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Autore: cartacciabianca    23/04/2010    7 recensioni
[Dante's Inferno]
Il Francesco destinato al Girone dei Violenti vien padre di una coppia di gemelli prima di esser nominato Templare. Queste due creature di Dio sono condannate a perire nel «Limbo» là dove per lui e sua moglie non v’era stato celebrato matrimonio alcuno. Eliso dal mondo dei vivi, Francesco piomba nell’«eterno dolore» dell’Inferno. Faccia a faccia col Diavolo, giunge ai peggio patti pur di salvare i suoi tesori più preziosi: promette l’anima di sua moglie Elisabetta in cambio dell’assoluzione alla condanna dei suoi figli, considerati illegittimi dalla fede cristiana. La violenza ancor s’annida in lui, però, che pur di ottener vendetta sfida chi d’un tempo è stato suo grande amico e compagno di sventura. Così muore Francesco, ma la nostra storia si concentra su quel che la sua benevolenza si è lasciata alle spalle.
Isabella e Leonardo Portinari assistono la zia Beatrice per quanto è loro possibile, perché all’improvviso sia lei che la madre Elisabetta vengono rapite da una creatura d’ombra in modi e momenti diversi. L’una destinata a divenire la Regina dell’Inferno, l’altra portata al suo fianco come serva, magari, ma entrambe schiave e sgualdrine di Lucifero in persona. Imbracciate le armi e intascata la maledizione del Diavolo stesso, che farà di tutto pur di ostacolarli, i due gemelli partono per un viaggio ai confini del tempo e della realtà nell’Inferno Dantesco, col solo obbiettivo di riscattare l’anima dei loro parenti innocenti. Non sanno che dietro l’angolo dell’Acheronte li attende un bizzarro incontro con lo zio Dante che, come tutti gli altri membri della famiglia, davano per morto. Elisabetta e Beatrice non faranno mai parte della «perduta gente». «Lasciate ogni speranza voi che entrate» un consiglio a tutte le anime disperate, ma non è certo questo il caso di Leonardo e Isabella. Forza. Coraggio. Amicizia. Ecco cosa lega i nostri eroi.
*Fan fiction ambientata parallelamente agli eventi del gioco. Storia a più mani di dark dream e cartacciabianca.*
[Personaggi: Dante + Nuovi Personaggi; Beatrice, Francesco, Lucifero]
Genere: Dark, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!
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Salve gente!
Qui cartacciabianca e dark dream che vi parlano, frequentatori abituali della sezione Assassin’s Creed che vengono a tormentarvi anche qui, lieti di annunciare la nostra seconda fan fiction in cooperativa! La gente che scrive questo genere di storie non è normale, perciò potete stare tranquilli che neppure noi lo siamo! XD
Allora, prima che vi avventuriate alla lettura dei nostri scleri quotidiani, vediamo di analizzare cosa è davvero questa fan fiction. <.<
Innanzitutto, quando si tratta di una nostra storia a più mani, abbiamo il brutto vizziaccio di reincarnarci un poco nei personaggi che creiamo, in questo caso i due gemelli di cui leggerete, Isabella (cartacciabianca) e Leonardo (dark dream). L’unica premessa che facciamo è che nessuno di noi due sa quanto costantemente e assiduamente riusciremo ad aggiornare questa storia, per il semplice fatto che a tenerci impegnati c’è moooooolto (troppo) altro! E chi c’ha da fa latino sa di cosa parliamo… <.<
Come secondo punto fondamentale, la storia ricalca sicuramente meglio ciò che è il GIOCO di Dante’s Inferno più che la reale (Divina) Commedia, per il semplice fatto che (quanto mi piace dire “per il semplice fatto che” *w* ) ci torna più facile giocare al videogioco che leggerci e interpretare i testi di Alighieri! XD
Nonostante ciò (come avete potuto intuire, non siamo persone normali!XD) speriamo vivamente che qualcuno abbia pietà di noi e legga gli sfoghi della nostra fantasia. Se ci scappa una recensione, pure meglio! *w*
Allora a presto! E buona lettura ;D

Prologo
“Come sale nella carne”

Qualcosa andò in frantumi e si sparpagliò in mille pezzi sul pavimento.
Isabella richiuse il libro che stava leggendo e lo adagiò sulle ginocchia, voltando leggermente il capo verso l’ingresso di casa. Seduta sulla panca della veranda, che affacciava in strada, la giovanissima Portinari non era ma quasi sobbalzata per lo spavento. Aggrottò la fronte e chiese, rivolta a chiunque fosse all’interno: -Tutto bene?-.
Era una soleggiata giornata, nonostante le minacciose nuvole grigie che si annidavano a nord e puntavano verso Firenze spinte dal vento. La città era nel fervore del mercato e della gente chiassosa, il cui ciarlare non disturbava minimamente una ragazza così prona e capace di isolare la mente da ogni male.
-Se vieni a darmi una mano forse è meglio, che dici?- brontolò una voce maschile dall’interno.
Isabella sospirò e, con immensa pazienza, rientrò in casa. Si affacciò in cucina e trovò il fratello intento a raccogliere i cocci di una porcellana dal pavimento. A prima vista la ragazza riconobbe in terra sparpagliato quello che le parve zucchero.
