La maledizione del Rocci
I vocabolari di greco, che non cambiano
di una singola citazione da un decennio all’altro, sono soliti essere oggetto
del fenomeno sociale del prestito quinquennale, che non di rado termina
nell’eredità. A parte qualche aoristo segnato su pagine strategiche, rimane ben
poco a ricordare chi l’ha posseduto prima, instaurando una relazione di odio
totalmente monogama col nuovo proprietario. Per cinque anni si affrontano
insieme participi predicativi, versi omerici e subordinate d’ogni tipo, per poi
essere liberi, quel giorno di luglio, di porre fine a un rapporto tanto
soffocante. Ci si scorda così di quella mole da cucciolo di ippopotamo appena
dopo l’esame di stato.
Ad Amelia mancavano ancora più di due
anni prima di poter mollare Rocci. Lo chiamava per cognome: non erano molto in
confidenza. In greco andava così così, ma d’altronde non aveva intenzione di
diventare insegnante né archeologa. Fino ad allora si era soltanto compiaciuta
nel riuscire a leggere gli ingredienti dei succhi di frutta anche nei caratteri
ellenici.
Quella mattina, mattina di compito in
classe, con un sole beffardo che splendeva in cielo senza la minima compassione
per gli studenti, la ragazza saliva le scale ripetendo mentalmente i quattro
tipi di periodo ipotetico quando sprofondò in un atroce dubbio sul secondo e
fece per controllare sul vocabolario, su cui era appuntato alla iota. Le si
dipinse sul volto un’espressione allibita nel rendersi conto che non stringeva
nulla tra le braccia.
Lo
zaino era leggero.
Il
Rocci era sul pullman.
Il
Rocci era maledettamente rimasto sull’autobus, lei lo aveva lasciato sull’autobus, e non aveva modo di cambiare questo
dato di fatto. Si girò su se stessa e scese le scale.
Entrata
in biblioteca, non udì risposta al suo buongiorno. La donna che stava lì era
impegnata con parecchi fogli, che
scrutava da dietro i suoi occhialetti a farfalla di plastica. Quando Amelia si
rivolse a lei, questa la guardò come in preda a una crisi mistica, dopo qualche
secondo recepì la richiesta e indicò con la mano ossuta dalle dita agghindate
di anelli pacchiani la sua destra. A destra c’era tutto il materiale della biblioteca
tranne i tomi di algebra, che erano a sinistra. Astronomia, Botanica, Chimica,
Filosofia, Fisica, Geografia, Letteratura americana, francese, inglese,
italiana, russa, tedesca, Psicologia, Storia antica, medievale, moderna,
contemporanea, osservò ogni scaffale, finché non trovò dietro l’architettura
rinascimentale un Rocci dalla copertina blu evidentemente fuori posto. Aveva la
faccia posteriore quasi staccata. Affianco al timbro della biblioteca, in prima
pagina, il disegno di una luna. Uscendo dalla biblioteca, visti un gran numero
di vocabolari di lingue classiche, non udì risposta al suo arrivederci.
Lo
stridere delle sedie nello spostamento dei banchi faceva da soundtrack a quella
scena da documentario animalistico sul comportamento adolescenziale. Sul banco
vocabolario a sinistra, di fianco il foglio di protocollo, una penna e una
matita. La matita non aveva un’utilità, era per fare compagnia. La versione
raccontava di una mosca caduta in una pentola che era soffocata, stando alla
traduzione di Amelia.
«Che
stava per essere soffocata» precisò
una voce. Alzò lo sguardo di fronte a lei e vide una donna vestita in modo
assai improbabile. Sembrava una Statua della Libertà. E nessuno sembrava
essersi accorto di lei. Nessuno, anzi, sembrava esistere più: avvertiva la
classe come una realtà immobile e lontana.
«Ehm…
ciao» fu il discorso più intelligente che riuscì a proporle.
«Benvenuta
sull’Olimpo» sorrise l’altra, mostrandole un tunnel risplendente di una forte
luce bianca.
«Ah
no, non credo a queste esperienze di pre-morte, grazie»
«Non
stai affatto morendo, ma ottenendo l’immortalità»
Amelia
si lasciò guidare, non avendo altre possibilità, verso la luce, finché non si
ritrovò in un luogo ovattato, di una densa impalpabilità, il banalissimo cliché
che è una nuvola. Si pizzicò ma non successe nulla.
