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Autore: Music Addict    26/04/2010    0 recensioni
Lentamente mi avvicino e apro la porta. E non so cosa diavolo possa farci lui qui. Non so come abbia avuto il mio indirizzo. Non so come faccia a ricordarsi di me. Non so perché è venuto. Non so perché mi stanno tremando le gambe. Non so perché sto per piangere. Ma è così. Sto per piangere. Che sia gioia o rabbia o altro non lo so. Ma sto per piangere e non posso piangere. Non davanti a lui. Non più. Giro i tacchi e chiudo la porta.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Nota: il titolo in effetti non c'entra poi molto, ma non sapevo come chiamarla. Il genere credo sia "Introspettivo-Sentimentale", ma non sono sicura e non so mettere due generi insieme.
Spero vi piaccia.


LABBRA…

Ora di cena. Dovrei mangiare. Ma in realtà non ne ho voglia. Il mio stomaco, però, non sembra essere d’accordo con me. Pigramente, mi alzo a cucinarmi un paio di toast.
Ma neanche il tempo di arrivare in cucina, che sento il campanello trillare.
Dindon.
Lentamente mi avvicino e apro la porta. E non so cosa diavolo possa farci lui qui. Non so come abbia avuto il mio indirizzo. Non so come faccia a ricordarsi di me. Non so perché è venuto. Non so perché mi stanno tremando le gambe. Non so perché sto per piangere. Ma è così. Sto per piangere. Che sia gioia o rabbia o altro non lo so. Ma sto per piangere e non posso piangere. Non davanti a lui. Non più. Giro i tacchi e chiudo la porta.
Perché ho chiuso? Adesso penserà che sono matta… Dio, ma scherziamo? Lo sa già! Allora devo riaprire? Aspetta, no, Cristo, devo prima smettere di piangere. Ma quando ho cominciato a piangere?
Inspira.
Espira.
Inspira.
Espira.
Apro.
È ancora lì. Come prima.
“Ciao.”

Anni prima… “Bevi qualcosa?”
Alzai gli occhi verso la persona che mi stava chiamando: un ragazzo alto e magro; i capelli castani e liscissimi erano raccolti in un piccolo codino. Avevi un bellissimo sorriso.
“Volentieri”, risposi.
La musica era alta nel locale, e in verità nemmeno mi piaceva. Tu, invece, mentre il barista ci versava i drink, canticchiavi tra te e te, con un movimento delle labbra quasi impercettibile, che mi fece girare la testa.
“Che ci fai qui?” mi chiedesti.
“Quello che ci fai tu” risposi, senza convinzione.
“A te non piace stare qua”.
Normalmente, una frase del genere la si vede in un film, detta con un sorriso ebete e soddisfatto, con un tono da io-si-che-capisco-le-donne. Invece tu lo dicesti così, sorseggiando il tuo drink, senza guardarmi, quasi sovrappensiero. Avevi un modo di fare così naturale.
Non ti risposi, comunque. La verità è che non c’era nulla da dire. Ero lì ma non ci stavo bene. Capirai.
Mi resi conto che ti stavo fissando, e girai in fretta la testa da un’altra parte, fingendo di osservare la folla. Non riuscivo a vederti, ma sentii forte e chiara la tua mano che, nel prendere una nocciolina, sfiorò accidentalmente il mio braccio. Una scossa elettrica mi pervase tutto il corpo. Chissà se ti eri accorto dell’effetto che faceva su di me. Ancora oggi, a distanza di anni, non saprei dirlo.
Di certo, e per fortuna!, non ti rendesti conto del rossore sulle mie guancie quando, per la forte velocità della tua moto, strinsi forte la tua vita. Sembrava il paradiso.

