Canto
notturno di un paladino tra pastori erranti
Che fai tu, luna, in
ciel? dimmi, che fai,
silenziosa
Luna?
Il cavaliere camminava ormai da un giorno intero, quando,
guardando il sole, ed intuendo la sua intenzione di tramontare a breve, pensò
saggiamente di cominciare a cercare un rifugio per la notte. Non fece però in
tempo ad avere un simile pensiero, perché ecco che, dall’alto di una collina,
potè scorgere la valle sottostante: un centinaio di persone vi stavano
accampate, e si preparavano, senza alcun dubbio, a passar la notte lì,
all’aperto! Nonostante la stagione primaverile, la notte avrebbe portato con sé
un gran freddo: cosa facevano tutti lì? Il cavaliere decise di avvicinarsi, per
chiedere, al primo pastore che avesse incontrato, quale fosse la loro storia e,
già che c’era, se per caso non sapessero consigliargli un rifugio per la notte.
“Scusate, buon uomo” esordì, una volta sceso a valle, ponendosi
davanti al primo uomo che vide e che se ne stava, insieme alla moglie e ai tre
figli, seduto sull’erba, riscaldandosi le mani su un misero falò appena acceso
“sapreste dirmi, per caso, cosa mai fate tutti qui?” chiese, accompagnando le
parole con un ampio gesto della mano, ad indicare la valle “Non sapete, dunque,
che da queste parti le notti non sono affatto clementi?” rincarò, per
sottolineare la follia collettiva che doveva certamente essersi impadronita di
tutti gli abitanti della regione. Il pastore alzò sull’uomo due occhi di fuoco,
ed un’espressione crucciata gli si dipinse in volto.
Osservò il bell’aspetto del cavaliere, il suo nobile
portamento e le sue vesti che, sebbene consumate dal lungo viaggio che questi
doveva certamente aver intrapreso, erano della più nobile fattura che potesse
trovarsi in giro. Scrutò il paladino con un misto di diffidenza e risentimento,
prima di decidersi a rispondergli: “Signor mio” iniziò, spalancando le braccia,
in un moto di sorpresa “noi siamo ben a conoscenza dell’inclemenza della notte in
questo periodo dell’anno, ma voi, dovete di sicuro esser nuovo da queste
parti!”.
Lo guardò un attimo, come indeciso se continuare il
proprio racconto ma, il distinto cavaliere che gli stava di fronte, sembrava
proprio curioso di conoscere i motivi di quell’insolita transumanza, così il
contadino decise di accontentarlo: “Non sapete, dunque, che un pazzo, sì, un
pazzo! Si aggira per queste terre, distruggendo ogni ostacolo che incontra? Il
nostro villaggio è stato distrutto, fatto a pezzi da una furia incontrollabile
che non ha risparmiato nemmeno le nostre case, i nostri animali! Signore, siamo
vivi per miracolo, e voi ci suggerite di preoccuparci per il freddo?” finì,
disperato, il pover’uomo, con le mani nei capelli e gli occhi sporgenti dal
terrore che si era impossessato di lui solo a ricordar l’episodio. Il
cavaliere, che era rimasto in piedi, di
fronte al fuoco, faticava a credere quanto gli era stato narrato, tanto che,
prima di domandar ancora, una piccola risata gli sfuggì, involontariamente,
dalle labbra: “Un pazzo?” chiese, senza troppa convinzione. “Pazzo! Sì, pazzo!
Oh, non ci crede nessuno!”rispose l’altro, quasi fuori di sé: “Nemmeno noi
credemmo ai pochi superstiti che accorsero al nostro villaggio, per metterci in
guardia dal mostro! Nemmeno noi vi
prestammo fede!” e qui, una risata amara soffocò le parole seguenti “Un pazzo!”
continuava a farneticare “Non avete idea della fortuna che abbiamo avuto! Nel
villaggio vicino...” disse, abbassando leggermente il tono della voce e facendo
un gesto col capo, verso un altro gruppo di persone, accampate poco distanti “i
morti sono state decine! Una bambina di poco più di tre anni! Una tenera
innocente creatura! Sì, lui l’ha
uccisa! Un pazzo, un mostro, vi dico! Un essere senza cuore!” spalancò gli
occhi, tanto che il cavaliere temette per la salute del suo interlocutore che,
fortunatamente, una volta terminato il proprio discorso si ricompose ed in
pochi minuti riassunse un aspetto più rassicurante, non più trasfigurato dalla
paura e dall’enfasi che aveva messo nelle sue parole.
Il paladino avrebbe voluto rimanere incredulo, ma un solo
sguardo al gruppo indicatogli dal pastore gli fece cambiare idea: il dolore che
aveva potuto scorgere, in quegli occhi e in tutti i gesti della famiglia che
doveva aver perso, proprio quel giorno, la bambina, gli impedì di rimanere
nella sua miscredenza. Dunque, pensò, niente rifugio per quella notte.
