Kanon
è cambiata
molto, rispetto a quando era bambina. Non le importava nulla degli
altri, le
bastava sorridere perché tutto andasse bene, vedeva sempre
il bicchiere mezzo
pieno. Era rimasta orfana, non aveva mai conosciuto i suoi genitori, ma
nell'istituto dove aveva vissuto quei primi sei anni della sua vita
erano tutti
stati così gentili con lei. Ma bastò un momento:
un momento in cui tutto
cambiò.
Due
gemelli di
dieci anni, i cui genitori erano morti in un incidente stradale,
arrivarono
all'orfanotrofio proprio il giorno prima del compleanno della bambina.
Kanon li
accolse con un sorriso: voleva fare di tutto per farli sentire a casa,
proprio
come si era sentita lei fin dal primo istante. Ma i ragazzini, gli
occhi ancora
gonfi di lacrime per la tragedia che avevano visto consumarsi davanti
ai propri
occhi, risposero all'unisono a quell'invito gentile: una risposta
secca, per
niente cortese, colma d'odio.
"Come
possono covare dentro di sé tanto odio e rancore
già a questa tenera età e per
giunta con me, che non avevo mai rivolto loro la parola prima d'ora?"
pensava, affranta. Nei giorni successivi aveva tentato di avvicinarsi
di nuovo
a loro, rivolgere loro la parola, ma niente: continuavano a trattarla
freddamente. Quando un giorno uno di loro arrivò perfino a
picchiarla,
procurandole una ferita sulla guancia, non se la prese con loro,
né li picchiò
di rimando: si limitò ad abbassare la testa e ad
allontanarsi, sconfitta. “Alla
violenza non si risponde con altra violenza”,
pensò tra sé.
Nei
giorni successivi
se ne stette rannicchiata in un cantuccio, fissando il pavimento
bianco, gli
occhi gonfi e lividi: l’orfanotrofio, che era stato per
così tanti anni la sua
casa, stava diventando una prigione, una tortura dalla quale non
sarebbe mai
più stata salvata…
La
mattina andava
in bagno a lavarsi, rubava dalla mensa un cornetto e un po’
di succo di frutta,
e ritornava nella stanza da letto che condivideva con altre tre
bambine: queste
ultime, stando fuori a giocare tutta la giornata, non si accorgevano di
niente.
Kanon avrebbe voluto urlare: “Aspettatemi! Vorrei tanto
giocare con voi!”, ma
era come se qualcosa la bloccasse, la tenesse chiusa in quel luogo. La
ragazzina solare ed allegra che era sempre stata si stava trasformando
in ciò
che non era: una bambina timida, introversa e solitaria.
Essendo
di
corporatura gracile, un po’ perché non mangiava
molto, un po’ perché era sempre
stata così di natura, era facile per lei nascondersi sotto
al suo letto, in
modo che, se fosse entrato qualcuno, non l’avrebbe mai vista,
rannicchiata a
mangiare il suo pasto rubato..”Non è rubato,
è solo preso in prestito!”
pensava, forse più per convincere se stessa, piuttosto che
per trovare una
frase da usare nel caso qualcuno l’avesse
scoperta… come se poi sarebbe stata
in grado di restituirlo, quel cibo!
Andò
avanti così
per circa un anno: restava lì, tutto il giorno nascosta
nella sua camera..che
ormai era diventata a tutti gli effetti la sua prigione: aveva troppa
paura di
uscire fuori, al sole, dove gli altri avrebbero potuto vederla, e
riconoscere
in lei la debole e gracile ragazzina sempre vittima dei due
“bulli”, che ormai
avevano familiarizzato con tutti. Era convinta che sarebbe andata
così per
sempre.. fino a quando non arrivò Lui.
Era
una giornata
d’estate, come tutte le altre, all’orfanotrofio, e
Kanon si era svegliata di
buon mattino, pronta a commettere il suo “furto”
quotidiano: doveva pur
mangiare qualcosa, no? E quella mattina il suo stomaco brontolava
più del
solito! Scese dal letto a piedi nudi, e, poiché sentiva
molto trambusto
provenire dal cortile, si avvicinò alla finestra e,
delicatamente, scostò la
tenda di un rosa chiaro, ma nello stesso tempo opaco. Una folla
numerosa era
riunita in cerchio, incuriosita… la bambina si chiese cosa
fosse successo, e,
approfittando dell’assenza generale, uscì dalla
camera, facendo ben attenzione
a non fare rumore chiudendo la porta, scese le scale in punta di piedi,
e
giunse in cucina. Si avvicinò cautamente alla porta
d’ingresso, il cuore le
martellava forte nel petto: cosa avrebbe fatto se l’avessero
scoperta? Beh,
quello non era il momento di pensare ad una cosa simile: la cosa
più
importante, allora, era scoprire il motivo di tanto fracasso, il motivo
di
tutte quelle attenzioni. Aprì la porta solo un
po’, lasciandola socchiusa
quanto basta per poter scorgere qualcosa: qualcuno
si stava facendo strada tra la folla… e si stava
avvicinando all’ingresso!