Da quella sera ci sentimmo e vedemmo spesso. Ma solo dopo molto tempo ci baciammo. Per una come me era strano. Ne sentivo forte il bisogno, sentivo forte la tua presenza e la voglia di te, ma mi sapevo accontentare del guardarti, che mi sembrava una cosa così straordinaria. Era come se, ad una mortale, fosse concesso di vedere Eros in persona; era qualcosa di sensazionale.
Ma non conosco giorno più bello di quando, per la prima volta, le tue labbra furono sulle mie. Stavamo mangiando un gelato, lì, su quell’albero enorme e vecchio di centinaia di anni. Da piccola ci andavo quando ero triste, era il mio posto segreto. E ora ero di nuovo lì, con te.
“Mi offri un po’ del tuo gelato?” mi chiedesti, con quel tono pacato e gentile, come se ti rivolgessi ad una bambina.
Annuii lentamente, concentrata più sulla tua mano che sfiorava la mia nel prendere il cono che su ciò che dicevi. Quando mi porgesti il tuo non ero preparata; semplicemente mi trovai sorpresa della vicinanza enorme che c’era tra noi e sussultai. Tu perdesti l’equilibrio e scivolasti giù, cadesti sul fianco. Mi sentivo una stupida. Preoccupatissima, saltai, giù e mi inginocchiai accanto a te, al mio cavaliere ferito. Ti chiesi “stai bene?”, ma tu per tutta risposta mi cingesti le spalle e mi baciasti. Così, con naturalezza, come tutte le cose che facevi.

Poi, dopo un anno, successe ciò che ho temuto dal primo giorno che ti ho visto. E avvenne nel modo più doloroso possibile.
Era un brutto periodo, di lunga depressione. E non era certo colpa tua, perché io ti amavo comunque. Solo che sorridere non mi veniva più spontaneo. E tu mi avevi sempre rimproverata quando a sorridere lo facevo apposta. Mi insegnasti che il sorriso è la cosa più bella del mondo e che non andrebbe mai violentata come facevo io. Così mantenevo sempre la mia espressione apatica. Ma non mi ero accorta che soffrissi. Non avevo visto che ci stavi male. Non l’avevo capito. Un giorno mi chiedesti cosa c’era che non andava ma io non ti risposi. Non ti risposi perché non sapevo cosa risponderti.
Quel giorno venisti a casa mia. Bussasti appena e poi apristi, dato che avevi le chiavi. Entrasti in camera da letto. Da quel letto da cui non uscivo da giorni, se non per andare al bagno. Avevi sul volto un’espressione che non avevo mai visto. Un’espressione che mi sorprese e mi spaventò insieme.
“Scendi da questo cazzo di letto”, dicesti autoritario. C’era qualcos’altro nella tua voce, ma non capii cos’era.
“Perché?” ti chiesi. Non capivo perché mai sarei dovuta uscire dal mio guscio.
“Sono giorni che ci stai dentro! Ti rendi conto?! Giorni! Da quanto tempo è che non metti il naso fuori di qui?! Quanti giorni sono che non mangi?”
“Non lo so”.
Forse fu il tono della mia voce, forse semplicemente le parole. Non lo so cosa fu. Non lo so. So che lanciasti un urlo. Un urlo liberatorio. A pensarci, era una cosa comica. Ma non per me, non in quel momento. Mi strappasti le coperte di dosso e, con uno spintone, mi buttasti giù dal letto. Caddi inevitabilmente. Ti guardai, ma non seppi cosa trasparì dal mio sguardo. Odio? Non sarei mai stata capace di odiarti, questo no. Mai.
Rimasi a terra e mi guardai le scarpe. Guardarti, quello, mi faceva paura. Tu, l’unico che mi strappasse via dagli orrori che vivevo, mi stavi facendo paura.
Non so quanto tempo passò. Secondi, o minuti? Non ne ho la più pallida idea.
“Che cazzo ci fai a terra?!”
“Mi ci hai buttato tu”.
Mi guardasti come si guarda un marziano. Mi guardasti e, per la prima volta, c’era una scintilla di odio nei tuoi occhi. Anche tu, ora, mi odiavi. Anche tu, ora, non mi amavi più. Volevo morire.
“Tu non mi ami più”, ti dissi. Non so come mi uscì. Non so perché lo dissi. Non aveva senso. Ma lo dissi. E avevo paura che mi rispondessi, per questo l’avevo affermato, non te l’avevo chiesto. Perché in quel cado avresti dovuto dire “sì” o “no”. E avevo paura.
Tu. Io. Noi.
Noi eravamo qualcosa. Insieme, eravamo qualcosa. Qualcosa di bellissimo. Bellissimo perché eri così bello e puro che chiunque ti stesse vicino era anche bello anche lui. Te lo scrissi. Lo scrissi su di un biglietto una mattina.