-È sale- si apprestò a dire Leonardo Portinari come leggendole nel pensiero. Finì di raccogliere i brandelli e porse alla sorella la scopa. –Su, avanti, prima che torni nostra madre e veda cosa abbiamo combinato-.
-Cosa TU hai combinato- lo corresse Isabella con una risatina. –‘Sta volta non la passerai liscia-.
-Suvvia, sorellina, per una volta che voglio condividere qualcosa con te, rifiuti in questo modo!- scherzò.
Isabella prese a spazzare il pavimento raggruppando il sale da una parte, così che il fratello, con una paletta di legno, potesse imprigionarla ad un nuovo passaggio di setole di paglia.
A cose fatte i due gemelli si scambiarono un’occhiata complice.
-Il gatto?- domandò Leonardo inarcando un sopracciglio.
-Il gatto- ne convenne lei.
Dalla porta d’ingresso comparvero in quell’istante due raggianti figure femminili, emerse come d’incanto dalla folla che animava la strada di fuori.
La prima era l’Elisabetta loro madre: castana, occhi azzurri come il ghiaccio, viso maturo, senziente quanto può esserlo quello di una donna buona e saggia. Non era tanto alta, ma nemmeno troppo bassa rispetto al figlio che l’aveva superata già all’età di dodici anni. Figuriamoci ora che ne avevano, sia lui che la sorella, venti! Vestiva di un abito non troppo sfarzoso, ma che si addiceva al simbolo femminile di buon casato che rappresentava.
La seconda dama aveva invece capelli lisci e vivi di un biondo oro. Occhi profondi e carichi della stessa purezza che traspirava la sua pelle candida come un lenzuolo. Indossava un vestito bianco e ocra che risaltava le spalle magre e le sfinava il ventre piatto, senza risaltarle troppo il seno.
Elisabetta entrò in cucina e posò sul tavolo le buste con le compere fatte al mercato in compagnia della cognata.
-Zia Bea!- esultarono i gemelli quando la videro, nascondendo scopa e paletta all’istante, e la donna sorrise radiosa.
-Sorpresa- gioì Elisabetta guardando prima i figli poi la parente acquisita. –Ci siamo incontrate per caso al mercato e ho pensato che vi avrebbe fatto piacere rivedere vostra zia- disse.
Isabella mise da parte la scopa e andò ad abbracciare la dama. Beatrice le fece tanti bei complimenti sui suoi capelli sempre profumatissimi, come li aveva da bambina, e per quanto in fretta fosse diventata una bellissima donna. Isabella arrossì non riuscendo a dissimulare l’imbarazzo che provava ad ogni elogio di quelli.
Venne il turno di Leonardo che, dopo aver approfittato della distrazione delle tre grazie per mettere via i resti di coccio e sale nella pattumiera, andò incontro alla zia con un inchino garbato.
-La vostra bellezza fa invidia alle mie coetanee compagne di scuola, Beatrice- pronunciò sincero il ragazzo.
-Leonardo, potrei giurare che, per quanto me lo ricordi, sei diventato più alto di tuo padre- rispose Beatrice senza smettere di sorridere.
-E forse forte quanto lui! Se solo mi avesse permesso di venire in Crociata, io…-.
Elisabetta lo interruppe bruscamente, ora accigliata. –Ma sentilo l’ometto di casa! Vuoi andare in guerra proprio tu che a mala pena selli il cavallo- lo derise con una nota amara nella voce.
Il tasto della Guerra Santa era tanto delicato quanto spinoso per Elisabetta, moglie di Francesco che era partito già da qualche mese.
Isabella chinò il capo e affondò il mento nel petto, sentendo salire l’angoscia di quelle volte che si parlava di suo padre.
Beatrice scambiò con la cognata uno sguardo carico di rammarico, come se fosse colpa sua il motivo di tanto improvviso rancore.
-Vi fermate per cena, zia?- domandò Leonardo meno serio.
Bea scosse la testa. –Mi piacerebbe molto, ma Alighiero ha insistito perché restassi a casa con lui in questo periodo. Ho paura che farlo preoccupare potrebbe mettere a rischio l’incolumità di più gente-.
Elisabetta arricciò il naso al sentir pronunciare quel nome. Non gli era mai piaciuto il padre dell’uomo al quale Beatrice era promessa. A Firenze era oltremodo risaputo che fosse un grande avaro, goloso e lussurioso, e la moglie di Francesco aveva insegnato con costanza ai suoi figli a stare lontano da gente simile. In compenso, il Dante che era partito con Francesco si diceva fosse un vero uomo onorevole e galante.
Beatrice andò via così, salutando cordialmente e baciando tutti e tre con amore. Quando la porta si fu chiusa alle spalle della dama, Leonardo seguì la sua figura angelica perdersi nella folla.
-Lo sappiamo che è una bellissima donna, Leonardo, non c’è bisogno che lo gridi così forte- ridacchiò Isabella venendogli accanto.
Leonardo si riscosse dal guardare in strada e finse di occuparsi d’altro. –Non so di cosa tu stia parlando- biascicò.