Era un bambino, un bambino che Kanon non aveva mai visto
prima…probabilmente
era un nuovo arrivato, naturalmente centro dell’attenzione di
persone che,
passati due anni dall’arrivo dei gemelli, non avevano avuto
occasione di
accogliere nessun altro all’interno dell’istituto.
Kanon era paralizzata dalla
paura, dal terrore di essere scoperta, e non riuscì a
muoversi neppure quando
il nuovo arrivato aprì la porta con fare calmo e delicato.
Alzò la testa e, con
gli occhi lucidi e rossi, rimase lì a guardare la
moltitudine di persone
accalcate sull’uscio, che la fissavano a bocca aperta e con
gli occhi sgranati.
Ecco, l’avevano scoperta. Tutti quegli anni di esercizio per
riuscire
finalmente a passare inosservata, sprecati per nulla.
Dalla
folla
sconcertata iniziarono a farsi strada sussurri confusi e parole
affrettate, le
uniche distinguibili nitidamente erano: “Ecco
dov’era finita!”, “Pensavo fosse
scappata!”, “Ma non era morta?”,
“Ma chi è?”…e molte altre che
di certo non
starò qui ad elencare, visto che non possono essere
ripetute, per quanto
fossero colme di disprezzo e insensibilità verso quella
“piccola ladruncola”,
come la definivano loro.
Il
bambino,
quello nuovo, si voltò e fulminò con lo sguardo
tutti i presenti, come se
stesse ad ammonirli, a dirgli: “Non vedete come è
terrorizzata? Siete sicuri di
essere voi quegli adulti che dovrebbero insegnarci cosa il rispetto e
l’amore,
la fiducia, siano? Io ho qualche dubbio che siate davvero in grado di
farlo!”
Ed
è proprio vero
che uno sguardo dice tutto, dato che quelli ammutolirono
all’istante!
Poi
si voltò di
nuovo verso la bambina e le sussurrò dolcemente:
“Il mio nome è Sohei…qual è
il
tuo?”
“…Kanon”
rispose
lei, rivolgendogli un’occhiata fugace, lo sguardo un istante
dopo rivolto
nuovamente alle consumate assi di legno del pavimento.
“Tranquilla,
Kanon, ora non hai più nulla da temere.” Le disse
poi, e compì un gesto che lasciò
la ragazzina senza parole: senza troppi pensieri e spiegazioni,
alzò il braccio
e posò la sua piccola mano sulla testa di lei, come a
rassicurarla, in un gesto
d’affetto.
E
a Kanon sembrò
che Sohei fosse giunto lì davvero per salvarla, per rendere
di nuovo quel luogo
la sua casa, e fu quella la prima volta che la vista le si
offuscò, gli occhi
si fecero ancora più lucidi e sentì qualcosa di
caldo scendere lungo le sue
guance. Si sfregò gli occhi con le mani. Stava piangendo.
Piangeva per la prima
volta: non aveva mai pianto, mai, neanche una volta, neanche quando i
gemelli
la picchiavano, o la trattavano male, neanche quando, nascosta sotto il
suo
letto, veniva oppressa dalla solitudine, neanche quando sembrava che le
consumate assi di legno del pavimento scricchiolassero apposta per
crollare
sotto il suo peso. E, la cosa più strana era che non
piangeva perché era
triste, ma perché sentiva che, dopo tutto quel tempo,
c’era ancora qualcuno
disposto a volerle bene : piangeva di felicità.
In
un gesto automatico,
e con le lacrime che scendevano più copiose che mai a
rigarle il volto, si
gettò tra le braccia di quel bambino così buono e
gentile, e si sentì ancora
meglio quando si accorse che lui la stringeva forte a sé.
