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Autore: Fuuma    31/03/2010    6 recensioni
[A.I.] Lui è.
Un uomo fatto di latta e circuiti.
Un Mecha.
Un amante robotico.
Un Condannato a Morte.
Lui Fu.
-scritta per la Challenge Caccia alle uova@FW.it
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Titolo: I am. I was.

Serie: A.I.

Rating: PG

Genre: Angst, Death

Character: Gigolò Joe

Pairing: //

Conteggio Parole: 1.375

Note: E' ambientata prima della fine del film, dopo la cattura definitiva di Gigolò Joe.

Disclaimers: I personaggi di A.I. appartengono agli aventi diritto.

La canzone che suona Joe è Only You di Elvis Preasly, mentre le frasi con cui comincia la fic sono di Elogio della Follia di Erasmo da Rotterdam.
Fanfic scritta per la Challenge Caccia alle uova@FW.it

 

.I am. I was.

Osservate con quanta previdenza la natura madre del genere umano ebbe cura di spargere ovunque un pizzico di follia. Infuse nell'uomo più passione che ragione perché fosse tutto meno triste. Se i mortali si guardassero da qualsiasi rapporto con la saggezza la vecchiaia neppure ci sarebbe. Se solo fossero più fatui, allegri, dissennati, godrebbero felici di un'eterna giovinezza. La vita umana non è altro che un gioco della follia. Il cuore ha sempre ragione.


Il capo si reclinò in uno scatto improvviso, con la naturale curiosità -automatica- che avrebbe potuto avere un passerotto davanti ad una briciola di pane. Le palpebre si chiusero e si riaprirono nel giro di 0,043 secondi, lasciando a malapena udire il sottile gemito del delicato meccanismo che si celava dietro al suo volto sintetico. Finto. Così come lo era tutto il resto: mani, piedi, corpo, capelli, occhi...

La cosa più reale di lui erano gli abiti. In pelle. Neri. Sexy. E scarpe fabbricate nella nazione del Vaticano che, dopo lo scioglimento delle calotte polari, aveva perso la sede del papato e, da Stato, si era allargata inglobando tra i suoi confini le città limitrofe, uniche rimaste della vecchia Italia.

Gli occhi si mossero seguendo le immagini olografiche oltre le sbarre della sua gabbia. Al di sopra dei grattacieli e degli appartamenti incastrati l'uno contro l'altro per risparmiare spazio, le immagini venivano proiettate nel cielo terso di Seattle, mentre una voce maschile recitava alcune frasi di Erasmo tratte da Elogio della Follia. Si intervallavano una dopo l'altra le fotografie del passato: ricerche che erano state definite assurde all'epoca, volti di uomini creduti pazzi che avevano annunciato la catastrofe ambientale dei decenni passati e scatti di scienziati il cui genio era stato riconosciuto solo dopo la morte.

«Imprese Syntex: La follia nel coraggio di osare. L'audacia di superare i limiti della razionalità.» concluse la voce maschile e le immagini dello spot pubblicitario, di un qualche nuovo mecha appena messo in commercio, si chiusero in una schermata nera che poi si sciolse come pioggia elettrostatica sui grattacieli sottostanti.

Svanendo.

Si accorse di star fingendo di trattenere un respiro che non aveva quando lo scan degli errori del sistema, che avveniva ogni sette ore esatte, fece un riepilogo dei componenti del suo corpo, facendogli notare di avere il componente-bocca aperto senza un motivo.

Eppure qualcosa continuava a fluttuare nel suo insieme di bit.

Follia.

Che parola affascinante.

Follia.

Aveva un suono curioso.

Immobile come un manichino -un finto essere umano-, attese che scaturisse una scintilla dai neuroni positronici smossi per ricercare le informazioni assimilate nel tempo nel suo database interno, attingendo da ogni possibile cella di memoria dedicata all'apprendimento.

Un ronzio.

Non si udì altro precedere l'input necessario all'azionamento dei comandi vocali e la voce artificiale, impostata in un'impeccabile inglese dal timbro maschile, rifluì alle labbra, mentre leggeva la definizione che aveva preso forma direttamente nella propria testa.

«Follia: nf. Stato di alienazione mentale. Obnubilamento dell'intelligenza, del senno. Ogni stato di alterazione delle facoltà psichiche e mentali. Pazzia.»

Spostò una gamba davanti all'altra, incrociandole, e portò l'indice affusolato della mano destra alle labbra, incurvate leggermente. Era la postura che preferiva per imitare la facoltà degli Orga di riflettere, sebbene lui non ne avesse bisogno in quanto la sua cpu interna poteva analizzare un dato e, contemporaneamente, permettergli di fare un centinaio di altre cose.

«Che sia follia quella che spinge un Mecha a voler diventare reale?» si domandò, sbattendo nuovamente le palpebre. Questa volta però attese parecchi secondi prima di risollevarle, rimanendo ad osservare, attraverso le registrazioni della sua memoria, la sicurezza con cui l'unico bimbo-mecha che avesse mai incontrato gli aveva detto di voler diventare un bambino vero.

David, che, come Pinocchio, voleva trovare la sua Fata Turchina.

