai dentro e fui subito saldamente afferrato dalla gravità artificiale, regolata piuttosto forte. La procedura di compressione fece scricchiolare le guarnizioni della mia tuta. Probabilmente la camera di equilibrio era stata riprogrammata per ottimizzare il ciclo di compressione. Fortunatamente la mia “leggera” resse bene ancora una volta.
La camera di equilibrio si aprì e io entrai in una specie di vestibolo, ingombrato dalla discutibile installazione di un armadio robot che si stava occupando di una ingombrante tuta EVA. Mi tolsi il casco e assaggiai la fredda aria di bordo, frizzante e piacevole. Fui contento: era prassi piuttosto comune che i serbatoi dell'aria non venissero caricati con aria fresca in previsione di un viaggio di pochi giorni. Col casco in mano aggirai cautamente l'armadio robot e mi sporsi nello spinale, dove la camera di equilibrio si affacciava, chiedendo educatamente il permesso.
Mi venne incontro un tecnico della manutenzione. Doveva essere impegnata da tanto a bordo: il viso stanco, le guance paffute un po' arrossate facevano risaltare gli occhi cerchiati. La pettorina blu aveva una bretella sganciata e penzolava, svelando la curva di un pesante seno premuto contro la maglia grigia a maniche lunghe. Camminava posando i piedi scalzi direttamente sul lindo pavimento dello spinale.
- Salve – mi salutò, mettendo poi la mano davanti a uno sbadiglio.
- Non c'è il comandante? - la mia domanda le fece brillare una luce cattiva negli occhi scuri.
- Sono io – mi detti immediatamente dell'idiota. Avevo appena compiuto il primo errore grave. Così presto che avevo ancora il casco della tuta sotto il braccio. Mi fu chiaro come il sole che non aveva gradito.
- Allora, ti interessa il lavoro? - aggiunse grattandosi la testa coperta da una gran massa di capelli ricci e ribelli trattenuti da infantili mollette colorate apparentemente disposte a caso. Sperai che avesse letto il mio imbarazzo. Sperai che quella domanda fosse la prova che non si era offesa. Ma che diamine, mi era davvero sembrata un tecnico della manutenzione.
- Certo – non avrei potuto rispondere diversamente. Mi rivolse quindi parecchie domande, facendomi parlare per diversi minuti. Volle sapere dei miei incarichi e io le parlai dei miei esordi come meccanico presso i moli di Apollo, della mia carriera come tecnico specializzato in sistemi di potenza in cantiere, della promozione a motorista, dei miei viaggi. Non sbadigliò nemmeno una volta.
- Senti, per me va bene. Niente scherzi del cazzo e vedrai che andremo d'accordo. Se ti togli la tuta, io ti preparo il contratto da firmare.
Non penso che in quel momento avrei potuto udire parole più belle. Cercando di mantenere la calma mi sfilai la tuta nel vestibolo e mi presentai a lei, senza osare superare la soglia del ponte di comando e con le scarpe in mano. Ogni nave è un mondo a sé e io avrei dovuto imparare le regole di quella. Poi il modulo di comando era davvero piccolino, non c'era molto posto.
- Che ci fai con le scarpe in mano?
Si era voltata verso di me e aveva indicato le mie scarpe, vagamente stupita. Di rimando indicai i suoi piedi scalzi e per la prima volta le sue labbra rosa si piegarono in un sorriso che fuggì subito via.
- Non è obbligatorio camminare senza scarpe – disse porgendomi la penna ottica – ma sono contenta che hai anche tu quelle.
Le mie scarpe da astronauta: leggere e sottili, con la pianta in grado di aderire alle strisce di velcro nel caso venisse a mancare la gravità artificiale. Erano un po' vecchie, ma ancora presentabili. Ne avevo sempre avuto cura evitando di usarle una volta sbarcato. Ricambiai il sorriso, ma lei stava già guardando da un'altra parte. Strisciai il mio badge firmando felice il contratto, dopo averlo letto di sfuggita. Apparentemente un contratto standard, autentico.
- Ah! Che scema sono!
Mi porse la mano. Istintivamente la strinsi, calda e carnosa. Senza la tuta ero più basso di lei.
- Non mi sono nemmeno presentata! Che maleducata...
- Non c'è problema... – iniziai una banale frase di circostanza, ma lei non mi lasciò finire, per fortuna.
- Sono Michaela Patris e, anche se sembro uno spazzino, sono il comandante del Coyote.
- Piacere – sorrisi più serenamente, certo di essere stato compreso se non perdonato per la gaffe di poco prima. La sua mano stringeva fortemente la mia. Mi piace chi stringe la mano così, con forza e decisione.
- Piacere mio... Kaufan – come fanno tutti la prima volta, dovette leggere due volte il mio nome e lo sbagliò ugualmente. Lasciò la mano e chinò gli occhi sul contratto.
- Kaufman – la corressi pacatamente - … e sì, il mio nome è proprio Philo.
- Che nome curioso! Ha un significato?
Era la prima volta che qualcuno mi rivolgeva quella domanda. Non sapendo cosa rispondere, esitai.
- Non che io sappia...
- Occhei, Kaufman... te la senti di cominciare subito? Dobbiamo andare a caricare. Io ho bisogno di mettermi un po' a posto... ho un mal di testa che mi sta tagliando in due il cervello.
   
 
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