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Autore: Akemichan    23/08/2005    9 recensioni
Una bambina, sola... Un pirata... E un frutto dai terribili poteri...
Genere: Avventura, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Nico Robin
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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Quando Robin mangiò il frutto del Diavolo...

 

Era una gelida giornata invernale. Nubi scure e minacciose si avvicinavano dal lontano e pericoloso orizzonte sul mare della Rotta Maggiore, mentre i tuoni andavano a mescolarsi con le urla delle persone, che correvano spaventate per l’arrivo della tempesta.

Robin non aveva paura delle forze della natura, né dei pericoli che l’oceano scuro custodiva al suo interno. Camminava rasente il muro, cercando di non farsi vedere da nessuno. In ogni caso, tutti erano impegnati in altro, non avevano il tempo di notare una ragazzina che se ne andava sola per le vie della città, zoppicando sulla ferita alla caviglia, che si ingrossava passo dopo passo, e la mano destra premuta su un ampio taglio, che faceva gocciolare il sangue lungo tutto il braccio sinistro, simile al liquore rosso che scivola via dalla bocca degli ubriachi. Il rumore dei suoi zoccoletti in legno sulla strada sterrata veniva totalmente mascherato dai passi frettolosi delle altre persone. Era diventata praticamente invisibile.

Il primo rumore che si sentì fu un colpo di pistola, che distrusse la serratura, permettendo a quegli uomini di bianco vestiti, quasi fossero i dottori dell’obitorio, di sfondare la porta ed entrare, veloci e devastanti come l’acqua di un fiume che distrugge la diga costruita con tanta fatica.

Suo padre, spaventato dalla confusione, si alzò immediatamente e corse a vedere la situazione. Un colpo di pistola solo, e cadde a terra senza un lamento, simile al pallone di cuoio con cui i bambini giocano al parco, ridendo e scherzando.

Quello, però, non era uno scherzo. Era la morte, dura e reale come finora non l’aveva mai vista. Sua madre ebbe una prontezza di riflessi che mai si sarebbe immaginata. Senza aspettare che il marito finisse di cadere a terra, con l’ampia macchia di sangue che si allargava sul petto nudo, la prese e la scaraventò fuori della finestra aperta.

Prima di riuscirci del tutto, quegli uomini bianchi aprirono nuovamente il fuoco su di loro. Robin sentì un dolore lancinante al braccio e, in un primo momento, pensò che qualcuno gli avesse strappato a viva forza un lembo di pelle. invece fu, probabilmente, una pallottola che l'aveva colpita di striscio. Quando si rialzò, nella povere sporca della strada, con la caviglia dolorante per la brutta caduta, vide sua madre, china sul davanzale della finestra, le braccia rosse a penzoloni, i capelli scuri e gocciolanti che le coprivano totalmente il viso.

“Avanti, è rimasta la bambina.”

“Nella strada, subito!”

“Fate presto, presto!”

“Andiamo!”

“Uccidetela! Uccidetela!”

Robin non pensò, proprio come sua madre. Si strinse la ferita, cercando di ignorare il dolore, e iniziò a correre. Non le importava la direzione, purchè la strada la conducesse lontano da quegli uomini. Il gabbiano azzurro sullo sfondo bianco avrebbe popolato i suoi incubi per sempre.

Robin era troppo grande per non capire ciò che quegli uomini volevano ottenere sterminando la sua famiglia, ma era troppo piccola per affrontare il mondo solo sulle sue gambe. Come sarebbe riuscita, da sola, a salvarsi da una società potente come la Marina Militare? Perché erano loro i colpevoli, lo sapeva bene. Per nascondere i loro traffici e i loro affari con i pirati e continuare a tenere il mondo all’oscuro di ciò che era veramente successo in passato, era necessario sterminare chiunque potesse costituire un pericolo. Chiunque potesse tradurre le antiche iscrizioni. In poche parole, lei e la sua famiglia di archeologi, che non avevano altro scopo, nella vita, se non conoscere la Storia. I pirati o gli sporchi affari del governo, per loro, avevano la stessa importanza di una gramigna in mezzo ad un campo di grano dorato.

