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Autore: Mannu    02/04/2010    0 recensioni
Un cliente, un incarico, un carico da trasportare, una paga per il servizio reso. A Miki non sembra vero: ha trovato un lavoro. È poco, quasi niente, ma rappresenta un inizio. Ma il regolamento è il regolamento, e questo dice che deve viaggiare con un equipaggio minimo...
Questa storiella è anche un piccolo esperimento per vedere Miki da... un altro punto di vista.
Genere: Azione, Avventura, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Ferraglia spaziale'
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La miniera nel cielo
6.

Furono tre giorni d'inferno. I galeotti evasi si affollavano nell'unico spinale della nave e avevano invaso ogni locale poiché nella stiva di carico non si riusciva a mantenere una temperatura decente nemmeno col riscaldamento al massimo. Il comandante mi confessò di avere dei dubbi sull'ultima riparazione fatta proprio alla stiva, rimandando a un momento più felice la spiegazione completa.
Non so come fu possibile attraversare indenni quei tre giorni terribili. I carcerati in fuga litigavano tra loro in continuazione facendomi stare male dalla paura: molti erano armati e io ero terrorizzato al pensiero che qualcuno decidesse di sparare. Occasionalmente mi tormentavano, mi picchiavano e molestavano il comandante che però si sapeva difendere piuttosto bene. Durante il primo tratto a velocità FTL cercarono subito di abusare di lei e quella rispose parlando loro nell'unica lingua che erano in grado di capire. Con mia grande sorpresa la ragazza si esibì in una poco elegante ma piuttosto efficace tecnica di difesa e l'aggressore si dovette ritirare con una spalla slogata. Io fui costretto a correre a vomitare nel bagno alla vista dell'osso fuori posto e penso non dimenticherò facilmente le urla di dolore dell'uomo mentre gli rimettevano in sesto l'articolazione semplicemente tirandogli il braccio. Da quel momento io e il comandante non ci separammo più, dormendo a turni senza abbandonare il ponte di comando se non per usare il bagno. Solo un paio di volte riuscii ad afferrare una razione per placare i morsi della fame, sfruttando il sonno degli evasi.
Quando si viaggia nello spazio si immagina di viaggiare da soli. Incontrare un'altra nave è statisticamente improbabile. Le navi però fanno tutte più o meno le stesse rotte, quindi in fin dei conti non è insolito incontrare qualcuno. Se capita viaggiando a velocità STL, può succedere che si scambino quattro chiacchiere tramite radio: è quasi una tradizione, una forma di educazione. Come dire “buongiorno” quando si entra nella sala d'attesa del medico privato: sono tutti perfetti sconosciuti, ma si saluta lo stesso.
Rimasi impressionato dal vuoto: per tre giorni non era apparso nulla sul radar né sui sensori. Sapevo che era del tutto normale, ma ero angosciato lo stesso. Sfruttando l'ignoranza di Calvin e dei suoi complici accendevo il radar e lo lasciavo attivo il più a lungo possibile. Come all'andata il Coyote fece tre tratti a velocità FTL, ma di durata inferiore. Ciò significava arrivare prima, spremere di più i motori e fare soste più lunghe tra un tratto e l'altro, poiché i motori e le gondole di emissione necessitavano di maggiore manutenzione. La speranza era che qualcuno notasse l'emissione energetica del radar, facilmente individuabile, e passasse a salutare. Nessuno di noi due aveva idea di cosa fare dopo, ma qualsiasi cosa sarebbe stata meglio di rimanere soli, nel vuoto.