Il
giorno dopo,
quando uno dei due gemelli tentò di sferrarle
l’ennesimo pugno in faccia,
quella bambina così innocua lasciò tutti a bocca
aperta. Si era avvicinata, e
aveva sussurrato: “Prendi questo, Kevin!”.
Quest’ultimo non riusciva a capire
cosa significassero quelle parole, ma un istante dopo fu tutto
più chiaro: Kanon
fece un respiro profondo, e gli sferrò un pugno
così forte che il “povero”
Kevin finì dritto dritto sul pavimento, sanguinante. Da quel
giorno in poi,
chissà perché, nessuno osò
più avvicinarsi a lei per darle fastidio.
Con
il passare
dei giorni, il rapporto di Kanon e Sohei non fece che migliorare: la
mattina
facevano colazione insieme, il pomeriggio pranzavano insieme e la sera
cenavano
insieme. Non era permesso loro dormire insieme, altrimenti non ti
nascondo che
l’avrebbero fatto, legati com’erano. Sohei era la
famiglia di Kanon, e Kanon
era la famiglia di Sohei. Non avevano più bisogno di
nient’altro, se avevano la
reciproca compagnia.
Ma
purtroppo, il
destino volle spezzare quel legame che tutti reputavano inseparabile.
Quel
giorno era
il quindicesimo anno di vita per Kanon, ed il sedicesimo per Sohei:
erano
cresciuti così tanto, che ormai credevano impossibile che
qualcuno potesse
ancora desiderare di adottarli, oramai erano fin troppo legati
l’una all’altro,
non potevano vivere separati.
Era
appena
iniziata la primavera, perché era proprio il giorno della
fioritura dei
ciliegi, e giunse all’istituto una coppia: dicevano di essere
pronti per
l’adozione; non volevano portare con loro un bambino,
perché sarebbe stato difficile
allevarlo; ne cercavano uno ormai maturo e responsabile, da amare come
se fosse
stato un loro figlio. Dopo minuti che sembravano essere interminabili,
presero
la fatidica decisione: era Sohei il più adatto ad andare a
casa con loro.
Questa
notizia
raggelò Kanon, ma non poteva farci niente: se ne sarebbero
andati quella sera
stessa. La famiglia Kobayashi risiedeva a Tokyo, ma, per motivi
d’affari,
dovevano trasferirsi in America, a Los Angeles. Ciò
significava che Kanon non
avrebbe mai più potuto rivedere il suo amato Sohei.
Stavolta
piangeva
davvero per la tristezza. Non poteva andarsene, era tutto quello che le
era
rimasto. Era il suo sole durante il giorno, la sua luna durante la
notte, la
sua stella cometa….era la sua vita. Era davvero quello
ciò che era chiamato amore?
Avvampò al solo pensiero. Eppure
non c’era altra spiegazione a quella sua tristezza
improvvisa, quel suo timore
misterioso. Si avvicino a lui: “Devi proprio
andare..?” biascicò, con voce
tremante.
“Sembra
di si”
rispose il ragazzo, e sembrava nervoso quasi quanto lei. Era dunque
arrivato il
momento dell’addio.
“..Sayounara.”
sussurrò Kanon.
“Non
c’è bisogno
di dirsi addio” disse Sohei “ è solo un
arrivederci. Ci rivedremo, ne sono
sicuro”. Sorrise. Non era il sorriso che Kanon conosceva,
così splendente che
sembrava potesse accendere il mondo intero. Era un sorriso triste e
preoccupato. Ma la ragazza non disse niente, preferì
lasciare le cose
com’erano, illudendosi che un giorno sarebbe davvero potuta
accadere, la loro
riconciliazione.
“E’
una
promessa?” chiese poi.
“Si,
è una
promessa”
“Guarda
che ci
conto, eh?”
Il
ragazzo
rispose con un altro sorriso, che stavolta accese il cuore di Kanon.
Eh, si, si
era proprio innamorata. Ma non poteva dirglielo, non proprio in quel
momento...
“Ci
vediamo!”
Sohei la salutò per l’ultima volta, con la mano,
e, quando l’enorme porta
dell’istituto si chiuse con un fragore assordante, a Kanon
sembrò che le
cadesse il mondo intero addosso.
La
sua vita
ritornò quella di un tempo, senza Sohei. La sua
felicità era partita in America
con lui… per un anno intero ritornò a vivere in
disparte, per i fatti suoi.
Ma
si era accorta
già da tempo che non poteva continuare così.
