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Autore: cabol    18/04/2010    2 recensioni
"Certo, bella società quella: i ladri di polli alla gogna e i veri disonesti nei quartieri alti a pavoneggiarsi dei proventi delle loro ruberie. Talvolta anche nei governi. E lui doveva sentirsi rimordere la coscienza se guardava con desiderio qualcosa che non si poteva permettere".
Mille e mille sono le leggende che i bardi raccontano, sull’isola di Ainamar. Innumerevoli gli eroi, carichi della gloria di imprese epiche. Eppure, in molti cantano anche le imprese di un personaggio insolito, che mosse guerra al suo mondo per amore di giustizia.
Genere: Avventura, Fantasy, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'I misteri di Ainamar'
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Capitolo uno: il gentiluomo


Elosbrand[1], Yavios[2] 11, 370 ore 6 del mattino

«No, signore, non così! Potreste cader…».
Il giovane gentiluomo ruzzolò al suolo prima che il maestro potesse terminare la frase.
Era snello, quasi esile, di altezza media e dell’apparente età di vent’anni. Il volto era decisamente attraente, dai lineamenti delicati, con due occhi grandi dal taglio vagamente a mandorla, vivaci, di un profondo colore verde. Portava due baffi sottili, secondo la moda diffusa fra i gentiluomini di allora. La folta chioma nera gli ricadeva fin quasi sulle spalle. Vestiva semplicemente, con una camicia di seta bianca, un paio di pantaloni di pelle nera e stivali dello stesso colore. Indossava un giubbetto imbottito da allenamento per poter tirare di scherma più tranquillamente. Pur sbilanciato, era riuscito a correggere la sua caduta, riuscendo a sdraiarsi dolcemente al suolo e dimostrando cosa potevano fare i suoi muscoli affusolati.
«Per gli Dei! Non riuscirò mai a maneggiare decentemente quest’affare!».
Il giovane guardava tristemente lo stocco che, dopo essergli sfuggito di mano, era rotolato giù dalla pedana.
«Sono certo di sì, milord, lo farete quando avrete compreso che l’arma che avete in mano deve essere usata in un altro modo. Un modo, peraltro, assai più consono alle vostre capacità».
Il maestro aiutò il gentiluomo a rialzarsi, sorridendo sotto i folti baffi.
Era un uomo imponente, alto snello e muscoloso, a dispetto dei suoi cinquantacinque anni e spiccioli, vestito semplicemente ma con gusto, come si addiceva alla sua professione. I capelli, che portava corti, erano spruzzati di grigio e cominciavano a rarefarsi sulla sommità del capo. Il volto aperto e gioviale era incorniciato da una lunga e folta barba, accuratamente intrecciata. La sua presa, ferma e vigorosa, permise al giovane di rimettersi rapidamente in piedi. Le maniche arrotolate scoprivano due braccia robuste, segnate da molte cicatrici che tradivano un passato certamente più movimentato del presente.
«Lo stocco è un’arma gentile, leggera. Non può essere maneggiato come un’ascia o uno spadone. Quest’arma è tutt’altra cosa. Come, d’altronde, voi siete profondamente diverso dalla maggioranza degli uomini d’arme».
Il maestro, alto quasi una testa di più, guardava intensamente l’allievo, mentre parlava. Il giovane gentiluomo scese dalla pedana per recuperare la spada. Un sorriso divertito comparve sul volto dell’esperto istruttore, mentre osservava i movimenti eleganti dell’altro.
La stanza d’allenamento era ampia, rettangolare, rischiarata da alcuni candelieri a più braccia posti vicino alle pareti. Al centro spiccava la pedana rialzata sulla quale si svolgeva la maggior parte degli allenamenti. L’unica porta della sala era su una delle pareti corte mentre due alte finestre chiuse da preziose vetrate e parzialmente coperte da pesanti tendaggi azzurri erano sul muro lungo, alla sinistra dell’entrata. Addossate alla parete di fondo c’erano alcune rastrelliere cariche di armi di vario tipo. Fra queste si potevano contare possenti asce e affilate scimitarre, spade lunghe e corte, stocchi e persino due enormi spadoni. Il muro dirimpetto alle finestre era decorato con preziosi dipinti che ritraevano duelli e battaglie.