Ad aggiungere tormenti ai tormenti ci pensò Calvin. Da un lato si mostrò un po' più rispettoso dal momento in cui il comandante Miki ebbe slogata la spalla a uno dei suoi complici. Mi sembra giusto dire che impedì agli altri di mettere in pratica una ritorsione qualsiasi, anche perché io e il comandante eravamo gli unici a saper usare tutti i sistemi di bordo. Dall'altro non volle rivelare la destinazione finale, limitandosi a dire che saremmo dovuti entrare nella parte abitata del sistema solare, nei pressi della Luna. Ciò ci lasciava nell'angoscia più assoluta: non era possibile calcolare con esattezza l'ultimo tratto a velocità FTL e di conseguenza ciò rendeva indeterminato tutto il tragitto. Era probabile che avremmo dovuto concludere il viaggio con un lungo tratto a velocità STL, stando in balia di quei criminali senza niente da fare. E senza niente a renderci indispensabili.
Quello che Calvin non sapeva e che noi astronauti ci eravamo del tutto dimenticati era che il Coyote aveva un piano di volo prestabilito. Poco dopo l'ultimo tratto a velocità FTL terminato piuttosto vicino alla stazione di frontiera Finis Terrae, punto di passaggio quasi obbligato per le navi dirette fuori dal sistema solare, Controllo ci contattò per chiederci come mai non stavamo rispettando il piano di volo. Il capo degli evasi si infuriò, ma dovette arrendersi di fronte ai fatti. Avremmo dovuto comunicare a Cielo Alto, il curioso nome con cui Controllo di Finis Terrae definiva se stesso, la variazione di rotta. Si trattava poco più di una formalità che non necessitava nemmeno un contatto diretto via radio. Ma Calvin avrebbe dovuto svelare la sua vera destinazione.
- Prometeo – disse malvolentieri. La cosa lo innervosiva, mi parve evidente dal guizzare dei muscoli della mascella.
Rimasi sorpreso. Avrei scommesso tutto su La Tana, dove un criminale in più o in meno non avrebbe fatto nessuna differenza. Prometeo, pur essendo divenuta una installazione civile a tutti gli effetti da poche decine di anni, offriva ai suoi abitanti un tasso di criminalità poco più che fisiologico. La polizia di Prometeo era nota per i metodi spicci, per il buon numero di agenti e per essere difficilmente corruttibile. Forse Calvin aveva qualche genere di contatto su quella stazione che poteva sfruttare per entrare clandestinamente. Oppure contava sul fatto che la stazione non era ancora completamente abitabile e in via di espansione. Si vociferava infatti della costruzione di un terzo anello e di un certo livello di clandestinità nelle zone con cantieri aperti.
Cielo Alto non ebbe nulla da ridire, com'era prevedibile. Si limitò a registrare la nuova destinazione e a suggerire un sentiero di attraversamento nello spazio da loro controllato. Lo seguimmo anche se non c'erano navi in vista sugli strumenti e quindi apparentemente non v'era alcun rischio di collisione. Nonostante la stanchezza per quei tre giorni passati dormendo sul pavimento e sulle poltrone del ponte di comando, la meccanica del balletto gravitazionale che regolava i movimenti di pianeti, astronavi e stazioni orbitanti mi apparve subito chiara e riuscii a tracciare una rotta per Prometeo veloce e precisa usando una sola orbita terrestre per l'avvicinamento.
- Bravo – mi disse il capitano quando vide la rotta già impostata. Era un momento di calma relativa: sentivo Calvin discutere con qualcuno nello spinale affollato e ridotto a un lurido bivacco puzzolente di sudore. I galeotti infatti nella loro stupidità avevano sprecato l'acqua per uso sanitario esaurendo completamente la scorta in brevissimo tempo. Evidentemente su Mastodonte l'acqua per lavarsi era un lusso non concesso ai reclusi.
Guardai la ragazza mentre controllava i parametri di accensione dei motori per calcolare i consumi. Aveva il viso pallido e stanco, gli occhi cerchiati e un po' infossati. Teneva i capelli ricci e ribelli legati in una coda raffazzonata e il collo della tuta azzurra aperto di pochi centimetri. Nessuno di noi due si lavava da tre giorni e mi resi conto di non avere il diritto nemmeno di pensare che puzzasse fortemente; stare spalla a spalla per discutere i tempi e la modalità di accensione dei motori non era piacevole per nessuno dei due.
