Il mago, la torre, il bardo
Questo racconto mi è stato ispirato dalla lettura della storia “Solo una ballata” di Cassiana, che si trova
a questo indirizzo:
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=464434&i=1 e anche sul suo
archivio personale
(http://thepurplebook.altervista.org/viewstory.php?id=70). “Solo una ballata” ha partecipato al contest Teatranti,
girovaghi e cantastorie indetto da Alaide e si è classificata in quarta posizione.
"Solo una ballata" mi è piaciuta così tanto da sentire l'esigenza di realizzarne una mia versione, adattandola ai
miei gusti e al mio particolare universo fantastico di cui, sempre su EFP, è possibile leggere qualcosa.
Ci tengo a sottolineare che senza Cassiana questo mia storiella non esisterebbe. A lei vanno tutti i meriti! I
personaggi le appartengono, nonostante io li abbia caratterizzati in modo diverso e privati del nome. Questa storia
vuole essere un omaggio alla sua bella idea e non c'è da parte mia nessuna intenzione di plagio. Nonostante ciò che
potrebbe sembrare, soprattutto leggendo la prima parte della mia storia, non vi è plagio. Se le premesse del racconto
sono le medesime infatti, lo sviluppo e la conclusione sono ben differenti. Questa storia è stata pubblicata solo dopo
aver ricevuto l'autorizzazione da Cassiana stessa.
Il mago passò davanti alla finestra e sentì le sue ossa invecchiate gemere. Indispettito, rinforzò l'incantesimo che
sostituiva le imposte, marcite e cadute ormai da tempo immemore. Sostò di fronte a quella stretta apertura ad arco,
lo sguardo perso sul mare di chiome verdi sussurranti l'arrivo del temporale. Si potevano ormai vedere le nuvole
superare le colline poco lontane: presto avrebbe piovuto. Un soffio di vento più forte piegò i rami degli alberi,
portando il lontano rotolare di un tuono.
Si strinse nella sua spessa veste: stava giungendo la bella stagione, ma per lui ormai l'inverno della vita sembrava
alle porte. Il freddo e l'umidità della vecchia torre, dalle spesse pareti di pietra cementate da malta e antica magia,
gli erano quasi indifferenti: se li portava dentro ovunque andasse.
Questo non significava che non gradisse un po' di caldi raggi del sole, quelli che le nuvole nere di pioggia gli
stavano portando via. Appoggiandosi al bastone, si scostò dalla stretta finestra aperta nelle spesse mura e si
avvicinò al camino di quella stanza. Questo aveva le inquietanti sembianze del cranio di una creatura gigante,
orrenda e pietrificata in un urlo possente. Con un semplice, rapido gesto del suo bastone il mago diede vita a
lingue di fiamma in quella bocca, che presero ad ardere scoppiettando e danzando intorno a due grossi ciocchi di
legno. Presto le fiamme si abbassarono e la brace rosseggiante irradiò il suo intenso, lento calore. Con un mano
nodosa trascinò vicino al camino il suo pesante scranno di legno massiccio, ornato da pochi cuscini consumati, in
modo da scaldarsi e guardare fuori dalla finestra. Lì si sedette, anelando la compagnia di un buon libro. Ma il
vecchio mago aveva imparato a memoria moltissimi libri di incantesimi e aveva letto almeno tre volte tutti i volumi
della sua pur ricca biblioteca, celata e protetta dalle mura di quella torre, consumandosi gli occhi. Così, posato
sulle ginocchia il suo nero bastone dal pomello d'argento, appoggiò la schiena, chiuse gli occhi e aspettò.