Secondo quanto gli era stato narrato proprio allora, tutti
i villaggi circostanti dovevano essere andati distrutti. Dopo aver riflettuto
per qualche minuto sul da farsi, ed essersi accorto della sera che, silenziosa,
era calata sul cielo, egli reputò più saggio accamparsi con quegli sfortunati
abitanti.
Chiese al contadino il permesso di scaldarsi un poco al
loro fuoco e di sedersi con loro, per divider quel poco cibo che era rimasto e
un po’ di vino per scaldar la gola.
La notte, soprattutto le notti terrificanti e troppo
nere, è meglio passarle in compagnia.
“E voi, cavaliere, da dove venite?” chiese, con
curiosità, una donna, rimasta in silenzio sino a quel momento.
Erano già un paio d’ore che il misterioso paladino era
seduto attorno a quel misero fuoco e, avendo attirato l’attenzione di gruppi
vicini, si intratteneva ora con una ventina di persone che pendevano letteralmente
dalle sue labbra. Aveva narrato imprese eroiche e prodigiose gesta, senza però
mai parlare di sè, senza rivelare la sua identità e nemmeno la sua provenienza.
La domanda, venne accolta nel consenso generale mentre lo straniero si
scherniva, indeciso se svelare a quella gente qualcosa di se stesso.
“Oh, io...” rispose il cavaliere, ed un sorriso amaro gli
si dipinse sul volto “Io vengo da molto, molto lontano, appena qualche giorno
fa ero...” si interruppe, incerto. Poteva raccontar loro la sua missione?
L’avrebbero compreso, o avrebbero pensato che anche lui era pazzo? Ma
soprattutto, sarebbero stati in grado di mantenere il segreto?
“... appena qualche sera fa ero lì!” disse indicando, con
un dito, la luna che, piena e luminosa, risplendeva nel cielo sereno.
“Esattamente lì, e camminavo beato tra tutto ciò che l’essere umano ha
dimenticato o gettato via con noncuranza”.
“Oooooohhhh” una
bambina di circa sette anni, che fino ad un momento prima era appoggiata
stancamente, con gli occhi socchiusi, sul corpo della madre, ora guardava
l’uomo ammirata e meravigliata, con gli occhi che le scintillavano.
“Sulla luna?” esclamò perplesso uno dei presenti. Era
ovvio che, malgrado le sorprese della giornata, erano ancora poco propensi a
credere alle favole.
“Sì, sì, proprio sulla luna!” ribadì con veemenza
Astolfo, lasciando tuttavia trasparire dalle proprie parole una nota di
nostalgia, quasi un rimpianto.
“Che diamine eravate andato a fare, sulla luna?” continuò
l’altro, nel tentativo di ricavarne una storia coerente, o almeno verosimile.
Stavolta Astolfo si riempì d’orgoglio “Avevo un compito
ben preciso e molto importante! Sono stato mandato fin lassù niente di meno che
da Giovanni Battista, per recuperare il senno del mio amico Orlando, prode
paladino! Sicuramente avrete già sentito parlare di lui!” il pastore fece un
cenno di assenso. “Il senno?” chiese poi “è per caso impazzito?”
“Proprio così!” fu la pronta risposta di Astolfo. Dopo
questa breve frase si fermò un attimo, ancora incerto sul narrar tutta la
storia. Scrutò intensamente i visi curiosi della povera gente da sopra le
fiamme; guardò i corpi dei bambini placidamente addormentati lì vicino e, dopo
aver riflettuto ancora un momento, decise che sì, avrebbe potuto fidarsi.
Erano brave persone, non avrebbero tradito il suo
segreto, e quello di Orlando: “Sapete, Orlando fu un tempo innamorato di una
donna, Angelica... era una bellissima principessa, venuta dall’oriente, e al solo
vederla molti paladini, cristiani e non, persero la testa per lei... era la più
bella donna che si fosse mai vista, un’incantevole ammaliatrice!