Infine, calcolata la finestra di accensione dei motori in modo che fosse la più vicina possibile, risultò che in meno di due ore saremmo giunti nello spazio controllato da Prometeo. Attendemmo con ansia il momento di attivare i motori, che anche questa volta fecero il loro lavoro in modo esemplare. Esaurita l'accelerazione, non ci rimase altro da fare che controllare che tutto filasse liscio.
Mi abbandonai contro lo schienale della poltrona del comandante. Ormai non mi sentivo nemmeno più a disagio nel sedermi al posto della mia datrice di lavoro. Chiusi gli occhi, preda della stanchezza, ma non avrei dormito. La tensione, la paura e il rimorso mi avevano negato sonni tranquilli e allora temevo che non sarei stato più capace di riposare serenamente in vita mia. Non appena riuscivo a rilassarmi un poco, i miei pensieri mi buttavano addosso il peso di aver aperto il fuoco contro un'installazione governativa, contro delle persone. Sarei stato accusato, processato e incarcerato. Rabbrividii al pensiero di essere recluso insieme a feccia dello stesso genere di quella che aveva riempito il Coyote e che mi aveva reso amara l'esistenza in un modo che mai avrei potuto immaginare. Mi costrinsi a pensare ad altro e, come spesso mi capita, finii per dire una banalità.
- Cosa faranno di noi? - sussurrai dopo aver verificato che nessuno oltre il comandante Miki fosse in grado di sentire. Ero stato ispirato dal conto alla rovescia che sullo schermo davanti a me scandiva i minuti rimanenti alla manovra che ci avrebbe portato in orbita sincrona con la stazione Prometeo. L'ultimo compito che ci attendeva, terminato il quale gli evasi sarebbero stati liberi di agire secondo le loro vere intenzioni.
- Non lo so – sussurrò di rimando il comandante senza nemmeno guardarmi. Disse quanto avevo appena pensato, stando scomposta sulla poltrona dello specialista di bordo, a destra di quella occupata da me. Teneva il mento appoggiato sul petto e le mani con le dita intrecciate posavano sul ventre tondo e pieno. Mi sembrò abbattuta, sconfitta. Forse anche lei stava rimuginando pensieri lugubri come i miei. In preda a un improvviso rigurgito di risentimento e desiderio di vendetta per tutto quello che avevo dovuto subire, esposi un'idea sulla quale avevo riflettuto pochissimo e che avevo accantonato subito dopo averla formulata la prima volta. Era così viscerale che la modificai man mano che la bisbigliavo al comandante, controllando in continuazione le sue reazioni e che nessuno degli ospiti indesiderati entrasse nel piccolo ponte di comando.
- Se facessimo qualcosa di strampalato, di pericoloso... intendo dire prima di ormeggiarci a Prometeo... potrebbero abbordarci i militari e a quel punto, forse...
Stavolta il comandante girò la testa verso di me.
- Siamo già ostaggi adesso. Ci userebbero come scudi per difendersi, minacciando di ucciderci in caso di abbordaggio. È abbastanza ovvio.
- Se intervenissero le forze speciali dell'Esercito, loro non si fanno intimorire – suggerii, ritenendo abbastanza probabile l'invio di militari addestrati a risolvere situazioni di crisi come la nostra.
- Bravo, l'hai detto. Non si fanno intimorire dalla presenza di ostaggi.
Complice forse la stanchezza e lo stress, ci misi un po' a capire. Mi vergognai: il capitano Miki, che mi aveva confessato di avere da pochissimo compiuto ventisette anni, mi aveva dato una dimostrazione di saggezza che avrebbe dovuto giungere da me, quasi cinquantenne. Amareggiato, mi riproposi di tenere la bocca chiusa.
- Allora, quanto manca?
La voce rude e volgare del criminale mi fece sobbalzare. Sollevai la destra a indicare lo schermo davanti a me dove si leggeva il conto alla rovescia: mancavano meno di quaranta minuti e avevamo già da tempo la sagoma di Prometeo sugli strumenti dei sensori.