«Dovete imparare a conoscere e apprezzare le vostre doti, che sono tante, e accettare e gestire i vostri limiti, che sono pochi, ma ci sono».
Il maestro raggiunse il giovane, scendendo con movenze eleganti la piccola scala di legno che portava al pavimento, un metro più in basso.
«La vostra agilità è fuori del comune, credetemi, ma difettate in potenza: d’altronde raramente queste caratteristiche riescono a coesistere. Dovete fare affidamento sull’intelligenza, sulla velocità e sulla precisione. Evitate di accettare uno scontro basato solo sulla forza fisica perché non avreste molte speranze di cavarvela. Inoltre, cercare di potenziare la vostra muscolatura andrebbe a scapito dell’agilità. Forse eliminerebbe un punto debole ma sacrificherebbe la vostra dote migliore. Se avrete la costanza di seguirmi, io credo che abbiate le potenzialità per diventare un duellante straordinario».
Come per mostrare cosa intendeva dire, con un colpo preciso dello stocco spense una candela del candeliere accanto a lui senza farla nemmeno vacillare. L’allievo tentò di imitarlo col risultato di spedire una candela dall’altro capo della stanza e spegnere le altre. I sottili baffetti alla moda si torsero verso il basso, in una smorfia di disappunto. Lentamente raggiunse la candela e la riportò al candeliere. Quella parte della stanza era piombata in un’oscurità quasi totale ma il giovane si muoveva come se fosse in piena luce. Pareva che avesse mutuato dai gatti anche la vista, oltre alle movenze.
«Ahimè, sembra facile… ma se affronterò un avversario armato di spada, mi farà a fette…».
Il gentiluomo, evidentemente avvilito, si grattò il capo e si aggiustò il giubbetto imbottito. Il maestro riaccese le candele e si girò verso di lui per guardarlo negli occhi.
«Dovrà prendervi, prima. E non sarà affatto facile, credetemi».
Si voltò sorridendo verso la pedana di allenamento e ci balzò agilmente sopra. Poi indicò la scala al giovane allievo che la ignorò e saltò accanto a lui con l’eleganza di un acrobata.
«Ora, se non vi dispiace, ricominciamo. In guardia!».
L’allievo, un po’ titubante, riprese posizione di fronte a lui, si ravviò i capelli arruffati, guardò con espressione sospettosa l’elegante impugnatura dello stocco, poi sollevò l’arma. Quel mattino avrebbe fatto numerosi viaggi su e giù dalla pedana.
Un’ora dopo, mentre il primo chiarore dell’alba tingeva il cielo di rosa e scacciava la foschia che, come ogni notte, aveva riempito le vie della città, il giovane gentiluomo uscì furtivamente dalla porta posteriore della scuola d’armi, avvolto in un mantello nero e con il capo coperto da un cappello a tesa larga dello stesso colore del mantello, ornato da una grande piuma nera. Sparì nell’ombra dei vicoli, rapido e silenzioso come un gatto, seguito dallo sguardo sorridente del maturo istruttore.
Douglas Fairblank era un uomo di non comune intelligenza, nonché il più apprezzato maestro d’armi di Elosbrand. Era stato un avventuriero di qualche fama, in gioventù, poi, dopo un increscioso scontro con uno stormo di viverne dal quale si era salvato a stento (ma con un notevole bottino in pietre preziose), aveva scelto di ritirarsi per intraprendere la carriera, certamente più anonima e meno remunerativa ma decisamente più salubre, di istruttore. Le sue maniere affabili e la sua competenza lo resero rapidamente assai ricercato, soprattutto fra le classi più abbienti della città, cosa che gli aveva permesso di aumentare la sua già discreta agiatezza.
Quando l’abile istruttore si rese conto di essere oggetto di autentiche contese fra i ricchi gentiluomini che ambivano di diventare suoi allievi, decise di essere arrivato al punto di potersi permettere di selezionare la propria clientela. Da allora scelse di addestrare solo coloro che gli davano ampie garanzie di poter diventare formidabili combattenti, indipendentemente da quanto potessero offrigli come compenso. Questa scelta lo rese ancora più ricercato: essere suoi allievi era diventato ormai garanzia di poter raggiungere i migliori risultati dell’arte schermistica.