Aspettò il sonno che non venne, ascoltando le foglie frusciare nel vento umido messaggero di pioggia. Aspettò
inutilmente la quiete dell'anima, negatagli tanto tempo prima che a stento riusciva a calcolarlo. Aspettò la pioggia
che, dopo promesse di tempesta, ora tardava la sua venuta. L'inquietudine che lo pervadeva non si sciolse nemmeno al
calore del fuoco: sapeva a cosa era dovuta. Invecchiare lo indeboliva ogni giorno di più, ma quella sensazione non
l'avrebbe dimenticata facilmente. Qualcosa stava per accadere: un cambiamento, un avvenimento importante era
imminente. Qualcosa che veniva da fuori, da lontano, che non si sarebbe fermato, come le nuvole nere che si
addensavano sulla sua torre. Si disse che forse era solo il temporale.
Volto lo sguardo al cielo cupo di nubi, il bardo affrettò il passo. Percorreva il sentiero con occhio vigile:
aveva avvistato la torre scendendo dalla collina e ormai non doveva mancare molto al bivio che conduceva là. Si
strinse nel mantello e accomodò meglio il cappuccio che il vento a raffiche aveva già accennato a strapparle
dalla testa. Si aggiustò la sacca di spesso cuoio che portava a tracolla: essa custodiva il suo bene più prezioso,
più prezioso dei viveri e dell'oro che aveva addosso e nel bagaglio appeso alle spalle.
La torre era stata subito evidente, svettante sopra la cima degli alberi. La torre abbandonata, le finestre nere
come orbite vuote, il tetto rotto e bucato. Ma non si era lasciata ingannare; le mura erano ancora dritte, solide
e spesse. Sarebbe stato un buon riparo per difendersi dal temporale: anche se il tetto avesse lasciato passare la
pioggia, e se le finestre non avessero più offerto difesa dal vento, non sarebbe mai stato peggio di cercare rifugio
tra gli alberi.
La prima, pesante goccia la colse sulla fronte mentre era ancora sulla via maestra, intenta nella ricerca della
strada che conducesse alla torre. Era vicina: ne scorgeva il tetto a punta tra le cime degli alberi, non tanto
lontano. Ma del sentiero non c'era traccia. Stregoneria, si disse. Ecco, aveva dato un nome al peso che
progressivamente le aveva oppresso il cuore. La vista della lugubre torre, la causa di tutto. Qualcosa di
innaturale albergava in quelle mura. Ma proprio il suo coraggioso cuore di bardo, oltre alle pesanti gocce di
pioggia che già più fittamente martellavano tutto quello che era sotto il cielo, la spinse a recarsi alla torre. Con
coraggio e determinazione abbandonò il sentiero e puntò nella direzione di quelle nere pietre. Un'avventura forse
l'attendeva, e nuove bellissime canzoni da comporre e cantare.
Batté per la terza volta alla massiccia porta di legno con le mani nude. La tettoia che riparava l'ingresso era
marcita e caduta da tanto tempo che i due monconi di trave rimasti infissi tra le pietre erano coperti di muschio
e funghi; delle assi cadute a terra non c'era che qualche pezzo fradicio, nessuno più grande della sua mano.
- Mago! Lo so che ci sei! Aprimi, ti scongiuro! Ti ricordo che porta sfortuna rifiutare ospitalità a un bardo!
Gridò ad alta voce, il viso bagnato da mille rivoli di pioggia che cadeva battente, dolorosa sulla pelle. Era
fradicia da capo a piedi, e sporca di fango. Aveva inciampato ed era finita lunga distesa più di una volta,
infatti. Ah, le dolci, ombrose foreste di cui spesso cantava le lodi! Non solo quella s'era divorata il sentiero
che portava alla torre, ma le aveva anche reso arduo il cammino tendendole mille trappole con radici sporgenti,
fango e rami bassi! E le infinite foglie che facevano da ombrello ai crudeli raggi del sole? Non avrebbero forse
dovuto rendere meno violente le sferzate della pioggia spinta dal vento? Macché! Il suo mantello si era infradiciato
presto sotto gli scrosci gelidi e i suoi abiti avevano resistito poco più a lungo. Vedeva l'opera di un mago dietro
tutto ciò e non poteva che essersi rintanato in quella torre. Poco distante scoppiò il fragore del tuono.