-Se non fosse che è già promessa al miglior amico di nostro padre, l’avresti corteggiata già cento volte!- insisté la ragazza con malizia. –Meno male che hai un po’ di buon senso a lasciar stare le donne più vecchie di te-.
-Smettila, dai- eruppe Leonardo. –Sì, è una bellissima donna, e con questo?! Non posso pensarlo senza che mi si dia dell’innamorato?!- sbottò a sua difesa.
-Isabella, Leonardo!- strillò d’un tratto Elisabetta dalla cucina.
I due si precipitarono di corsa, allarmati, ma sorpresero la loro madre che teneva in mano il sacco di paglia dentro al quale il ragazzo aveva gettato i cocci e il sale finiti in terra. La donna scrutò allungo i figli senza aggiungere parola; bastava guardarla in faccia e temere i suoi pensieri perché ai gemelli tremassero le gambe.
I due fratelli si scambiarono un’occhiata nervosa. Poi guardarono la madre e dissero in coro: -È stato il gatto!-.

~ ۞ ~

Non aveva idea di che posto fosse o di quanto allungo vi sarebbe restato. Quel che dava certo, però, erano le grida di dolore e terrore mescolate ai cori di guerra e ai tamburi in lontananza. Questi scandivano il passo dei prigionieri che seguivano la mala via l’uno dietro l’altro, come legati da una catena tanto robusta quanto invisibile come quella della resa alla disperazione.
Di tutta la gente che lo circondava, Francesco non vide nessuno tentare la fuga: in momenti del genere la natura umana comanda di star come pecore coi suoi simili, senza ribellioni, senza litigi. Ma neppure loro, gli umani davanti e dietro di lui, potevano dirsi tali: nudi, privi di altro che non fosse l’unico corpo, l’oggetto col solo scopo di contenere l’anima.
La salita finiva là dove, abbandonata la nave che li aveva traghettati sull’Acheronte, Francesco vide comparire un grande anfiteatro colonnato dall’aspetto greco antico. Nel mezzo tra due pilastri sedeva, o meglio, s’aggrappava agli stessi un mostro di misure colossali, peggio di tutti quelli che il Portinari aveva incontrato nel suo lungo cammino da punibile reietto.
Si era milioni, (ma che!) miliardi di milioni a dover attendere il proprio turno. Uno ad uno, quel mostro orripilante pigliava chi voleva come prodotti da scaffale e se li portava vicino al naso, perché occhi non aveva. Poi gridava: “Avarizia!”, “Gola!”, “Lussuria!”, “Ira!” con tanto furore a seconda dei peccati di cui si erano macchiati quelle donne o quegli uomini.
Alcuni tornavano indietro, nuotavano contro la corrente di gente che saliva, saliva fino a non sentirsi più le gambe (era una pena anche quella) stringendosi le tempie e gridando. Francesco ne vide più di uno, scendevano, tornavano verso la nave sull’Acheronte correndo o trottando, ma sempre in una falsa fuga. Follia. Era ciò a cui aspirava quel luogo di tortura? No, non la follia… bensì il dolore che scaturisce da essa, la consapevolezza di essere matti nuoce ancor più dell’esserlo e basta. Ecco cos’è il Limbo, si disse Francesco giungendo alle colonne del teatro e inginocchiandosi al viscido suolo, sporco di sangue.
Attorno a sé vedeva uomini e donne nella sua stessa condizione, a mangiarsi le carni o giungere le mani in preghiera. Ma il tempo del perdono era scaduto, comprese, perché dinnanzi allo smistatore d’anime e corpi non sarebbe sfuggita neppure la briciola di pane gettata in terra da un goloso.
Fu così che Minosse lo afferrò per la caviglia stringendo a tal punto da rompergliela, ma Francesco ben sapeva che nell’arco di pochi minuti gli sarebbe guarita, per poi tornare a dolere nei momenti in cui altre bestie dell’Inferno avessero voluto far di lui un dilettante giocattolo.
Francesco tentò in ogni modo, anche con un morso, di strapparsi via il tentacolo da quel che restava della sua carne umana. Picchiò colpi, pugni, si dimenò come la bestia che aveva saputo essere in battaglia al fianco di Dante, il cui volto al momento della morte ricordava per filo e per segno.
Era colpa sua se periva tra le fiamme dell’Inferno, altroché! Francesco ruggì di collera, ira, e non gli importò di farlo anche in faccia a Minosse che, tenendolo sottosopra sospeso nell’aria, se lo annusò per bene.
-Ira!- sibilò sprezzante, ma prima di gettarlo alla ruota, indugiò un istante, se lo avvicinò di nuovo e annusò una seconda volta. Storcendo il naso, Minosse così disse: –Credevi di poter nascondere i tuoi ben peggiori peccati dietro una maschera da iracondo?! Stupido ingenuo! Violenza!- si corresse.
Scaraventò il Francesco senza esitare un attimo in più. L’uomo finì trafitto e in un mare di sangue sull’uncino della ruota. Tenne per sé il dolore quando con un colpo netto all’ingranaggio Minosse lo gettò nell’oscurità degli Inferi volgendosi al condannato del turno successivo.