Lei era però abbastanza matura da continuare a camminare per sopravvivere. Camminando, camminando, quando ormai i suoi arti si muovevano da soli per inerzia, tanto che aveva smesso di sentire i muscoli dalla fatica, giunse al porto. Fra le tante navi ancorate ne scelse una, l’unica che possedesse il Jolly Roger. Si sa che per le persone il bene e il male non esistono, o, per lo meno, non sono concetti universali. Robin aveva avuto dolore dalla Marina, che altri consideravano come salvezza, perciò non poteva che unirsi alla sua nemesi, ai pirati. Il teschio della bandiera non le rammentava la morte, ma le scoperte archeologiche.

Salì dunque a bordo di quella nave, senza sapere che era stata sequestrata dalla Marina quel giorno stesso e che tutto l’equipaggio era stato arrestato. Felice che nessuno l’avesse notata, Robin si nascose nella stiva, appoggiata a un paio di casse marce e umide che la nascondevano da chiunque fosse entrato. Sotto di sé, il cullare del mare diventava via via più forte, per l’arrivo della tempesta imminente. Non se ne curò molto, appoggiando la testa mora sulla cassa. Era talmente stanca e triste, che non sentiva più nulla. Il sangue aveva smesso di uscire dal taglio al braccio, ma lei continuava a premervi la mano sopra, come se le si fossero pietrificati i muscoli. Magari fosse diventata di pietra! I suoi genitori non sarebbero stati che l’alone lontano di qualche fiato, di modo che, in quel momento, non potesse provare che sollievo, invece che quella soffocante sensazione di vuoto e di sradicamento.

Non sapeva dove andare, né che cosa fare. Sapeva che era sola e questo non costituiva uno stimolo per andare avanti. Troppo triste anche solo per pensare alla sua vita, Robin si addormentò, proprio come la bambina che era, con la testa china sulle casse che sapevano di Rum e uova marce.

Il tornado si abbatté sull’isola con insolita violenza.

***

La nave, dopo essere stata strappata al forte e sicuro ancoraggio nel golfo dell’isola sperduta nella Rotta Maggiore, proseguiva alla deriva sul mare insolitamente calmo. La tempesta le aveva aperto numerose falle, ma la chiglia era stata risparmiata, impedendole di affondare.

La vita di Robin, in quel momento, non era così diversa da quella nave, trascinata da forze più grandi di lei, verso una meta che non conosceva, col pericolo imminente di essere distrutta da qualche mostro marino di passaggio. Da qualcuno che ignorava tutto del mondo, anche il dolore.

Erano passati tre giorni, ma non aveva minimamente cambiato posizione. Gli occhi spenti fissavano il buio della stiva senza vederlo. Quegli occhi neri come pozzi senza fondo non erano più capaci di vedere nulla, se non il colore bianco e azzurro, ancora impresso nella sua memoria come marchio a fuoco. Nonostante il silenzio, interrotto solo da qualche stridere di uccello, le sue orecchie fischiavano ancora delle urla degli uomini e dei colpi di pistola. La caviglia aveva smesso di gonfiarsi, ma non di pulsare dolorosamente. Il sangue ormai coagulato, si era incrostato attorno alla mano, ancora appoggiata sulla ferita, simile ai molluschi appiccicati agli scogli sulla spiaggia.

Il suo piccolo stomaco brontolò ancora. La mente di Robin non lo ascoltò, non l’aveva mai fatto dall’inizio del viaggio. Invece, il corpo lo fece. Quasi contro la sua stessa volontà, lei si alzò, abbandonando gli zoccoletti, che tanto avevano solo l'utilità di procurarle vesciche, per l’istinto intrinseco e inutile di evitare qualsiasi rumore, e iniziò a girovagare per la stiva, alla ricerca di qualcosa che sembrasse almeno commestibile.

La caviglia barcollava sotto il peso di quel minuscolo ma sempre troppo pesante corpo, conferendogli un’andatura simile ad un ubriaco. Continuando così, finiva per sbattere contro gli angoli delle casse ammucchiate a caso, procurandosi leggeri tagli e lividi, che non le toglievano altro che un po’ di vita. Scontrando un’altra cassa, questa si aprì, facendo rotolare sul pavimento polveroso un frutto, simile ad un’enorme fragola sagomata.