Né una voce, né un suono, né passi. Del resto quella porta era così massiccia, spessa e rinforzata com'era da grandi
borchie di nero metallo, che dietro di essa avrebbe potuto compiersi la più trucida delle uccisioni che lei non si
sarebbe accorta di nulla. Sfoderò dunque la sua daga e la usò come un martello, battendo sul legno la sua lucida
elsa. Poi si strinse di nuovo negli abiti zuppi, attendendo, grondando pioggia.
Le parve di udire qualcosa: catenacci? Spranghe? Chiavistelli? Finalmente la porta si aprì, i cardini asciugati dagli
anni stridettero e scricchiolarono. Lesta e temeraria si infilò nella buia fessura, spingendo il freddo legno perché
si scostasse più in fretta, sfidando chiunque si trovasse ad attenderla.
- Era l'ora! Ancora un poco e sarei affogata! - esclamò voltandosi verso l'uscio che già si stava richiudendo con
grande e rumorosa sofferenza dei cardini su cui era imperniato. Con sollievo accolse lo spesso odore di polvere
che aleggiava percettibile nel buio: almeno era un luogo asciutto. Un colpo della porta e cadde il buio più fitto.
- E tu saresti un bardo?
Lei fece cadere sulle spalle il cappuccio del mantello, pesante di pioggia. Non si vedeva nulla e quella voce vecchia
sembrava giungere da ogni direzione.
- Comprendo i tuoi dubbi, mago... con questo buio io stessa non distinguerei un mago da uno stalliere...
Una luce: la debole fiamma di una lampada a olio. Era una lanterna, sostenuta da una mano asciutta e ossuta. I suoi
raggi gialli staccarono dall'ombra un'alta figura ammantata, scavando dal nero del cappuccio occhi di brace, un naso
aquilino e una lunga barba quasi del tutto bianca.
- Linguacciuta e insolente... come si conviene a un bardo. Seguimi.
Il mago fece strada lungo la scalinata di pietre che saliva a spirale, seguendo la parete della torre cilindrica.
- Bada: non c'è corrimano, né parapetto.
- Non ti capita spesso di ricevere visite, vero? - ribatté quella alle sue spalle. Si trattenne dal voltarsi
per risponderle.
- No, infatti.
Fece strada sino alla prima camera, così in basso che dall'unica finestra a sesto acuto non si riusciva a scorgere
che uno spicchio di cielo infiammato da qualche fulmine di tanto in tanto. La cupa chioma degli alberi frustati
dalla pioggia e dal vento impediva la vista. Si accostò al foro quadrato del camino e a un cenno del suo bastone
le fiamme divamparono alte, impadronendosi di un grosso ciocco di legna.
- Asciugati gli abiti, bardo – si voltò, ma il bardo non era più alle sue spalle. Con gli occhi frugò rapidamente
la stanza, illuminando con la lampada che lui stesso teneva sospesa. Il bardo sostava presso la finestra, ammirando
la forza degli elementi a naso insù. Almeno così il mago credette di capire.
- Conosci incantesimi che farebbero molto comodo a ogni massaia: finestre invisibili e camini che si accendono
da sé. È straordinario poter osservare la furia del temporale senza venire sfiorati da un soffio di vento, né da
una goccia di pioggia.
- Ho conosciuto numerosi bardi, alcuni molto abili e ricchi di talento, ma nessuno di loro era immune alla
malattia. Asciugati al fuoco.
Il povero bardo aveva già fatto una larga pozzanghera d'acqua piovana sotto di sé, di fronte alla finestra priva
di imposte ma incantata per tenere lontani il vento e la pioggia. L'acqua colava a rivoli sul pavimento di vecchie
assi sconnesse, scendendo ininterrotta dal mantello e dagli abiti inzuppati. Vide la giovane abbandonare i bagagli
che aveva a tracolla e spogliarsi del mantello, che cadde pesantemente e col rumore dei panni lavati al fiume.
- Stai vicina alla fiamma. Io torno tra poco.