Francesco cadde come cadeva un morto, precipitò nell’abisso scuro che era l’eterno dolore, tra grida, fiamme e ancora grida. I suoi occhi verdi e sgranati videro le anime girare nel vortice della lussuria, consumarsi nelle bocche di Cerbero, crogiolarsi nell’oro dell’avidità. Più giù ancora, gli iracondi annaspare nelle paludi o gli eretici ardere nelle tombe infuocate.
Francesco cadde avvolto dalle impetuose correnti del Fiume di Sangue Ribollente, che lo trascinò lungo tutte le coste frastagliate del VII Cerchio dell’Inferno: i Violenti.
Dove la disperazione e l’eterno calore del sangue li corrodono, muoiono e rinascono, muoiono e rinascono i violenti verso gli altri.
Una nera foresta di alberi umani accoglieva i suicidi, il cui corpo tramutava in radici e arbusti per quel non rispetto ad esso dato in vita.
Il Fiume di Sangue Ribollente schiaffò Francesco sulla riva ospitante i violenti verso Dio. Nei torridi deserti dove piovevano cenere e fiamme, il Portinari si trascinò in ginocchio scottandosi quel che restava della sua pelle. Strinse l’ardente sabbia tra le dita e sfogò il dolore gridando, mentre il sangue del Fiume scorreva via dal suo corpo.
Ecco compiersi la meta del suo viaggio. Francesco alzò gli occhi e vide le anime dei suoi compagni crociati inginocchiati a terra e rivolti verso il Dio che in guerra o in pace hanno offeso o rinnegato con la carne.
L’eternità gli si apriva dinnanzi come i battenti di un grande e vasto portone. Il Portinari assaporò il dolore e ne prese gusto, sotto il sole cocente e il cielo in tempesta. Sgombrò la mente, concentrato solo a guardar il Misericordioso Dio che da lassù l’aveva condannato quaggiù.
D’un tratto, nell’oblio dei sensi, un’ombra di fumo si materializzò al suo fianco, ma Francesco, come imposto dall’eterno castigo, non poté voltarsi, perché li occhi verdi suoi dovevano restar fissi al Signore.
-Quale anima costretta al peccato giace qui?- si chiese quell’ombra fluttuando alle spalle di Francesco.
L’uomo schiuse le labbra secche e spaccate: -Francesco… il mio nome è tale- rispose in un flebile sussurro.
Il fumo lo avvolse, Francesco se ne sentì mangiare le carni, ma l’essere di tenebra si materializzò davanti a lui nella sua forma più umana. Era un uomo, si capiva dal fisico oltre che dalla voce; un viso sornione e occhi dorati, così intensi da far rabbrividire che troppo allungo li guarda. Francesco non poté muoversi per distogliere lo sguardo, ora che l’ombra fissava lui come lui fissava Dio.
-Avverto del buono in te- sibilò, -non sei da gettar via- commentò anche.
-Chi sei?!- gemé Francesco, improvvisamente nudo dinnanzi quel lui che sembrava saper troppo di sé.
-Ho molti nomi, ma per te sarò solo colui che è incatenato ai traditori per la stessa ingiustizia stata fatta a te- fu la sua risposta, e Francesco seppe comprenderla.
-Cosa vuoi da me?-.
-Sei tu, piuttosto, che dovresti volere qualcosa da me…- ridacchiò e, dissolvendosi nuovamente in fumo, si spostò alla destra del Crociato. Mise i piedi in terra ma non si scottò.
Al mortale dolevano le ginocchia: il sale della sabbia penetrava la carne, guscio dell’anima. –Non so di cosa stai parlando!- negò.
-Invece sì che lo sai. Scava nel tuo cuore, ragazzo, trova conforto in ciò che resta della tua famiglia… e pensa che almeno loro,- addolcì il tono, pur non perdendo la malizia, -si salveranno-.
Francesco così tacque, incantato dalle parole del suo nuovo Signore. Fissando il cielo, riempì la mente di ricordi lieti di una moglie e due figli che aveva abbandonato a Firenze.
Le labbra spaccate gli si tesero in un tenero sorriso nel veder comparire come un fantasma la figura della moglie Elisabetta. Ella fluttuava dinnanzi al suo naso con tra le braccia due fagotti bianchi; da essi spuntarono due bimbi, una fanciulla e un fanciullo, che presero a correre in cerchio al loro padre ridacchiando gioiosi. Era la falsità del Diavolo, che gli stava mostrando quel che aveva perduto per sempre al solo scopo di farlo soffrire di più. Ma Francesco, da pollo, cadde nella trappola, e si sentì svenire, se solo avesse potuto chiudere gli occhi e piangere…
-Pensa ai tuoi figli, concepiti quando ancora tu e tua moglie non eravate sposati. Pensa a loro, Francesco, perché adesso che hanno perduto il padre, marciranno nel Limbo per l’eternità! O almeno, è tale la sorte che spetta al tuo maschio, Leonardo, perché Isabella è molto carina e pura…- azzardò il Diavolo sfiorando il viso della bambina con due dita.
-NO!- si ribellò Francesco, dimenandosi invano, con le lacrime agli occhi. –Ti supplico, no… loro non meritano questo…- mormorò quando le angeliche visioni dei due gemelli e della moglie del Portinari svanirono.