Lo aveva lasciato soltanto da ventiquattr'ore, dopo la propria cattura, ma era sicuro che sarebbe riuscito a realizzare il suo sogno. E poi c'era Teddy con lui.

A discapito delle probabilità di riuscita calcolate in automatico dal proprio programma, se il piccolo David era riuscito ad arrivare fino alla città di Man Hattan, sicuramente avrebbe trovato anche il modo per andare oltre.

«Che cos'hai tanto da sorridere, Ferraglia?»

Riaprì gli occhi di scatto, che subito si posizionarono quindici gradi sopra la linea immaginaria dell'orizzonte di fronte a sé, ritrovando forme che il suo cervello positronico ricollegò ad un Orga di sesso maschile.

Le labbra si ridistesero in una linea piatta, sollecitata da un comando interno e osservò l'Orga far tintinnare una chiave contro le spalle della gabbia prima di aprirla e sorridere con un ghigno storto ed il disgusto nello sguardo - così umano nonostante tutto.

«Pessimo segno, Joe.» mormorò a se stesso, quando, accanto alla porta, due paia di braccia lo afferrarono per tirarlo fuori dalla gabbia.

Accusato dell'assassinio di un'Orga.

Colpevole senza ombra di dubbio.

Condannato senza processo.

Si era arrivati in fretta all'unico finale possibile: pena di morte.

«Sei al capolinea, eh, Joe?»

Si voltò verso la voce che aveva parlato, riconoscendo il tono amareggiato di corde vocali femminili.

Una Donna.

Elisabeth. Oh Elisabeth! Ritrovò il suo nome nella propria CPU, linkato al volto di una polizziotta dai capelli corti del colore del granturco e gli occhi di un nocciola brillante che, col sole -aveva notato- prendevano screziature più scure. Nascondeva le sue forme generose al di sotto di una divisa, ma lui, che di donne se ne intendeva come qualsiasi mecha amante, aveva potuto ammirarle qualche tempo prima. E toccarle. Carezzandole lentamente. Facendo vibrare il suo intero corpo sotto di sé.

Il capo si abbassò velocemente verso la spalla destra, per dare il play ad una delle canzoni della sua lista interna.

Una romantica canzone d'amore, naturalmente.

Only you can do make all this world seem right...

«Oh Elisabeth, che cosa mi importa del mio capolinea se ad accompagnarmi ci sarai tu.»

«Non scherzare Joe, ti hanno condannato.»

Only you can do make the darkness bright...

«La vera condanna sarebbe stata privarmi della visione del suo bel viso, mia bellissima Elisabeth.»

«Joe...»

«Sì, mia Dea?»

Only you and you alone

«Tu sei pazzo.»

Joe riabbassò nuovamente il capo verso la spalla.

Can feel m...

La musica si spense.

Aggrottò la fronte e piccole rughe d'espressione si formarono sulla pelle - così simile a quella umana, ma davvero troppo perfetta per esserlo.

«Pazzo.» ripetè meccanicamente. Riflettendo. O facendo qualcosa di molto simile.

Forse era così.

Forse in tutti i Mecha c'era un po' di quella cosa che rendevano gli esseri umani tali. La follia. Di cui avevano ottenuto qualche briciola nel momento stesso in cui erano stati dotati di un corpo a forma umanoide, della sensibilità al dolore e a particolari cambiamenti di stato, o, come lui, dei simulatori di sensualità.

Poteva essere possibile, no? Possibile come salvarsi dalla Fiera della Carne, possibile come andare a Man Hattan e farvi ritorno e possibile come diventare un bambino vero.

«Non ti fermare, Ferrovecchio.» lo intimò uno degli agenti, con una smorfia seccata ed il manganello che lo pungolava alla schiena, per spingerlo in avanti, perchè attraversasse l'arco che dava accesso al Patibolo dei Condannati.

Joe alzò gli occhi.

Nelle iridi di vetro colorato si specchiarono catene arrugginite, penzolanti da travi che attraversavano in orizzontale le pareti che lo circondavano -come spade conficate in una scatola di magia- e che si innalzavano in una torre senza finestre e senza altre porte oltre a quella che appena superata. Si erano fermati subito dopo per la mancanza di un pavimento che avrebbe potuto ospitare i loro passi, c'era un buco invece, così profondo che dava l'impressione di poter raggiungere il nucleo della Terra.

A dare direttamente sul buco, un trampolino.

Avanzò di un passo verso il patibolo, sospinto dal manganello e dalle deboli braccia umane tese verso di lui. Avrebbe potuto voltarsi e spezzarle con estrema facilità, così da avere l'ennesima via di fuga e scampare al proprio destino.

Invece mosse un altro passo.

Lento.

Ma ineluttabile.

I Mecha sono schiavi degli umani, incapaci di reagire alle loro decisioni, per quanto crudeli possano essere.

Lontano dal provare paura. Rassegnato alla sua fine. Incapace di ribellarsi.

Un altro passo.

Joe Sorrise.

Cadendo.

Senza motivo.

«Quando ti sarai fatto più grandicello, parla di me alle signore.»

Alla Morte.

Rompendosi.

Assassinato dai suoi stessi creatori.


 

Io sono.

Io fui.


.THE END.

   
 
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