Continuò la salita, recandosi al piano superiore. Qui frugò tra le sue cose fino a trovare delle coperte, le più
calde e pesanti che aveva. Le portò di sotto e le offrì al bardo che se ne stava con le braccia conserte e le ginocchia
strette, piegata dal freddo.
- Forse una delle mie tuniche ti potrà tornare utile mentre i tuoi vestiti si asciugano, bardo.
- Grazie, mago – balbettò quella per il freddo. Nonostante la fiamma divampasse alta, la giovane tremava. Esitò per
un istante, notando per la prima volta il candore della sua pelle e il rosso fiammeggiante dei suoi capelli legati
in una stretta treccia. Ciuffi ribelli si erano appiccicati qua e là sulle guance, sulla fronte, sul collo
bianco. Sensazioni da tempo sopite e quasi dimenticate tornarono a fluire intorpidite tra i suoi pensieri. Di nuovo
si arrampicò lentamente per salire al piano superiore.
Si svestì del tutto stando al riparo della coperta più pesante tra quelle che il mago le aveva portato. Ogni suo
abito era inzuppato d'acqua e la sua pelle era bagnata come se si fosse tuffata a capofitto nel centro di un
lago. Si avvicinò al camino tanto che un lembo della coperta, troppo vicino alle fiamme, cominciò a fumare. Quando
il sentore di bruciato le raggiunse le narici, spaventata fece un passo indietro: sarebbe il colmo se, scampata
all'acqua, perissi per le fiamme, si rimproverò. Stava molto meglio: anche se scalza, poiché i suoi morbidi stivali
scamosciati erano divenuti come due otri, cominciava a sentirsi a suo agio. La coperta era pesante e anche se essendo
ispida le punzecchiava la pelle ovunque, era assai gradevole avvolgercisi dentro. Se solo avesse avuto di che
sedersi! Stare in piedi consentiva al freddo di morderle le gambe e lei aveva ancora le coperte del mago da
sfruttare. Ma con quel buio che la circondava, tanto fitto che nemmeno le lingue del fuoco crepitante nel camino
riuscivano a scacciare, era impossibile dire se ci fossero sedie in quella stanza. Invero, si disse, è difficile
persino dire quanto possa essere grande la stanza stessa. Oltre alla parete dove si apriva la finestra, non riusciva
a individuarne i confini.
Udì il bastone del mago battere sui gradini di pietra, uno alla volta, lentamente. Poi lo udì battere sul pavimento
di legno, sempre più vicino. Emerse dal buio alla luce del camino: ma dove aveva lasciato la lanterna?
- Tieni – le offrì una lunga e scura veste da mago, con tanto di cappuccio, del tutto simile a quella che indossava
in quel momento.
- Pensavo che ogni mago avesse come servitore un elementale di pietra... o ti piace accudire in prima persona i tuoi
ospiti?
La figura allampanata e ancora incappucciata sembrò irrigidirsi, come se non avesse gradito l'osservazione.
- Voi bardi... sempre pronti a ingigantire ogni cosa... come se gli elementali di pietra avessero tempo e voglia di
fare da servitori a ogni mago esistente.
- Le canzoni vengono meglio con un po' di fantasia...
- Vorrà dire che per stavolta dovrai limitarti a cantare del mio polveroso saio di lana che io stesso ti ho portato.
Con un dito ossuto il mago indicò il lungo abito che il bardo aveva afferrato con la mano libera, mentre con l'altra
impediva alla coperta di scivolare via dal suo corpo infreddolito.
- Asciugati, asciugati bene, bardo... cercando di non dare fuoco alla torre, se puoi. Ti aspetto di sopra, berremo
insieme qualcosa di caldo. Vieni in ogni momento, io... sono sempre sveglio... sempre.