-Se tu lo vuoi, posso impedire che accada-.
-Come?- gemé, sopraffatto dal dolore sia fisico che psichico.
-Consacra la tua all’anima della tu’ moglie per mano mia, ed io mi prenderò il fardello di risparmiare i tuoi gemelli-.
-Giura… giura che non farai loro del male!-.
L’oro negli occhi del Diavolo balenò. –Giuro, ma da te voglio un’altra cosa-.
-Son tuo, ormai-.
-La fedeltà della tua lama violenta, così che la tua ira funesta possa abbattersi su chi avrà voglia di strapparmi un tesoro-.
-Accetto. Dunque sposaci, Lucifero, convalida l’unione di me e mia moglie, rendici grazia, e che i nostri figli trovino pace nel Paradiso…-.
-Sia fatta la tua volontà…- sghignazzò malvagio.
Francesco riuscì finalmente a congiungere le palpebre, sentendosi pervadere da un fresco vigore a scorrergli nelle putride vene come sangue. Si sentì sollevare con grazia dalla terra sulla quale era stato allungo inginocchiato, per quel tempo che non aveva saputo calcolare. Nella schiena gli nacquero le stesse spade che l’avevano ucciso, metà testa gli si tramutò in rami d’albero, poiché in parte, offrendosi artefice di un violento massacro al posto del grande amico Dante, al cospetto di Riccardo cuor di Leone suicida era stato.
Quando la trasfigurazione fu completa e il servo divenuto padrone, il sangue lasciato dall’anima errante di Francesco venne coperto dalle sabbie del deserto ardente. Per il Girone dei Violenti a Dio tuonarono le possenti risate del Diavolo, poi i fantasmi di Isabella e Leonardo, immaginati dal loro padre Francesco, si fusero in un’unica macabra visione, una bestia, una creatura mostruosa i cui occhi erano l’uno verde selva oscura e l’altro azzurro cielo d’inverno.

~ ۞ ~

Quella notte un grido atroce lo gettò giù dal letto.
Leonardo rotolò sul pavimento annodandosi le lenzuola tra le gambe e sbatté la testa contro la gamba della panca. Intanto le grida continuavano, incessanti, acute, come un pianto disperato, ma ciò che mise più in allarme il ragazzo fu riconoscere il timbro vocale della sorella.
-Isabella!- chiamò mettendosi a gattoni e poi spingendosi in piedi. –ISABELLA!- strillò nuovamente correndo fuori dalla sua stanza.
Giunse nella camera della sorella ma la trovò vuota, col letto disfatto e le tende davanti alle finestre chiuse con le imposte. Nel panico, il Portinari scese le scale seguendo il suono straziante di quelle grida e giunse nel salotto, dove trovò ad attenderlo una visione agghiacciante.
Parte del soggiorno era a soqquadro: c’erano mobili rovesciati, vetri rotti, oggetti scassati e scaraventati dall’altra parte del mondo.
L’attenzione di Leonardo, però, cadde più che altro sulla figura di Elisabetta, distesa in terra sul tappeto, e sulla sorella Isabella, china sul corpo della madre a piangere sulla sua vestaglia.
Leonardo accorse al suo fianco, si chinò in ginocchio e prese la mano della madre tra le sue, sentendola ancora calda, morbida. Era viva, nonostante i gravi tagli sanguinanti che le inzuppavano gli abiti da notte. I capelli erano spettinati e intrisi di sangue là dove il colpo di un oggetto le aveva frantumato il cranio. Le gambe mezze nude riportavano varie contusioni, residui di una lotta brutale conclusasi nel peggiore dei modi.
Leonardo alzò gli occhi e guardò la sorella, china a versare le sue lacrime sul seno della donna. Anche Isabella riportava più segni di un combattimento. La guancia era stata scalfita da una lama, i gomiti arrossati, le mani tremanti. Sulla sua veste c’erano spruzzi di sangue che non appartenevano a lei, bensì al corpo di un uomo gettato in un buio, angolo del soggiorno. Era completamente vestito di nero, ma il cappuccio adagiato di lato mostrava due grandi occhi spalancati, immobili, fissi.
Morti.
-Cosa…- fece per chiedere il ragazzo, tutto un tremore e il cuore a mille.
Improvvisamente, dal corpo del ladro emerse una macabra ombra di fumo, che si materializzò dinnanzi ai due gemelli prendendo le fattezze di un uomo privo di vestiti, ma anche di qualsiasi attributo. La testa pelata, il fisico allenato, ma due terrificanti occhi dorati che fecero prigionieri quelli sgranati dal terrore di Leonardo.
Allo stesso modo di com’era comparso quello, dal corpo di Elisabetta venne via un candido fantasma bianco, che scivolò fuori dalla carne della donna come un lenzuolo portato dal vento. Levitando distaccata dal suolo, la nuda anima di Elisabetta si affiancò all’uomo nell’ombra. Questi le cinse i fianchi, scoccò una brutale occhiata a Leonardo e poi svanì nel nulla, tirando con sé l’immagine di sua madre.