Era
notte fonda,
tutti dormivano. Tutti tranne Kanon. Si era preparata già da
tempo a quella
circostanza. Era pronta per fuggire via. Destinazione: Los Angeles. Non
sapeva
se avrebbe mai potuto incontrarlo di nuovo, ma almeno si sarebbe
sentita più
vicina a lui. Perché la lontananza la stava uccidendo. Era
stanca di vivere
sotto un cielo buio e spento. Voleva indietro il suo sole. E sarebbe
andata a
riprenderselo.
Si
calò giù dalla
finestra utilizzando un lenzuolo come corda, e salì
sull’aereo per Los Angeles
delle 4 del mattino dopo aver comprato il biglietto, ovviamente. Non
avrebbe mai
più sentito nelle narici l’odore di muffa del
soffitto bianco pieno di condensa
di quello stupido orfanotrofio. Mai più.
Arrivò
a
destinazione ancora più stanca di prima. Si sentiva come se
avesse preso la
decisione sbagliata. In fondo quel posto, per quanto facesse schifo,
era pur
sempre la sua casa. “Ma no”, pensò
“E’ meglio così. In fondo è
quello che
voglio, no?”.
C’era
solo un
piccolo problema: dove avrebbe alloggiato, da quel momento in poi?
Sarebbe
riuscita a comprare una casa, con i suoi risparmi?
Non
era una
ragazza responsabile. Aveva smesso di pensare a ciò che era
giusto molto tempo
fa. Essere buoni non serviva proprio a niente. Sono proprio i buoni ad
essere
sfruttati, usati e malmenati. L’aveva imparato sulla propria
pelle. Lei era
diversa. Lo era diventata per scelta. Decise di tingersi i capelli: non
più
quel castano scuro, quasi nero, comune a tutti gli Asiatici. Ora i suoi
capelli
erano chiari, di un colore quasi rossiccio, lunghi e pieni di gel e
lacca.
Non
ricorda come
fosse entrata a contatto con un Vampiro. Fatto sta che è
successo.
Ricorda,
però,
che qualcuno aveva tentato di salvarla: era alto, e bello come un
angelo. Le
sorrideva, con quei suoi occhi color nocciola, i capelli di un castano
così
scuro da sembrare nero, lunghi ma non troppo.. lo riconobbe subito,
nonostante
fossero passati anni. Come aveva fatto durante il loro primo incontro,
le
poggiò delicatamente una mano sulla testa: “Ti
amo. Abbi cura di te. Questa è
l’ultima volta in cui posso proteggerti”, e cadde a
terra, colpito.
Avrebbe
voluto
dire, urlare che anche lei l’amava…Ma tutto
ciò che riuscì a fare fu
sussurrare: “Sohei..”
“SOHEI!”,
urlò,
con voce soffocata, piangendo tutte le lacrime che aveva trattenuto per
troppo
tempo, ormai. Si, aveva tanto desiderato rivederlo, ma non in quel
modo. Non in
quel momento. Si rese conto che era giunto davvero
il momento dell’addio.
Fu
in quel
momento che venne aggredita.
L’Abbraccio
fu
violento e doloroso. Il sangue le ribolliva nelle vene, il cuore le
martellava
nel petto e le ossa bruciavano. Poi per il dolore svenne, o forse si
addormentò. Il suo sire era un Sabbat, e Kanon
imparò presto cosa fosse la
violenza e la crudeltà. All’inizio
tentò di opporsi, ma poi capì e iniziò
persino
a condividere il loro pensiero. Odiava profondamente il suo sire, per
tutto il
dolore che le aveva causato, ma stranamente nutriva per lui anche un
profondo
rispetto, perché l’aveva salvata da una vita che
non conosceva, che non le
aveva portato nient’altro che sofferenza. Aveva imparato che
prima o poi tutte
le persone amate se ne vanno. Quindi da quel momento decise che non
avrebbe
amato mai più nessuno. Nacque una nuova forza in lei,
alimentata dall’odio e
dalla rabbia, per combattere non si sarebbe servita di pistole o
fucili: le
bastavano i suoi pugni stretti, stretti come erano i suoi denti nei
momenti di
difficoltà. Ma l’arma più potente era
la sua mente, capace di concepire
strategie nemmeno lontanamente immaginabili per un umano.
La
sua non-vita,
anche se iniziata con rabbia e dolore, era per lei un nuovo dono, una
seconda
possibilità. E non l’avrebbe sprecata, per nessun
motivo al mondo.