Aveva pronunciato l'ultima frase con dolore e il suo sensibile animo di cantastorie non era rimasto
indifferente. Cercò di vedere in quella figura alta e un po' curva, che fingeva di appoggiarsi al bastone per
camminare, quale fosse la fonte di quel dolore. La sua mente sveglia e creativa subito si affollò di figure
romantiche e perfino di versi quasi pronti per essere cantati: tristi storie di maghi innamorati, di dure battaglie
tra acciaio e magia per il cuore di una donna, l'eterno esilio dello sconfitto. Quando il mago scomparve nel buio,
lei si destò dalle sue fantasie. Udì l'ennesimo rintocco cupo del bastone sul legno e fermò il mago con
un'esclamazione.
- Mago... verrò volentieri a bere con te, ma... è così buio qui che non vedo nemmeno le scale. Come potrò
raggiungerti?
- Non vedi? - si meravigliò il mago, scandendo le parole con la sua voce stanca – Ah, ma certo, ma certo...
Una fiammella apparve a mezz'aria, da dove le era giunta la voce del mago fino a un istante prima. Essa danzò per
pochi battiti di cuore, poi volò sfarfallando per tutta la stanza come una falena di fuoco. Ove si posava, una lampada
a olio si accendeva, con lo stoppino che sfrigolava per l'umidità. Lampade infisse al muro di pietra con lunghi chiodi
di metallo nero, lampade posate su un tavolo di legno tondo ingombro di libri rilegati massicciamente, lampade posate
su scaffali ingombri di polvere, ornati di ragnatele e piegati dal peso di innumerevoli libri. Quella stanza era
certamente frutto di una potente magia: sembrava molto più grande di quanto potesse essere larga la torre stessa,
ed era stracolma di libri di ogni dimensione e foggia. Al centro di quel chiarore giallognolo, che aveva svelato
quel ricco tesoro e anche una discreta quantità di mobilio, tra cui individuò con sollievo una seggiola, si ergeva
il mago, ieratico. Gettò indietro il cappuccio, svelando un viso non poi così segnato dall'età come la sua voce
poteva far credere. La barba grigia conservava ancora folti ciuffi scurissimi e le sopracciglia cespugliose erano
ancora cupe, nere. I capelli bianchi erano così lunghi che gli consentivano di acconciarli in trecce che scendevano
dalle tempie fino al mento, com'era uso dei maghi guerrieri.
Senza aggiungere una sola parola, le diede le spalle e scomparve in cima alla scala di pietra, lasciandola nel
silenzio, in compagnia delle vivaci fiamme del camino.
L'attese seduto sul suo scranno, accostato al camino dove aveva appeso una pentola con l'acqua da scaldare. L'attese
a lungo, indovinando grazie al suo fine udito cosa quella stesse combinando al piano inferiore. Il temporale infuriava
e il cielo della sera era ormai buio e livido, gravido di fulmini e di pioggia sferzante: non dava pace alla terra,
ricordando al mago quanto cara fosse a lui la pace.
Finalmente la vide salire, sorgendo dagli stretti scalini di pietra. Dapprima apparve il bel viso giovane e radioso
come la luna: aveva sciolto i capelli per farli asciugare più in fretta e ora un'onda rossa le carezzava il collo e
le spalle. Teneva le labbra rosee strette in una smorfia indispettita per la goffaggine cui l'abito troppo grande
per lei la costringeva. Ella si mostrava di una bellezza acerba come solo una giovanetta poteva essere, inconsapevole
di far balzare nel petto anche i cuori più adulti, più avvezzi alla femminilità. Camminava tenendo sollevata con
le mani la veste troppo lunga, temendo di inciampare. Superando l'ultimo gradino, un piede pallido e scalzo apparve
da sotto l'orlo dell'abito che spazzolava il pavimento. Con ritardo il mago si rese conto che avrebbe dovuto fornirle
anche un paio di calzature.
Con un po' di fatica accennò ad alzarsi per cedere la sedia alla giovane ospite, ma quella si accomodò in fretta sul
morbido tappeto che lui aveva posto davanti al camino. Sistemata la veste in modo da coprire accuratamente le gambe
ripiegate strettamente, alla ricerca di calore quella tese le mani con le palme rivolte alle braci nel camino,
ricacciando indietro con un gesto stizzito le maniche ampie e troppo lunghe. Una volta in piedi il mago tolse dal fuoco
la pentola con l'acqua ormai fumante e si recò al tavolo, dove aveva preparato un pasto frugale a base di formaggio
stagionato e frutta proveniente dal bosco circostante la torre. Preparò due tazze di un infuso corroborante e divise
il cibo su due piatti. Offrì tutto alla giovane scusandosi.