In quegli anni aveva addestrato fior di guerrieri e di mercenari, molti dei quali si erano distinti in numerosi tornei. Così ora si chiedeva come mai avesse accettato di istruire all’arte della spada quel Lord Bailey Windström che pareva quanto di più lontano ci potesse essere dall’idea comune di combattente.
Ma Douglas Fairblank sapeva non farsi ingannare dalle apparenze. Aveva sempre avuto l’abitudine di conversare molto con i suoi allievi e negli ultimi anni aveva accentuato la sua ricerca del dialogo perché sapeva bene che le doti fisiche non erano la caratteristica più importante per un vero spadaccino. Occorreva molto di più.
Aveva già rifiutato dozzine di aspiranti allievi simili a quello. Non aveva grande simpatia per chi appariva troppo damerino e ricercato nei modi. Secondo lui, un tipo con quelle movenze da perfetto gentiluomo e quel fisico esile era più adatto alla danza che alle armi. E poi quel ragazzo aveva alcuni gravi difetti d’impostazione. Chi l’aveva istruito alla scherma doveva essere abituato all’uso di spade lunghe e asce, armi che soprattutto richiedevano forza fisica per essere adoperate al meglio, dunque inadatte per quel mingherlino. C’era tanto da fare per correggere quei difetti che potevano essere veramente pericolosi.
Ma qualcosa lo aveva incuriosito in quel giovane. Appariva pigro e sofisticato quando si trovava in un salotto ma sulla pedana pareva trasformarsi. Una formidabile determinazione lo portava a eseguire esercizi massacranti e ripetizioni di movimenti che avrebbero stancato chiunque non avesse avuto ottimi motivi per diventare un perfetto spadaccino. E Douglas Fairblank sapeva benissimo come la volontà fosse il requisito essenziale per imparare.
Ma non era solo questo.
C’era, attorno a quel gentiluomo, un’aura di mistero, qualcosa che lo rendeva particolare e incuriosiva oltremodo il maestro d’armi. Non tanto l’assoluta segretezza con la quale si recava a prendere lezione da lui a quell’ora antelucana: non era la prima volta né sarebbe stata l’ultima che un gentiluomo tentasse di non fare sapere che cercava di diventare un provetto spadaccino. Era qualcos’altro. Qualcosa di indefinibile che però gli faceva sospettare che ci fossero molte cose interessanti nel passato di quel giovane.
Era, o diceva di essere, l’erede di un ramo cadetto di una potente famiglia di Aglargond[3] ma non pareva disporre di ricchezze adeguate alla sua casata, nonostante tentasse di mostrare il contrario. Invece, quel gentiluomo colto e apparentemente vissuto nella bambagia pareva ben conscio del valore del denaro e di come fosse difficile procurarselo. La sua bravura con l’arco era notevole ma la confidenza con l’arma e la rapidità di tiro erano più quelle di un cacciatore di professione che di un nobile appassionato d’arte venatoria. Tutto ciò aveva rapidamente cambiato la prima impressione del maestro d’armi.
Ma c’erano altri aspetti che lo incuriosivano, anche se cominciava a intravedere qualche barlume di verità. L’aspetto di un ragazzo appena uscito dalla pubertà e la maturità di un uomo che aveva vissuto molto e molto sofferto. Modi perfettamente controllati ma un fuoco ardente negli occhi. L’educazione di un nobiluomo ma un’assoluta assenza di alterigia, come chi sa che la nobiltà non si acquisisce per nascita. Un’agilità da pantera ed una resistenza alla fatica insospettabili in un corpo quasi esile. Una voce melodiosa, avvezza al canto, ma ferma e decisa, capace di farsi obbedire con un semplice mutamento di tono. Una lingua sciolta e loquace che riusciva benissimo a parlare per ore senza far trapelare nulla di sé.
Quasi nulla, pensò l’esperto avventuriero.

[1] Capitale della repubblica di Elos, uno dei principali porti di Ainamar, la grande isola dove sono ambientate queste storie
[2] Nono mese dell’anno, il primo d’autunno
[3] La capitale dell’impero di Ardor, lo stato più potente di Ainamar


  
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