Quando nel soggiorno tornò a regnare un macabro e fittizio silenzio, spezzato solo dai singhiozzi di Isabella che aveva continuato a piangere sul corpo di Elisabetta per tutto il tempo senza accorgersi di nulla, Leonardo sentì la mano di sua madre perdere calore e morbidezza. In pochi secondi divenne fredda e rigida come la pietra, e il pianto di Isabella si fece ancora più forte.

~ ۞ ~

Il sole calava all’orizzonte. Fuggiva pigro, timido dietro le colline. Il clima si stemperava: il caldo estivo era scomparso in una notte, il cielo si annuvolava, i venti presero a soffiare impazziti sibilando ogni dove.
C’era puzza di cadavere, di morte in quelle stanze di una vecchia casa di campagna, dalla porta della quale emerse una giovanissima fanciulla, in lacrime e gridando. Corse allungo nascondendo il viso tra le mani, corse per una buona metà del selciato contornato di cipressi, ma in fine, disperata, cadde a terra, in ginocchio, nella polvere e nel sangue di Beatrice, sua zia, della quale si era macchiata le mani.
Entrando in quella casa aveva veduto lo scempio e per poco non vomitava. Il viaggio li aveva condotti alla casa di Dante e Bea, ma quel che avevano trovato ad attenderli erano stati i corpi di due uomini, Alighiero e un saraceno, e una donna, Beatrice. La loro solare, pura, bellissima zia. Il suo corpo freddo, steso tra gli arbusti e mezzo spoglio degli abiti, a tal punto sfregiato da risvegliare in Leonardo la collera da spaccare una pietra, se ne avesse avuta una a portata di mano.
Isabella era rimasta a guardare impassibile, versando prima una, poi due e in fine tre lacrime lungo le guance. Era corsa via, ripercorrendo i suoi passi, e si era gettata a piangere in mezzo alla stessa strada che aveva percorso con tanta speranza, pregando di poter trovare ad attenderla in quella casa l’aiuto dei parenti che restavano.
Pianse allungo, gridando, graffiando la terra con le unghie. Premette la fronte al suolo, sbatté i pugni nel fango, assaporò un terribile dolore che le attanagliò il cuore e lo stomaco, perché l’impotenza, di fronte ad un tale scempio, era la vergogna più grande. Il non poter cambiare le cose, l’essere arrivati pochi attimi prima… avrebbe potuto significare la salvezza di qualcosa che era andato perduto per sempre.
Francesco, Elisabetta, Beatrice… tutti… erano morti tutti.
Suo fratello apparve improvvisamente al suo fianco posandole una mano sulla spalla.
-Dobbiamo seppellirli…- digrignò Leonardo quando gli occhi gonfi e rossi della sorella si specchiarono nei suoi. –Dobbiamo… - s’interruppe, smorzandosi le parole in gola prima di cominciare a piangere anche lui.
Dopo interminabili attimi di silenzio, durante i quali si udì solo il gracchiare di una cornacchia e il ronzare di mosche che si cibavano del cadavere di un uccello, Isabella annuì convinta, contrastando la timorosa e spaventata parte di sé che avrebbe preferito chiudersi in una scatola.
Leonardo e Isabella tornarono nella casa di Dante e Beatrice, presero i corpi di Alighiero e dell’eretico musulmano e li seppellirono in un cimitero improvvisato.
Avvicinandosi in fine al corpo della zia, al fine di seppellire dignitosamente anche lei, Leonardo si vide costretto ad estrarre la lama che le trafiggeva il ventre, ma nel gesto di impugnare la spada se ne sentì risucchiato, e il legame che stabilì il suo pugno con l’elsa fu destinato a non sciogliersi mai.
Quella era stata la lama che aveva ucciso un’anima innocente, e quella sarebbe stata la lama che avrebbe squartato chi aveva osato portarla via.

~ ۞ ~

Uno stormo di corvi neri si librò nel cielo notturno abbandonando i rami degli alberi. Sul selciato che traversava la campagna si udì a poco a poco un trottare di cavalli divenire più intenso e distinto, fin quando a far tremare la terra non comparvero in corsa due vivaci esemplari l’uno nero e l’altro color mogano scuro. In sella c’erano una ragazza e un ragazzo incappucciati in pesanti mantelle da viaggio.
Il sentiero che serpentava su per le colline li stava conducendo sul pendio roccioso a nord, oltre il quale sapeva attendersi la meta della loro corsa.
-Leonardo, aspetta!- gemette lei da parecchi metri indietro rispetto al fratello.
L’altro neppure le rispose e, senza voltarsi indietro, spronò il suo negro destriero ad un galoppo ancor più portentoso. –Hià! Hià!- diceva tallonando i fianchi. La bestia, i cui zoccoli picchiavano sul terreno con potenza disumana, sbuffava condensa calda dalle narici nella gelida notte, nitrendo agitato. I muscoli pulsanti, una vigorosa forza nelle zampe e nel collo.
Il ragazzo proseguì spedito a tal punto che non si accorse della sorella restata ormai troppo addietro.