“Randy è così bello che chiunque gli stia vicino brilla della sua stessa luce. Anche io sono bella vicino a lui. È buffo.”
Quando lo leggesti, ricordo, una lacrima ti solcò il volto. Ma non erano come le mie. Era una lacrima dolce, una lacrima di miele. Era commozione. La trovai così attraente sul tuo volto, che la raccolsi con la punta della lingua. E aveva il tuo sapore.
Ma ora, non siamo più nulla. Da quella mia affermazione “Tu non mi ami più” e da quel tuo silenzio. Silenzio di troppe parole. Silenzio di dolore, di frasi mai dette, silenzio che parla, silenzio schiacciante ed evidente. Quel silenzio fu rotto solo dalla porta di casa che si chiuse, con leggerezza. Poi più nulla. Solo vuoto.

“Ciao”.
Non sei cambiato per nulla. Il tuo volto ha sempre quell’espressione angelica di un tempo. Solo, i tratti dell’adolescenza hanno ormai lasciato spazio a tratti più ad adulti, e la leggera peluria di un tempo si è trasformata in peli irti e maltagliati. Tuttavia la tua bellezza è rimasta intatta.
“Cosa ci fai qua?”.
“Niente. Cioè, oggi è il tuo compleanno… Pensavo…”
Il mio compleanno. Fantastico. Ero quasi riuscita a dimenticarlo.
“…pensavo volessi festeggiare”.
Alzo il sopracciglio. Festeggiare? Mi prendi per il culo?!
“Randy, sono ad un passo dallo sbatterti la porta in faccia” dico, cercando di mantenere un tono sarcastico e annoiato. Ci riesco.
Tuttavia, non mi ero resa conto del pacco ai tuoi piedi. E’ una scatola verde pastello adornata da un fiocco blu. Me lo indichi con un cenno della testa. Non voglio aprirlo. Sarebbe come dire che ti ho perdonato. E non è così.
“Aprilo”.
Cos’è un ordine? Ti guardo senza espressività.
“Aprilo. Sennò soffoca”.
Figurati. No che non lo apro. Proprio no.
“Che soffochi allora”.
Ti chini e raccogli il pacco, me lo porgi. Non mi muovo di un millimetro. Allora sbuffi, poggi il pacco per terra e lo apri. E da lì, zampettando, esce un cucciolo di husky. Mi annusa i piedi, abbaia, e si intrufola dentro casa.
“Mi sa che gli piaci”.
Mi arrendo. Mi scosto: “entra”.
Tu sorridi soddisfatto ed entri. Ti chiudi la porta alle spalle con leggerezza, e quel gesto è così naturale che mi sembra che il tempo non sia passato.
Lascio Randy con l’husky e vado in cucina per preparare il caffè. O forse per stare il più lontano possibile da lui.
Strascico i piedi scalzi per terra. Il pavimento è freddo. E lo era anche anni fa. No, Randy, non posso perdonarti. Non posso. Perché dimostrerei solo di essere debole. Come sempre. Ora basta, non voglio più essere debole. Perché mi sembra di sciogliermi alla vista del tuo volto? Perché, con tutto il tempo che è passato, mi fai lo stesso effetto che mi hai fatto la prima volta che ti ho visto?
Immersa dei miei pensieri, non mi accorgo della sua entrata. Non finché mi poggia una mano sulla spalla, facendomi sussultare e rovesciare tutto il caffè per terra.
“Oh, scusa Sid, scusa, non…”
“Non fa niente. È solo caffè”.
Rimaniamo in silenzio, chinati ad asciugare il caffè da terra con degli stracci. Solo quando ci rialziamo, guardandoci in faccia, mi rendo conto di quanto siamo vicini. Non va bene così. Non va proprio bene.
“Sid…”
Lo guardo male. Non è il momento di una discussione. O forse sì. O forse non lo sarà mai. Non lo so. Non so più niente, voglio solo andarmene a prendere un po’ d’aria, bere un caffè bollente e sedermi sulle panchine a dar da mangiare ai piccioni. Nient’altro.
“Ci andiamo a prendere un caffè fuori?”.
Cazzo. Perché deve sempre leggermi nel pensiero? Perché deve sempre capire quello che voglio e di cui ho bisogno? Non ho la forza di dirgli che voglio stare da sola. Annuisco, indosso una felpa a casaccio e apro la porta.
Mi calco bene il cappuccio in testa: non ho voglia di essere guardata da nessuno, tantomeno da lui. Non ho voglia di parlare. Voglio solo il mio caffè.
Lui nemmeno sembra aver tanta voglia di chiacchierare. Nonostante abbia qualcosa da dirmi. Non ha voglia di dirlo. Ma è meglio per lui che sputi il rospo entro la fine della serata, così potrà tornarsene a casa sua e sparire per sempre. Stavolta, per davvero.
Entro nel primo bar che trovo. Le luci al neon formano un’enorme scritta “BAR”. Peccato che la B sia spenta perennemente. Giusto a sottolineare lo squallore del posto.
Dentro fa più freddo che fuori. Ci sono giusto un paio di tavolini, uno dei quali occupato da due anziani panciuti che giocano a carte. L’altro e vuoto, ma non ci sediamo. Ci dirigiamo verso il bancone, da cui una donna sulla cinquantina ci prepara i caffè.
A questo punto non c’è più scampo. Deve parlare. Bisogna parlare. Per quanto lo neghi, anche io ho tante cose da dirgli. Ma preferisco negarlo ancora.
Lui sorseggia il suo caffè con estrema naturalezza. Sembra tutto come anni fa. Solo che, invece di trovarci in una grande discoteca in centro a sorseggiare drink costosi, ci troviamo dieci anni più grandi a sorseggiare caffè in uno squallido bar. Tuttavia, forse è l’inizio di qualcosa, proprio come dieci anni fa. Oppure, è la fine definitiva. Dipende da noi due. Da nessun altro. Ma ancora spero che possa esserci ancora un futuro per noi due?
Chissà cosa sta pensando. Chissà cosa pensa, mentre sorseggia quel caffè amaro e sciacquo.
Posa la tazzina.
Paga il suo e il mio senza che possa protestare.
Usciamo.