“Orlando, naturalmente, era colui che più di tutti
l’avrebbe meritata: era il prode tra i prodi, il valoroso, il più coraggioso
tra i paladini, ma lei... no, lei si negava sempre, a tutti coloro che
l’adoravano, non importava quanto fossero coraggiosi e valorosi: per lei non
era mai abbastanza”
Astolfo prese un gran respiro e continuò la sua triste storia
“Finchè, un giorno, Angelica conobbe un soldato, ferito, sul campo di
battaglia. Un soldato, un semplice e meschino soldato, capite? Angelica se ne
innamorò perdutamente ed in meno di una settimana decisero di celebrare la loro
unione e di far ritorno in partia...” i suoi interlocutori, ascoltavano rapiti
la prima e forse ultima storia di dame e cavalieri della loro vita “...Quando
Orlando lo scoprì fu la fine, per lui, impazzì!” terminò Astolfo, con una punta
di rammarico, ancora una volta incerto: avrebbe dovuto narrar la pazzia di
Orlando? Non l’avrebbe, così facendo, esposto al pubblico ludibrio? Subito però
decise che il sentimento di Orlando era troppo grande e troppo elevato perché
non gli fosse resa giustizia: riprese il racconto, con maggior enfasi, nel tentativo
di far comprendere a quei poveri diavoli quanto nobile fosse Orlando e quanto alto il sentimento che aveva, un
tempo, nutrito per Angelica: “Troppo! Egli aveva troppo amato quella donna, le
aveva consegnato il suo cuore ed il suo onore! Quando scoprì che questa gli era
stata sottratta, la gelosia lo privò della lucidità, della ragione, finanche
del senno!” terminò, lasciando stupiti e quasi spaventati gran parte dei
presenti. Astolfo tese una mano verso il
fuoco, nel tentativo di scaldarla: la notte era scesa ed aveva portato con sé
il Gelo.
“Povero Orlando!” mormorò tra se e se, scuotendo la
testa. Tutti gli uomini, di fronte a lui, erano rimasti ammutoliti, con lo
sguardo fisso e vuoto, probabilmente immaginando quell’amore e quella passione
tanto grandi da portare alla perdita del senno.
Astolfo contemplava il cielo, perso nei propri pensieri.
Era notte fonda e tutti i presenti erano addormentati. Poteva vederli, stringersi
nei mieseri abiti e l’uno all’altro, nel tentativo di scaldarsi un poco. Poteva
vederli, abbandonati nell’incoscienza del sonno, placidamente distesi, senza un
pensiero che impedisse loro il risposo dei giusti.
Il paladino, al contrario, non riusciva a prender sonno,
e sarebbe stato strano il contrario! Troppi pensieri agitavano la sua mente,
mentre contemplava il luminoso astro che continuava, indifferente alle vicende
umane, a brillare nel cielo. Come appariva distante la Luna, ora che ne era
ridisceso. Ricordava ancora la sensazione provata da lassù: la leggerezza del corpo era presto divenuta
leggerezza dell’esistenza. Osservare la Terra, quella gigantesca palla verde e
blu su cui gli esseri umani vivono, sperano, gioiscono, soffrono ed infine
muoiono, da così lontano, era stato come considerarla un altro pianeta. Come pensarla
distante ed estranea a lui, Astolfo, che invece poteva liberamente andare a
spasso per la Luna. Scoprire, lì su, tutto un mondo dimenticato e disprezzato
dagli uomini, era stata un’emozione difficilmente dimenticabile, ma era
diventato, una volta sceso, un peso molto pesante da sopportare. Come avrebbe
lui dovuto agire affinchè niente della sua vita andasse smarrito o perduto,
fino a rispuntare sulla Luna? Il pensiero, non lo aveva abbandonato un secondo
da quando era tornato a vivere la sua vita sull’unico pianeta abitabile, la
Terra, appunto.
Eppure, ora, sdraiato sull’erba umida e fredda, in
compagnia di centinaia di profughi, cercando di prender sonno, riusciva solo a
pensare alla sua missione passata e a quanto gli restava ancora da compiere.
Era pur certo di non fallire. Dopotutto, se il Fato aveva assegnato proprio a lui
un simile compito, poteva dirsi sicuro di portarlo portato a termine nel
migliore dei modi. Ricordava ancora quando aveva potuto riprendere tutto il
proprio senno e la saggezza che l’aveva invaso in quel momento. Ora, questa
saggezza gli dava la forza di sopportare la propria missione, di non soffrir di
nostalgia per mondi lontani, di estraniarsi dagli altri eppure di non
disprezzare i compagni di viaggio che la vita, o il Destino, gli avrebbero di
tanto in tanto messo al fianco.
Pensò, contemplando le stelle, ad Orlando e alla furia
devastatrice della sua pazzia. Lo compianse, compianse il paladino che era
stato e il mostro in cui si era ora trasformato, ed ebbe quasi un moto di
compassione, per quell’amore impossibile che l’aveva così a fondo divorato e
ridotto in quella condizione.
Eppure, ora Orlando non soffriva più. Ora, abbandonato il
senno, ma anche il suo sentimento troppo grande da sopportare, aveva finalmente
trovato la pace. Poteva finalmente guarare la realtà con la distaccata saggezza
di chi non ha più nulla, nemmeno il senno. Poteva infine esser libero.
Libero dai doveri e dalle oppressioni, libero dalle
aspettative che tutto il mondo aveva riposto e continuava a riporre in lui.
Libero di esser se stesso, solo Orlando e non più il Paladino Orlando, non più
il Prode Orlando. Quanto, negli anni, doveva essergli pesata la sua condizione?