La dama, fermatasi sull’apice del pendio per far riprendere fiato alla puledra e con le gambe tutte un dolore, ammorbidì le redini e guardò giù, ammirando il paesaggio attorno. Un improvviso vento gelido le scompigliò i lembi della mantella che le cadeva lungo il corpo snello. Si mosse anche la criniera della cavalla, che sbuffò nervosa. Lei le carezzò il collo in modo affettuoso acquietandola, ma fu del tutto inutile, perché l’animale sembrò peggiorare d’animo.
Così, non sapendo che altro fare, la ragazza le diede un colpo ai fianchi e ripartì, non riuscendo a tenerla buona ulteriormente.
Come se non bastasse, quella che in principio si presentò come una pioggerella scoscesa, tramutò ben presto nella tempesta più impetuosa, accompagnata dal rombo di fulmini e tuoni.
Isabella si diresse giù per il pendio, a caccia della scia ombrosa che lasciava suo fratello Leonardo, già metri avanti, dietro di sé sul sentiero. China sulla sella e con le redini nuovamente corte, vide aprirsi dinnanzi a sé la macabra visione dei ruderi di una Cappella che, ne era certa, ricordava integra e in perfette condizioni fino a poche settimane prima.
La Chiesetta sorgeva su un’altura a ridosso delle colline, nella sperduta campagna attorno alla maestosa Firenze. Ora ridotta a brandelli, squartata da una forza pari a quella di una catapulta, presentava varie ustioni e quant’altro a testimoniare anche un possibile incendio.
Leonardo Portinari fermò il cavallo ai piedi della gradinata, dopo la quale si stagliava solo uno dei due battenti d’ingresso, per di più sbrindellato e masticato dai colpi di una lama piuttosto grossa.
La pioggia s’insinuava tra le macerie e sotto i vestiti, nonostante le mantelle che indossavano i due fratelli. Il temporale peggiorava di minuto in minuto e non avrebbe smesso di tuonare prima di qualche ora, pensò Isabella smontando di sella assieme al gemello. Andò vicino a Leonardo, che era fermo immobile in balia delle gocce con un piede sul primo scalino della gradinata. Fissava dritto dinnanzi a sé, guardando là dove le forze dell’uomo avevano distrutto un Sacro Rifugio di Dio.
Strinse a sé la sorella infreddolita e avanzò per primo nella Chiesa, o meglio, in ciò che ne rimaneva. Il suono dei suoi passi le sembrò più forte dei tuoni stessi quando Isabella vide il fratello addentrarsi nella navata centrale. Leonardo camminò uno, due, tre metri al massimo, poi si fermò.
-Che razza di luogo è mai questo?- domandò spaurita la ragazza stringendosi nel mantello zuppo.
Leonardo indietreggiò tornandole affianco. Scosse la testa, scettico. –Non lo so… io… veramente non lo so- imprecò passandosi le mani tra i capelli.
-Cosa ci facciamo qui?- insisté Isabella. –Perché siamo qui?-.
Leonardo non seppe rispondere, e i ruderi della chiesa precipitarono in un lungo, macabro silenzio. Solo la pioggia e il suo incessante scrosciare coloravano la notte di suoni agghiaccianti, ticchettii ritmici e scoscesi, tuoni e impetuosi rimbombi. All’orizzonte la campagna si era dissolta in una macabra cortina ombrosa.
Leonardo fissò allungo il terreno, stringendo i pugni lungo i fianchi e socchiudendo gli occhi, mentre la pioggia gli scivolava addosso e sui capelli, cadendo a gocce sul pavimento di pietra.
Isabella si allontanò un istante da lui, curiosando nella direzione in cui un particolare bagliore aveva catturato la sua attenzione. Trovò una cassa decorata d’argento nascosta tra le macerie, ma all’interno della quale riconobbe il bagliore metallico di una spada corta, un arco e qualche freccia. La ragazza si stupì non poco di trovare delle armi nella casa del Signore, ma quando si legò la spada alla cintura e la faretra sulla schiena, avvertì come una seconda presenza sulla sua pelle. Si sentì più pesante, ma al contempo più viva e leggera di quanto non lo fosse mai stata.
-Leonardo!- chiamò gioiosa, sorprendendosi del modo in cui le sue nuove armi brillavano, facendo luce propria nell’oscurità della notte. Fu un bagliore che durò pochi secondi, giusto il tempo perché il ragazzo si voltasse e non potesse credere ai propri occhi. Andò incontro alla sorella a grandi passi.
-Dove hai trovato queste cose?!- domandò incredulo, sfiorando l’arco in mano alla sorella con due dita.
-Là, in quella…- Isabella fece per indicare il baule dietro di sé, ma questi era scomparso all’improvviso, dissoltasi così come era apparso.
Leonardo aggrottò la fronte, ma non ebbe modo di chiedere altro.
Alle loro spalle udirono una cantilena latina che li fece voltare entrambi. Leonardo sguainò la spada dal fodero e Isabella incoccò prontamente una freccia, affiancandosi al fratello già pronto a scagliare un attacco.
Dalle tenebre, però, emerse una piccola figura tozza e ricurva di un vecchio, che venne verso di loro camminando con normalità sotto la pioggia. Nella mano che gli tremava stringeva un rosario, aveva il cappuccio da monaco abbassato sulle spalle e piccoli occhi porcini e infossati, coperti di rughe. La sua cantilena non s’interruppe fin quando non fu abbastanza vicino ai due ragazzi che abbassarono le armi lentamente.