- Come funziona l'approdo? - volle sapere Calvin. Esitai e fu il comandante a rispondere.
- Controllo vedrà il nostro vettore di approccio e ci chiamerà per chiederci che intenzioni abbiamo. Gli dovremo dire se intendiamo attraccare e loro ci assegneranno un molo. Manovreremo per metterci tra le mani di una IA che ci farà avvicinare e ormeggiare senza... fatica.
Temetti per un istante che il comandante Miki stesse per dire “senza fare niente”. Probabilmente si era corretta in tempo. Ritenevo essenziale che Calvin continuasse a pensare di non poter fare a meno di me e di lei. Se ne andò senza commentare ma guardandoci torvo. Di lì a pochi minuti giunse il preannunciato messaggio di Controllo di Prometeo al quale dichiarammo, controvoglia, la nostra intenzione di ormeggiarci. Ci fu assegnato un posto come previsto e, più in fretta di quanto potei gradire, ci trovammo tra le braccia di una IA che con la sua voce maschile giovane e sbarazzina ci portò fino a destinazione.
Tenevo sott'occhio le acrobazie che l'intelligenza artificiale faceva per compensare i motori di manovra rimasti a secco e, per fingere di avere qualcosa da fare, attivai i sensori e le telecamere esterne. Eravamo abbastanza vicini alle nuove strutture esterne di Prometeo da poter guardare attraverso gli occhi digitali del Coyote cosa stava succedendo intorno a noi. Per poco non trasalii dalla sorpresa. Controllai i sentieri di approccio, ma non si poteva sbagliare. In preda all'eccitazione mi permisi di richiamare l'attenzione del comandante toccandole un braccio. Stavamo andando incontro a una enorme nave da battaglia già ormeggiata ai moli esterni di Prometeo. Era così grande da occupare il posto di quattro cargo di medie dimensioni. Una volta avevo visto con grande interesse un documentario sulla fauna marina del pianeta, ormai estinta. Ne ero rimasto molto colpito e affascinato, al punto che ancora oggi mi ricordo molte delle cose che vi erano descritte. Un tempo i mari, oggi sterili e pressoché disabitati, erano popolati anche da creature fantastiche come gli squali. Potevano essere lunghi parecchi metri e crescere fino a pesare centinaia di chili standard. Denti aguzzi e affilatissimi li avevano resi predatori formidabili e pericolosissimi e piccoli pesciolini lunghi pochi centimetri viaggiavano impavidi a pochi millimetri dal loro ventre, perfettamente sincroni. Queste creature, chiamate remore, nuotavano a fianco di un feroce predatore centinaia di volte più grande di loro. Il piccolo Coyote stava affiancandosi a una corazzata tascabile di classe America. Uno squalo dello spazio interstellare. Era così vicina, o così grande, da permettermi già di leggere il numero di registro e il nome: MC 467 Ammiraglio Zarov. Ne avevo sentito parlare: una nave da battaglia varata recentemente.
- Cosa ci fa qui quella? - esclamò il comandante alla vista dell'enorme scafo nero e grigio. Si era espressa con un tono di voce troppo alto per i miei gusti e silenziosamente incolpai lei dell'apparizione di Calvin.
- Questa me la pagate, stronzi – ce l'aveva con noi. Lo vidi mettere mano alla pistola che teneva nella cintura improvvisata realizzata annodando intorno alla vita le maniche della tuta da prigioniero. Molti altri lo avevano imitato, esibendo toraci villosi o biancheria intima di vario tipo, tutto genericamente sgradevole a vedersi.
- Non posso farci niente. Siamo in mano a una IA, l'ormeggio non si può scegliere.
Apprezzai la rapidità del comandante nel rispondere con chiarezza. Rapidità che non le evitò una pistola puntata alla testa.