- Noi maghi ci sostentiamo con poco – disse sedendosi cautamente, cullando la tazza calda con l'infuso appena
preparato.
- Noi bardi invece sappiamo accontentarci e, nonostante il mio aspetto paffuto, anch'io – rispose quella a bocca
piena. Aveva subito gettato le mani sul cibo dimostrando di gradirlo parecchio.
Il mago poté finalmente osservarla meglio: il viso dal mento appuntito era gradevole a vedersi, ingentilito da un bel
nasino e impreziosito da bellissimi occhi verdi, limpidi e scintillanti, in cui la brace si rifletteva
brillante. Mangiarono e bevvero insieme, discorrendo di palandrane da mago e del vagabondare da bardo.
- È giunto il momento di ricambiare la tua ospitalità! - esclamò quella saltando in piedi repentina, sgraziatamente
come solo alle bambinette più giovani e vivaci si può perdonare.
- Drizza le orecchie vecchio mago, perché questa canzone non l'hai mai sentita!
Ciò detto la scellerata si precipitò giù incauta lungo le ripide scale, con la veste sollevata, i piedi scalzi che
scalpicciavano in fretta sui gradini. Il mago la udì rovistare nel suo bagaglio e poi di nuovo il rapido schiaffeggiare
dei piedini nudi sulla pietra la riportò a lui. Sorridente, gli mostrò un fagotto di quelli che aveva a tracolla quando
gli era apparsa sull'uscio, bagnata come un pulcino. La osservò curioso sciogliere uno a uno i complessi nodi che
tenevano chiuso quel sacco, fatto di spesso cuoio di primissima qualità, da un artigiano che di certo sapeva bene il
fatto suo.
Finalmente ogni laccio fu sciolto e tra le mani della giovane apparve un liuto a cinque corde. Osservò la luce che
splendeva negli occhi di lei: sapeva che ogni bardo teneva al proprio strumento come alla propria stessa vita e lei
non era da meno. Era radiosa in viso, come alla vista dell'adorato amante.
- Non si è bagnato! - esclamò contenta, tastando il raffinato strumento con le piccole dita esperte. La ascoltò
attento trarre le note per l'accordatura del liuto, ansioso di sentire la canzone. Erano passati numerosi anni
dall'ultima volta che aveva goduto del canto di un bardo.
Il bardo cantò. Subito l'aria si riempì delle più melodiose note, degli accordi più belli e della melodiosa voce
della fanciulla. Dolcemente cantò del fabbro che forgiò una spada, del figlio che la impugnò, l'animo votato alla
ventura e ai migliori propositi. Cantò la tristezza del viaggio di quello, in compagnia di mille e mille scheletri;
pianse la sua folle unione con la potente strega, e le orribili conseguenze. Sulle corde del liuto velocemente volò
il drago e fischiò la spada: il bardo cantò le furiose battaglie di quel nobile essere, le vibranti note dipinsero
la sconfitta della strega. Ben più cupi e tristi accordi fecero eco ai versi della canzone che descrissero il congedo
tra il nobile drago e i suoi compagni d'arme. Ma racconti di nuove squillanti imprese sgorgarono dalla gola del bardo
mentre le sue dita pizzicavano veloci le corde, traendo ritmi di battaglia e accordi di vittoria. Il drago, di nuovo
lui! Stretta un'alleanza con il potente mago, essi non conoscevano rivali né temevano la sorte avversa. Mille avventure,
mille imprese, tante che solo un esercito di bardi avrebbe potuto testimoniare, i due vissero insieme. Ma di nuovo
l'aria fu pervasa di gravi accordi, note lugubri accompagnarono il tradimento, il terribile, vile voltafaccia del
mago! La giovane cantò il fiero duello, la sconfitta e la punizione del mago, ripudiato da tutti, maledetto dal
drago e condannato a una vita senza più riposo.