Finalmente, Robin staccò con un gesto netto la mano destra dalla ferita, finendo solamente per aprirla di nuovo, con nuovo dolore e nuova uscita di liquido rosso. Afferrò quel frutto con avidità, divorandolo a morsi troppo grandi per quella bocca sottile, facendosi colare il succo lungo il collo e il petto, inzuppando il vestito, già sporco di muffa ed escrementi.

Quel frutto non aveva sapore. O forse, era lei stessa che non sentiva più nulla al di fuori di sé.

Grazie a quel frutto, o almeno così poteva sembrare, Robin sopravvisse per altri due giorni. Non aveva conoscenze mediche, ma sapeva che non si poteva restare più di sette giorno senza bere. E la sua gola secca come un fico lasciato su un cassapanca illuminata dal sole del mezzogiorno le diceva che il tempo stava per scadere. Era quasi finita. Questo pensiero improvviso che le venne la fece sorridere. Non aveva aspettato altro da quando aveva visto la fine di suo padre e di sua madre e adesso che finalmente il suo desiderio si stava per avverare, non aveva più voglia di morire.

Era strano. Lei si sentiva strana. Così, sdraiata per terra con un mucchio di stracci abbandonati, sentiva sotto di lei il palpitare del sangue, che, in preda a un’energia euforica, attraversava a grande velocità le innumerevoli strade vitali. I muscoli si muovevano da soli, per inerzia.

Così sospinta dal ritmo inevitabile del suo corpo, Robin raccolse le poche forze e si alzò. Le mani erano ancora incrostate di sangue, ma dalla ferita libera usciva ora una sostanza giallastra e puzzolente, il pus. Lei si avvicinò alla porta che portava sul ponte principale, appoggiandosi alla parete per non cadere, visto che le sue gambe somigliavano più a blocchi di fango molle che a bastoni di legno. La caviglia era andata sgonfiandosi, e questo le permise di salire le strette scale della stiva, aprire la porta e uscire sul ponte.

Un vento gelido le frustò la faccia, togliendole gli ultimi residui dell’energia che le era rimasta nel suo esile corpo da bambina. Robin si lasciò cadere fra le assi marce del ponte, le braccia stese accanto ai fianchi, il viso leggermente voltato verso destra, così che un occhio avrebbe potuto essere accecato dal sole. Avrebbe potuto, perché le lunghe ore di agonia dentro le tenebre della stiva avevano finito per renderla quasi cieca.

Robin non aveva paura della morte, aveva paura di morire, o, meglio, dell’attesa della morte. Era terribile restare immobile, senza nemmeno la speranza di ritornare a muoversi, aspettando solo una fine, una fine che non si sapeva cos’era. Esisteva l’aldilà? Robin sperava sinceramente di no. Cosa le sarebbe valso finire questa vita, uccidendo il dolore, per doverne iniziare una nuova, forse eterna?

Ancora una volta, le aspettative di Robin furono deluse. Il caso, o il destino, se esisteva, decise di farla sopravvivere. Esistevano poche possibilità, come nel gioco della tombola, ed era venuto il suo numero. Il vento le aveva congelato le uniche forze rimastele, ma aveva trascinato con sé nubi di pecorelle candide, gonfie di acqua fresca che iniziò a scendere a raffica, forte ma allo stesso tempo dolce. Grosse gocce di pioggia dissetante, ecco ciò che cadde dal cielo e, forse, da Dio.

Robin non aveva la forza di alzare le mani sporche e raccogliere quel liquido vitale, gettarselo nella gola e riprendere forza. Rimase lì, ferma, lasciando che l’acqua che la colpiva sul volto le scivolasse naturalmente lungo la guancia fino alle labbra semiaperte, entrandole nel corpo senza che lei dovesse compiere alcuno sforzo. Il ticchettio della pioggia ebbe per lei lo stesso effetto di una ninnananna, facendole abbassare sugli occhi neri quelle palpebre, prima talmente stanche da non riuscire neppure a chiudersi. L’acqua, intanto, continuava ad entrarle nel corpo disidratato, tanto semplicemente come il sangue che scorre nelle vene, rendendo di nuovo succoso il fico seccato sulla cassapanca.