- Andiamo via di qui! - sbraitò l'evaso. Altri galeotti si affacciarono incuriositi sulla soglia del ponte di comando ma non osarono oltre.
- Ho detto che non posso! Guarda!
Miki, con un coraggio e una forza che invidiai vergognandomi, indicò decisa il mio schermo principale dove appariva chiaramente come il Coyote fosse telecomandato dalla IA di Controllo di Prometeo. In un angolo dello schermo si vedevano già gli ormeggi di nuovo tipo pronti ad accogliere il nostro piccolissimo scafo. Dubitai che quell'ignorante di Calvin potesse capire le indicazioni degli strumenti. Afferrò il comandante per i lunghi capelli ricci e la costrinse con la forza ad alzarsi dalla poltrona.
- Mi stai dicendo che voi due non servite più a un cazzo?
Forse Calvin non sapeva leggere gli strumenti, ma non era stupido. Non del tutto. Precipitosamente era giunto il momento tanto temuto. Il Coyote da lì a pochi secondi sarebbe approdato e sarebbe stato ormeggiato e collegato alle strutture portuali del molo esterno numero 43 di Prometeo, con o senza qualcuno ai comandi.
Sempre tenendola saldamente per i capelli costrinse il comandante a fronteggiare la soglia del ponte. La paura mi stava sciogliendo le budella e pietrificando i muscoli.
- La volevate? Eccovela! - spintonò la ragazza verso gli altri evasi che si pigiavano l'un l'altro sulla soglia, non osando varcarla. Chissà come poteva Calvin esercitare quel controllo su di loro: molti erano armati esattamente come lui.
Una foresta di mani e braccia si tese verso di lei e la afferrarono in fretta prima che riuscisse a recuperare l'equilibrio perso per lo spintone avuto dal capo dei galeotti. Fui travolto dall'orrore: me ne stavo lì seduto, contorto sul sedile del comandante per poter guardare cosa accadeva dietro le mie spalle. Non facevo nulla, non riuscivo a pensare ad altro se non alla violenza imminente. Non mi smossero le acute grida della ragazza che si impuntava e opponeva resistenza a quelle mani che già stavano violandola. Nulla poterono le immagini che mi scorrevano nella testa che sembravano in grado di anticipare di pochi secondi quelle che mi riempivano gli occhi. Qualcuno che non potevo vedere gridò dallo spinale sovrastando il ringhiare bramoso di quelle belve che avevano finalmente azzannato la preda. Furono quelle parole a farmi scattare: “grazie, boss!”. Pronunciate con sincera gioia, con la felicità di chi riceve un dono da amici. Non potei resistere a quella profanazione così intima e volgare.
Scattai in piedi e mi lanciai verso il comandante, intenzionato a strapparla da quelle braccia luride, ad allontanarla da quelle mani rapaci che le stavano facendo del male. Prima che la portassero nello spinale, prima che tutta quella carne esalante fetore umido si chiudesse su di lei.
Stupidamente, aggiungo oggi. Passai davanti a Calvin, non avevo altra scelta; questi mi tramortì colpendomi alla nuca con la mano armata di pistola. Franai malamente sul pavimento, andando a sbattere dolorosamente la faccia contro il fianco di colei che volevo salvare e poi urtando qualcosa di duro con la fronte. Non persi i sensi, purtroppo. Subito mi arrivò un colpo alle costole che mi tolse quel poco d'aria che mi era rimasta nei polmoni. La testa mi sembrava svuotata del cervello, tutto il torace mi doleva terribilmente, volevo vomitare e respirare contemporaneamente e non riuscivo a fare nessuna delle due cose. Gli urli della violenza che si stava consumando a meno di mezzo metro da me mi sembrava di sentirli appena. Emisi un suono strozzato riempendomi i polmoni tra un doloroso conato e l'altro; poi finalmente riuscii a vomitare. L'ultima cosa che ricordo prima di perdere finalmente i sensi era che non riuscivo più a vedere: tutto mi pareva immerso nel fumo grigio.
   
 
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