Quanto, le aspettative della Francia, di Carlo Magno e degli altri paladini l’avevano
influenzato? Quanto aveva, la guerra, pesato sulla sua pazzia? Era giusto, era
onesto, dar tutta la colpa ad Angelica? Cosa aveva mai fatto quella povera
ragazza, se non seguire ciò che il cuore le suggeriva, e rifiutare il più
Grande dei Grandi soltanto per amore?
Forse, in fondo, Orlando se la passava meglio ora, anche
se non poteva più riconoscere gli amici, anche se non avrebbe più parlato con
nessuno o gioito con alcuno. Forse sarebbe stato davvero meglio lasciarlo così
com’era, finalmente libero. Abbandonarlo ad un futuro orrendo, ma leggero. Chi
era lui, Astolfo, per riportarlo alla realtà? Chi era lui, per richiamarlo ai
suoi doveri, doveri che, dalla nascita, l’avevano accompagnato in un crescendo
di responsabilità?
Il cavaliere sentì un gran peso dentro di sé. In quel
momento, rimpianse per la prima ed unica volta di essersi ripreso tutto il suo
senno: se nella vita, poco a poco, ci viene tolto, dev’esserci un motivo; non
aveva forse lui sbagliato a riappropriarsene a quel modo, solo come compenso
per la difficile e pericolosa missione?
Se non l’avesse aspirato avrebbe potuto ingannarsi,
fingere di star sbagliando, ma ora sapeva di aver ragione: Orlando, se avesse
potuto scegliere, non avrebbe rivoluto indietro la propria saggezza; quella
saggezza buona solo a costringerci e mai a farci vivere felici.
Il paladino si alzò a fatica, smettendo di guardare il
cielo e rivolgendo la sua attenzione alla terra, alla sua casa, al posto dal
quale non avrebbe più potuto, anche volendo, allontanarsi. C’era pur sempre una
guerra, una guerra feroce, e senza esclusione di colpi. Una guerra che, senza l’aiuto
di Orlando, i Francesi avrebbero difficilmente vinto. Una guerra che aveva già
portato morte e distruzione in tutte le province dell’impero ed, ora più che
mai i Francesi avevano bisogno del suo Paladino.
Era questa la responsabilità che Dio gli aveva affidato?
Scegliere tra il bene dell’amico e quello della Francia?
Astolfo, dall’alto della sua saggezza, comprese che,
alcune azioni, hanno bisogno di incoscienza e rapidità. Prese in fretta la
boccettina col liquido argentato dalla sua borsa, la stappò e la rovesciò sull’erba
bagnata e fredda. Una fluente striscia argentea ne sgattaiolò fuori, si adagiò
sul terreno, si divincolò ed infine venne assorbita dalla terra.
Ora che il senno era perduto per sempre, Orlando sarebbe stato
libero.
La mattina seguente il sole sorse come era sua abitudine
e nessuno, nessuno tranne Astolfo se ne meravigliò. Aveva quasi creduto,
in quella notte che, tramontata la luna,
era divenuta tanto scura da assomigliare all’eternità, che il sole non sarebbe
mai spuntato. Aveva quasi creduto, col suo gesto sconsiderato e folle, di aver alterato la realtà e
sconvolto l’andamento naturale a tal punto da non permettere più al sole di
spuntare. Non era, per fortuna, stato così e, non appena i primi raggi dell’astro
giunsero a lambire la terra e la soffice erba, Astolfo, decisamente di buon
umore, si svegliò dal suo breve sonno e, salutati i suoi temporanei compagni di
sventura, si incamminò verso un’altra avventura che sicuramente il Fato aveva
già in serbo per lui.
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Chiedo
umilmente perdono per aver stravolto in questa maniera barbara uno dei classici
della letteratura che più amo, ma una volta che mi è venuto in mente questo
abozzo di scena ho dovuto a tutti i costi metterlo per iscritto. Chiedo scusa
anche per aver scimmiottato, oltre che Ariosto, anche Pirandello e Leopardi. Il
primo, probabilmente perché lo sto studiando a scuola e la sua idea di pazzia
mi ha sempre affascinata, tanto da cercare di conginugerla, in una visione
assolutamente distorta, con l’altra grande pazzia della storia della
letteratura, quella di Orlando appunto (ci sarebbe pure Tasso ma vabbè, quello
è un discorso a parte!xD). Il secondo semplicemente perché, ogni volta che si
parla di Luna mi viene in mente, è più forte di me.
Ma che si
vede che fra due mesi ho l’esame di stato? Nooooooo!xD
Ringrazio
tutti coloro che, accidentalmente, avranno il coraggio di leggere questa cosa
per intero e naturalmente se mi lasciate un commento, anche piccolo-piccolo,
anche solo per dire che non vi è piaciuto, mi fa sempre piacere! ^_^