***

Quando si riprese, Robin sentiva ancora la stessa voglia di morire che possedeva prima, ma, allo stesso tempo, percepiva attorno a sé il desiderio di vita. Dov’era? Era sdraiata su qualcosa di soffice e di verde, forse una coperta o un lenzuolo ruvido, ma fuori di quella macchia, i suoi piedi nudi potevano affondare nei mille sassolini che formavano la chiara spiaggia. Nelle sue orecchie risuonava chiara la risacca, dolce come le campane del mezzogiorno. Sopra di lei, il sole caldo del mattino.

“Non è male come paradiso” si disse. “Ma non è molto diverso dalla vita.”

Puntellandosi sui gomiti, si alzò, fino a sedersi con le gambe incrociate. Si guardò le mani, ruvide per i calli e molli per la pioggia, ma perfettamente pulite. La ferita al braccio era stata medicata e avvolta con fasce strette che sapevano di bosco, non più delle uova marce del pus. Anche la caviglia, legata allo stesso modo, pareva meno gonfia. L’abito rosso che indossava, però, era ancora sporco.

“Brutte ferite” disse una voce. Davanti a lei era comparso un uomo, talmente alto che quasi non riusciva a vederlo in viso, visto anche il riverbero del sole proprio sopra di loro. Nonostante il caldo, tutto il corpo era coperto da un lungo mantello grigio sporco. “Come ti senti?”

Immediatamente, Robin staccò lo sguardo sia da lui che dalle ferite, osservando semplicemente la sabbia scorrere a clessidra fra le sue piccole dita dei piedi. Non disse nulla.

“Mi chiamo Otto.” L’uomo si tolse di bocca la pipa, soffiando il fumo in un gesto molto elegante. “Sei una pirata?” le chiese, riappoggiando la pipa alle labbra, nascoste da grandi baffi bianche e gialli. “Ti ho trovato su una nave con il Jolly Roger… Ed è stata una fortuna, per te.” Si tolse il cappello, gettandolo a terra, e rivelando grandi ricci biondi e candidi. “O una sfortuna, giudica tu.” Quindi rivolse il suo sguardo altrove, verso le grandi pareti rocciose che circondavano la spiaggia. “Ripensandoci, non credo che tu sia una pirata. Forse lo diventerai, se non sono stati loro a conciarti in quel modo.”

Robin piegò le labbra all’indietro, indecisa se parlare oppure no. Quell’uomo non sembrava un Marine, però non sapeva ancora se fidarsi del tutto. “Perché mi hai salvata?” domandò infine. Era una richiesta innocente, che non rivelava nulla di ciò che le era accaduto.

“Non saprei dirtelo” alzò le spalle con noncuranza Otto. “Ho semplicemente pensato che morire da soli fosse un po’ triste, ecco tutto.” Mise la mano destra sotto il mantello, quindi estrasse un coltello che le gettò ai piedi. “Puoi ancora ucciderti, se vuoi. Almeno, potrò farti compagnia fino alla fine.”

La tentazione di afferrare quell’arma era forte, ma cercò di trattenerla. Non capiva cosa quell’uomo avesse in mente. Non aveva senso aiutarla per poi farla ugualmente morire. Avrebbe fatto meglio a lasciarla su quella barca, perché, in fondo, quando si muore si è sempre soli.

“Hai paura?”

Robin scosse la testa. Quindi, si alzò del tutto, sentendo che la caviglia non traballava più sotto il peso del suo gracile corpo. Non sapeva perché, ma quella scoperta le diede una gioia improvvisa, perché, cessato un dolore, si finisce sempre per stare meglio. Si guardò intorno. Si trovava effettivamente su una spiaggia, talmente lunga da scomparire oltre l’orizzonte caldo. “Dove siamo?”

“In una sperduta isola della Rotta Maggiore.” Detta questa frase, Otto rise, una risata chioccia e contagiosa. “Tutte le isole di questa fottutissima rotta sono sperdute, per Dio!”

Robin accennò un sorriso sardonico. “Proprio come gli uomini.”

“Esistono i continenti.” Otto fece cessare le risa, tornando serio. “Pochi, ma esistono.”

Robin non capì a cosa alludesse, perciò rimase in silenzio, osservando gli ostacoli da corsa che erano appoggiati lungo la spiaggia e le impronte di lunghe corse percorse per superarli.