Le ultime note si erano appena spente nell'aria tiepida della stanza, quando il bardo sollevò gli occhi dal proprio
strumento di lucido legno, finemente decorato da un mastro liutaio. Alla luce del camino il volto del mago apparve
rigato dal pianto.
- Avevi ragione, bardo: una canzone così non l'avevo mai sentita prima d'ora.
La voce del vecchio mago, incrinata e sofferente, raggiunse il bardo al cuore. Cercò delle parole per interrompere
il silenzio che era seguito, ma non ne trovò. Avrebbe voluto cantare ancora, ma non c'era una sola canzone
adatta. Perfino la pioggia era scemata di intensità, e le fronde degli alberi non stormivano più.
- Dormi pure nel mio letto, coricati quando lo desideri, bardo. Perdonami se è freddo, ma non lo uso da molto, molto
tempo ormai. Io... io veglierò su di te.
Fissò il vecchio seduto sullo scranno, immobile, col lungo bastone nero posato sulle ginocchia. Gli occhi ora lucidi e
acquosi lasciarono rotolare un'altra lacrima che si smarrì nella barba grigia. Lei si alzò con grazia e si inchinò a
lui, regale come una principessa, ringraziandolo per ogni cosa. Ripose il liuto nella sacca con tutte le cure e le
attenzioni dovute a uno strumento così bello e prezioso poi, vestita com'era, si infilò nel letto del mago. Era davvero
freddo, le lenzuola irrigidite e un po' polverose, ma in breve riuscì a intiepidirlo col calore del proprio
corpo. Guardò lo scranno su cui sedeva il mago, che non aveva mosso un solo muscolo: l'alto schienale di legno lo
nascondeva alla sua vista. Felice, prima di assopirsi pensò a lui, al suo tormento, alle sue lacrime. Finalmente
avrebbe riposato. Era questo che aveva detto il drago.
Il mattino la svegliò baciandole il viso coi caldi raggi del sole. Indugiò un poco tra le coperte, godendosi quel
tepore così bello. Dopo la notte di pioggia, il cielo era divenuto limpido e cristallino, la foresta sonora di
cinguettii e di frulli d'ali, profumata di fresco, il vento leggero e tiepido. Era una bellissima giornata e il
suo cuore di bardo la chiamò al viaggio. Non poteva certo fermarsi a lungo in un solo posto, per quanto bello fosse:
non era la sua natura. Il viaggio, l'avventura, nuove canzoni l'attendevano, altri cuori da sollevare e anime da
rinfrancare.
Scese dunque dal letto e gioiosa si diresse alla finestra, lieta che l'incantesimo del mago si limitasse a tenere
fuori pioggia e vento freddo e non impedisse ai raggi del sole di carezzarla, al profumo della natura di
deliziarla. Stette lì affacciata a godere di quel tripudio di verde e azzurro scintillante, socchiudendo gli occhi e
offrendo il viso ai baci del sole.
- Mago, vieni! È una bellissima giornata! - cinguettò felice.
Si volse verso lo scranno: scorgeva una manica della veste, i piedi, un lembo del cappuccio, il bastone sulle
ginocchia. Il mago era immobile nella medesima posizione in cui lo ricordava dalla sera precedente. Come poteva
starsene seduto lì indifferente? La sua lugubre stanza s'era trasformata sotto i raggi del sole, diventando finalmente
una stanza come tante altre, se si escludevano i libri che giacevano ovunque e qualche ragnatela di troppo. Perfino
le terribili fauci di pietra che si era scelto per camino erano tornate a essere ciò che erano: banale pietra. Scolpita
in modo piuttosto esotico per un ambiente altrimenti fin troppo sobrio, ma pur sempre pietra.