«Ti
aspettavamo un po’ diversa» disse la Statua della Libertà notando finalmente
l’estraneità della ragazza a quel mondo divino. I suoi capelli ricci e
scompigliati, la postura tutt’altro che maestosa e i jeans non si addicevano a
quella nuvola, l’Olimpo.
«Aspettarmi
per cosa?» chiese alla Statua, che era chiaro essere la Pallade, Glaucopide,
Parthenos e vari altri titoli Atena.
«Per
prendere il posto da dea. Prendere il posto qui, da immortale, potente,
signora, per sempre»
Sarebbe
potuta sembrare la cosa più allettante, oppure la più terrificante, accettare
quella posizione, ma Amelia non capiva il perché dell’offerta.
Atena
dovette raccontarle cosa aveva determinato la mancanza di una dea, cominciando,
come è giusto che sia, dall’inizio: «Molto tempo fa, c’era un bellissimo
giovane di nome Endimione, di cui la dea della Luna Selene, affascinata, si
innamorò perdutamente. L’umano contraccambiava quest’amore, reso però
impossibile dalla natura effimera della sua esistenza in confronto all’eternità
della dea. Non tollerando l’idea che il giovane dovesse morire, per la paura e
il dolore, Selene lo addormentò in un sonno infinito che ne avrebbe preservato
la bellezza e la giovinezza.»
Amelia
conosceva già il mito, ma Atena continuò: «Il loro amore fu congelato nello
spazio e nel tempo di un sogno, finché la dea non decise di rinunciare alla
propria immortalità in favore di una vita, seppure breve, ma piena, per
entrambi.
Ma
qualcuno doveva prendere il suo posto. Noi dèi decidemmo che chiunque avesse
aperto il portale con il mondo antico del mito sarebbe diventato la nuova
divinità lunare».
L’immortalità
che le stava venendo offerta era una maledizione, una condanna alla rinuncia
della libertà. Amelia non voleva venderla in cambio di poteri sovrumani.
Preferiva guardare il cielo e immaginare cosa ci fosse dietro piuttosto che
esserne padrona.
Ma
qualcuno doveva prendere il posto di Selene.
Si
guardò intorno, sconsolata. Guardò quella nuvola che era l’Olimpo e si rese
conto che il tutto aveva dell’assurdo. L’Olimpo era un prodotto della fantasia
umana. Gli dèi erano il frutto di speranze e timori di gente vissuta duemila e
settecento anni prima. Esistevano tanti dèi quanti se ne sentì il bisogno,
esistevano tante versioni dello stesso dio quante diversi poeti hanno gradito
darne. Non erano gli dèi a decidere sugli uomini, ma il contrario. E questa
verità doveva valere anche nel suo caso. In quanto umana, solo credendoci,
avrebbe potuto ideare una Selene ancora dea della Luna sull’Olimpo parallela
alla donna che viveva sulla Terra, così come qualcuno aveva fatto nascere da
Zeus e Dione un’Afrodite parallela ad una nata da Urano. E il fatto di essere
lì, immune al pizzicotto, le permise di credere.
Ripercorse
il tunnel bianco a ritroso finché non si ritrovò in un luogo disordinato,
solido e tangibile. Sul banco il dizionario a sinistra, di fianco il foglio di
protocollo da riempire con una traduzione.
Ancora
adesso, Amelia ogni tanto gira sul retro il Tetrapak dei succhi di frutta e si
compiace nel riuscire a leggere gli ingredienti nei caratteri ellenici.
Un’estate è andata in vacanza ad Olimpia e, nel leggere i cartelli stradali, ha
raggiunto il massimo compiacimento. Ciò non toglie che, comunque, si sia persa. Per il resto, il greco se l’è scordato appena
dopo l’esame di stato e ora lavora come astrofisica in Germania; d’estate viene
in vacanza qui. Una volta mi ha raccontato la sua storia. Ovviamente non ho
creduto a una sola parola. Ci ripensavo stamattina, mentre correvo in
biblioteca a prendere in prestito un vocabolario perché mi ero completamente
scordata del compito in classe. La vecchia bibliotecaria non mi ascoltava e
avevo ho fretta, così ho afferrato un Rocci dalla copertina blu, con la faccia
posteriore quasi staccata. Affianco al timbro della biblioteca, in prima pagina,
il disegno di una luna. Se la versione è andata male, sono disposta a credere
che sia ancora maledetto.