“Il mio sogno è vincere, un giorno, i cento metri con ostacoli” spiegò allora Otto, vedendo che, finalmente, gli occhi di lei guardavano qualcosa che non fosse il vuoto della sua anima. “Questa spiaggia è il luogo ideale per allenarsi.” Le si avvicinò, gettando nella sabbia illuminata dal sole il mantello che indossava, rimanendo solo con dei pantaloncini corti e strappato e una maglietta a righe bianche e blu che lo rendeva simile ai marinari che si vedono nei libri.

Quando Robin lo guardò, boccheggiò per lo spavento e, sebbene non volesse ammetterlo, per l’orrore. La parte destra del corpo di Otto era identica a quella di tutti gli altri, mentre la parte sinistra praticamente mancava. La spalla sinistra aveva una pericolosa pendenza, che terminava nel nulla, lasciando la manica della maglia libera di muoversi come un vessillo. Dopo, il corpo proseguiva coi muscoli del petto e dell’addome, per finire ancora una volta, bruscamente, nel niente che traspariva sotto i pantaloncini.

Otto accennò un sorriso alla faccia stupita di lei, che si conteneva schiudendo solo un poco le labbra sottili. “Hanno dovuto amputarmeli” rispose alle sue silenziose domande. “Questa” si battè la spalla praticamente insistente, “è finita in cancrena per una fottuta pallottola lanciata a bruciapelo che un marine bastardo mi ha sparato contro. Aveva una mira di merda, eppure guarda che danni ha fatto!” Stranamente, non c’era risentimento nella sua voce, solo una strana, incontenibile voglia di vivere. Poi accennò con un dito alla gamba mancante. “Questa me l’ha divorata un mostro marino durante una tempesta. Che crepino tutte, quelle orride creature!” Ancora una volta, nessun rancore, come se aggiungere quell’imprecazione fosse solo un obbligo o un divertimento, nulla di più.

Robin, inconsciamente, si strinse nuovamente la mano sulla ferita fasciata, tremando.

“Quella guarirà, tranquilla.” Otto soffiò di nuovo il fumo nero dalla sua pipa. “Pensi che io sia pazzo, vero?”

“No…” La risposta di Robin era un soffio di vento. “Solo… impossibile.”

“Hai certamente ragione” annuì lui. “Però sarebbe triste andare avanti senza avere un obiettivo” Saltellò qualche passo avanti. “Ti immagini alzarsi ogni mattina senza sapere per quale motivo tu non sia morto quella notte, e rivivere la solita noiosa giornata fino alla mattina precedente, aspettando di non svegliarsi più?” Robin non capiva ancora ciò che volesse dire, quindi aspettò che lui parlasse di nuovo. “Io mi alzo ogni mattina per allenarmi, con la consapevolezza che sono ancora vivo per portare a termine il mio sogno. Certo, probabilmente morirò senza riuscirci, ma almeno avrò avuto uno scopo, una ragione per la quale non morire subito.” La guardò con i suoi occhi chiari e tersi come l’acqua delle pozzanghere appena passato un temporale. “I sogni e le aspirazioni distinguono la vita dall’esistenza. Tu non ne hai, perciò non puoi vivere, ma, non desiderando nemmeno esistere solamente come le tante anime che popolano questo mondo, preferisci morire. Una scelta non discutibile, visto che sulla tua vita puoi decidere solamente tu.” Fece un’altra grossa e gorgogliante risata di fonte. “Ma vuoi davvero crepare così giovane, ragazza mia?”

Robin aprì la bocca ma, accorgendosi che non aveva nulla da dire, la richiuse, tornando ad osservare la sabbia accecante sotto di lei. “Io ho un sogno” ammise infine. “Ma… Non posso realizzarlo. Mi ucciderebbero.”

“Chi?”

“I Marine.”

Otto rise ancora. “E tu permetti a quei fottutissimi poliziotti di fermarti?” Mordicchiò la pipa di legno chiaro. “Toh, eccoli là.”

Robin si voltò verso il mare piatto. Venti navi con le vele bianche si avvicinavano, apparentemente innocue, verso di loro. Ma lei non si ingannava più, perché riusciva a vedere lo strato di marciume che quel bianco latte nascondeva.

“Divertente pensare che la maggior parte delle persone ritenga la Marina protettrice della giustizia” Otto diede voce ai suoi pensieri. “Ma quale giustizia? Proteggono solo le leggi che loro si sono dati. Chi stabilisce che siano esatte?”