…e ora?
Randy, siamo fermi, non lo vedi? Siamo fermi sotto una fine pioggerella di novembre, col vento che ci colpisce i volti come tante lame affilate. Siamo fermi, all’uscita di questo bar, con la faccia rivolta all’asfalto. Siamo fermi, e non sappiamo se andare avanti, se fare un passo e ricominciare, o se lasciar perdere tutto e cadere nel baratro da cui siamo appena risaliti. Siamo immobili. Eppure, sono solo una cinquantina di centimetri a separarci. Può essere paragonato a così poco lo spazio che ci ha separati in questi anni? È davvero così poco? Eppure, sembra così difficile da riempire. Ma se non ci avviciniamo ora, Randy, lo spazio si ingrandirà. E allora, per quanto possiamo mettercela tutta, le nostre forze non saranno mai abbastanza. Siamo deboli, Randy. Siamo stanchi. Non lo vedi, come è poca la distanza? Non lo vedi?
…non lo vedi?

Fermi.
Siamo Fermi.
Ma ce la possiamo fare…
Fermi.
Ma possiamo sforzarci…
…ma siamo Immobili.
Fermi.
Fer…

Labbra. Fredde. Desiderose. Morbide. Finalmente vicine.
Labbra. Così dolci da farmi piangere.
Labbra. Così sicure da lasciarmi andare.
Labbra. Finalmente qui, sulle mie.
Labbra.
Le tue.

THE END
   
 
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