Saltellò lieta fino a lui, incurante del rischio di inciampare nella veste troppo lunga. Forse dormiva ancora. Ma come
poteva resistere alla bella luce che finalmente invadeva la sua grigia stanza? Certo, aveva passato decine e decine di
anni senza poter dormire un solo istante ma, per Elzer, non poteva certo recuperare tutto il sonno perduto in una
volta! Girò intorno allo scranno di scuro legno massiccio chiamandolo allegramente.
- Mago, mago!
Quando gli fu davanti, il suo sorriso scemò. La pelle grigia, gli occhi spenti, il mago era come una statua di marmo:
immobile, freddo e senza vita.
- Mago... - bisbigliò il bardo, con un doloroso nodo nel petto, compreso l'accaduto.
Una lacrima si fece strada dolorosamente fino ai suoi occhi. Rotolò caldissima sulla guancia rosea e le finì tra
le morbide labbra, col suo carico di salato dolore. No, non era questo che le aveva detto il drago.
Il sole le scaldava la pelle e le rendeva sgradito il mantello; i vestiti erano asciutti ma sporchi di fango. La
foresta era splendida e scintillante, ma ancora zuppa di pioggia, e rendeva difficile il suo cammino. Riuscì non
senza fatica a ritrovare la via maestra e a riprendere il suo viaggio. Sulle spalle le gravavano il suo bagaglio
e il liuto; la cintura era appesantita dalla daga e nello stivale riposava nascosto il suo lungo e stretto
pugnale. Camminava decisa lungo la via fangosa, disseminata di pozzanghere di tutte le dimensioni e profondità, già
dimentica della tempesta e del freddo vento, ma anche del tepore del camino e del comodo letto.
Pensava però alla canzone che avrebbe cantato: essa aveva un nuovo epilogo e lo stava componendo a mente, parole e
note, a ogni passo che faceva. Tutti avrebbero conosciuto le gesta del drago e del suo potente alleato
mago. Tutti! Quella sarebbe stata la sua canzone migliore: avrebbe gremito taverne e locande, avrebbe strappato
lacrime ai muri di pietra e ai tavoli di legno, avrebbe fatto ballare perfino sedie e sgabelli. Così intenta a
inseguire i versi e la musica che le sfarfallavano nella testa, non si accorse del cavallo che sopraggiungeva al
galoppo alle sue spalle. Si voltò solo in ultimo, la mano corse in fretta alla daga.
Un destriero bellissimo e maestoso, tutto nero ma con una macchia bianca tra gli occhi, stava rallentando il passo a
poca distanza da lei, sollevando spruzzi con gli zoccoli. Era bardato in modo ricco ma raffinato e le fu subito chiaro
come dovesse appartenere a una persona di nobile rango. La splendida bestia soffiò e brontolò rumorosamente fermandosi
al suo fianco.
Il cavaliere! Un uomo alto e fiero, che la guardava con occhi ardenti. Aveva già visto quegli occhi, conosceva quella
barba nera e folta, quelle trecce di capelli che scendevano dalle tempie. Vestiva con abiti eleganti ma non ostentando
ricchezza, celando la sua figura sotto un ampio mantello cupo col cappuccio gettato indietro, sulle spalle. Appeso
alla sella c'era un semplice bastone, lungo e nero, terminante con un pomo di lucido argento.
- Un passaggio, nobile bardo? - le offrì una mano, sporgendosi verso di lei. Un sorriso parve distendersi sulle
labbra, celato dalla folta barba.
- Grazie, ma questa è una canzone che non sarò io a cantare! - rispose lei, il sorriso sul volto e il cuore che
le frullava leggero nel petto, colmo di gioia.
Il cavaliere le fece un aggraziato cenno di saluto, onorandola come una di pari schiatta. Spronò quindi il suo
destriero e quello si allontanò lentamente di un poco, per non schizzarla di fango. Infine riprese il galoppo
e dopo pochi battiti di cuore era scomparso dietro una curva del sentiero.
Ecco, si disse lei colma di felicità: questo è ciò che aveva detto il drago.