Il monaco concluse la sua preghiera guardando prima l’uno poi l’altra coi suoi piccoli occhi scuri. –Sapevo che sareste arrivati- disse con voce profetica.
Leonardo si parò davanti alla sorella. –Chi siete?- chiese serio.
-Il parroco padre di questa miseria- spiegò in breve parole l’uomo di chiesa, alludendo con uno stretto gesto del braccio alle macerie che li circondavano.
-Cos’è accaduto qui?- domandò Isabella.
Il monaco mosse un altro passo verso i gemelli, ma Leonardo, diffidando di lui, spinse la sorella ad indietreggiare.
-È opera del Diavolo, tutto questo- disse. –Un uomo si è opposto a lui e voi dovete aiutarlo. Dovete aiutarlo- ripeté più volte. –Dovete aiutarlo! Dovete aiutarlo!-.
-Tu sei pazzo!- eruppe Leonardo afferrando il monaco per la collottola e minacciandolo alla gola con la spada.
Il cattolico posò la sua sulla mano di Leonardo che gli stringeva la veste e a quel contatto chiuse i suoi piccoli occhi porcini, schiuse le labbra e parlò con una voce meno da vecchio.
-Il vostro destino è scritto nel sangue. Vi è stato sottratto ingiustamente un prezioso tesoro, che volete a tutti costi ritrovare. Date perso quel che in realtà perso non è, perché la retta v’è già mostrata. Il Divino mi ha parlato di voi, mi ha sussurrato la vostra venuta in questo luogo, e mi ha chiesto d’indicarvi la prossima direzione. Egli l’Altissimo vi suggerisce di trovare un uomo, che come voi lotta per la salvezza e l’ingiustizia altrui. Aiutatelo, ed egli aiuterà voi. Il vostro destino è scritto nel sangue-.
Con violenza inaudita Leonardo gettò il monaco a terra. –Non mi toccare! Smettila di farneticare, vecchio!- gridò minacciandolo con la spada alla gola.
-La verità v’è occulta, il cammino sarà tortuoso! Pentitevi, o peccatori, purificatevi, e la strada vi sarà mostrata! Siate magnanimi, coltivate coraggio e amore! Pentitevi, pentitevi de vostri peccati! Questa è la via unica!-.
-Taci!-.
-Aiutatelo! Aiutatelo!- continuò quello.
Prima che Leonardo potesse calare la lama sulla carne, Isabella mise un braccio tra il monaco e suo fratello, impedendo a quest’ultimo di uccidere un uomo di chiesa.
Gli occhi azzurri della ragazza mandarono un intenso bagliore che fulminò Leonardo e acquietò del tutto il suo furore. Il gemello abbassò la spada, chinò le spalle e prese a respirare normalmente, sciogliendo i muscoli tesi e pulsanti.
Isabella si chinò su un ginocchio e aiutò il vecchio monaco ad alzarsi. –Che Dio ti benedica… grazie- mormorò lui.
La fanciulla gli sorrise soave. –Altrettanto, ma vi prego, adesso dovete voi aiutare noi, padre. Qualcuno ha ucciso nostra madre, siamo sulle tracce dell’assassino, ma dovunque cerchiamo non riusciamo a trovarlo. Inoltre, c’è stata una strage anche in casa di nostra zia. Aiutateci, ve ne prego- lo implorò.
Il monaco non seppe rifiutare quella richiesta di aiuto e, senza mai guardare il fratello della ragazza negli occhi, s’incamminò verso dove un tempo sorgeva l’altare della chiesa.
Leonardo li raggiunse rinfoderando la spada, ma giusto in quell’istante, sotto i loro piedi si aprì una gigantesca crepa, che spaccò quel poco di pavimento di pietra rimasto intatto. La crepa s’ingrossò sempre più, fino a quando non fu abbastanza grande come la stiva di una nave. Il pozzo nero e profondo che si stagliò oltre il naso di Leonardo, nel gesto di sporgersi, faceva invidia ai crateri vulcanici della loro penisola.
-Questa è la bruta via. Seguitela, e troverete la retta- disse il monaco indicando il baratro scosceso e roccioso, dentro al quale la pioggia si riversava in una caduta infinita. Tra le sue vecchie e fragili braccia comparve come per magia lo stesso baule d’argento che aveva visto Isabella tra le macerie, dal quale, poi, aveva preso arco, frecce e spada. Il monaco aprì la cassa e ne riversò il contenuto metallico (all’apparenza parti di un’armatura maschile ed una femmine) nel baratro.
I due gemelli si scambiarono un’occhiata allarmata, ma durò giusto pochi attimi, perché il monaco li spinse entrambi giù dal precipizio.
Assordati dalle loro stesse urla, cominciò così la discesa nell’Inferno.


























.:Angolo Autori:.
“Nel mezzo del cammin di nostra vita…!” òOò
Se siete arrivati fino a qua non vi costa nulla recensire. Perciò, FATELO! è__é
LOL XD
   
 
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