Robin respirò pesantemente, desiderando in fondo al suo cuore che quelle vele si squarciassero, come tanti coriandoli alla festa di carnevale. Sotto i suoi occhi neri e sorpresi, ciò avvenne veramente. All’improvviso, quelle vele, prima piene di vento che la minacciavano in lontananza, non erano altro che brandelli di tela che volavano nell’aria calda.

“Hai mangiato il frutto del diavolo, eh, bambina?” sorrise Otto da sotto i suoi rudi baffi.

“No” negò lei, sebbene ignorasse ancora cosa un ‘frutto del diavolo’ fosse. Osservò le mani, bianche e piccole come le ricordava. Uguali a sempre. Perché, in quel momento, le sentiva tanto lontane da lei, e tanto più numerose? Poi, dai palmi chiari e puliti uscirono altre braccia, che terminavano con due nuove mani, che lei poteva controllare a suo piacimento, proprio come se fossero stati i suoi naturali. Stranamente, non ebbe paura. Si sentì forte come non lo era mai stata. Sentì di essere sempre una bambina, ma non più così debole da non riuscire a sopravvivere da sola.

“Il fior fior! Niente male” fischiò leggermente Otto. “Con quello, puoi moltiplicare i tuoi arti all’infinito nello spazio, proprio come i rami di una pianta.” Osservò con gli occhi stretti le navi in panne. “Cosa intendi fare?”

Robin chiuse gli occhi, immaginando dentro di sé la struttura di quelle navi. La Santa Barbara, piena di armi e povere da sparo. Immaginò le sue mani, che spuntavano dal nulla e, con innocuo gesto, accendevano un fiammifero in quella stanza pericolosa. Le venti navi, una dopo l’altra, esplosero. La bambina dai capelli neri osservò quasi compiaciuta quello spettacolo pirotecnico, soffiando sulle sue braccia bruciate per il forte calore a cui le aveva sottoposte. Poi, il suo sguardo ritornò serio. Sapeva che quel gesto avrebbe significato la guerra e che non poteva più tornare indietro. Avrebbe potuto uccidersi subito, ma scartò l’idea. Sentiva dentro di sé una strana forza. Annusando l’aria attorno a sé, si accorse che il suo vestito puzzava di chiuso e di escrementi e provò l’incontenibile desiderio di cambiarsi. Per la prima volta dalla morte dei suoi genitori, Robin si sentì viva. Era come se, fino a quel momento, avesse tenuto gli occhi chiusi, senza riuscire a vedere cosa vi fosse al di là del buio. Ma adesso, aveva finalmente spalancato le sue palpebre al flusso continuo della vita umana. Si era svegliata.

“Hai preso una decisione, vedo” disse Otto, che continuava ad osservare le navi in fiamme con strana gioia sadica.

“Sì” rispose con la calma che l’avrebbe contraddistinta da quel momento in poi. “Tu sei un pirata, giusto? Della ciurma di Gold D. Roger…”

Otto fece un sorriso beffardo. “Forse sì, forse no” Saltellando, si avvicinò ad una roccia, afferrando un pacco stretto in una borsa di tela bianca. “Oltre queste pareti c’è un piccolo villaggio, ed un porto…” Le passò la roba. “Qualcosa che può esserti utile.”

Robin curiosò fra quegli oggetti: un pezzo di pane, due mele, un logpose, e qualche spicciolo. “Sai qualcosa dei Poneglyps?”

“Più o meno quanto ne sanno gli altri.” Otto le strizzò l’occhio. “Diventerai una pirata, dunque?”

“Se sarà necessario” rispose Robin infilandosi la borsa sulle spalle. Al villaggio sperava di trovare un negozio che vedesse vestiti puliti, così avrebbe potuto cambiarsi, levandosi quell’odore di vecchio e marcio dalla pelle. Iniziò ad incamminarsi verso il sentiero che superava la scogliera.

“Sai che gli eredi di Roger sono vivi?” disse lui con noncuranza, quasi parlasse con la spiaggia e non con lei, allineandosi con il primo degli ostacoli.

“Addio, vecchio” disse solo Robin.

“Addio, ragazzina” replicò lui, tornando ad allenarsi.

Le nubi, all’orizzonte, andavano diradandosi.

   
 
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