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Autore: Mia    27/08/2005    23 recensioni
Lettera nata e creata per un concorso del forum, indetto da Wolf e da me vinto – I sentimenti, i pensieri, i rimpianti, le convinzioni di una regina il giorno prima della sua morte.
Genere: Drammatico, Generale, Introspettivo, Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti | Contesto: Rivoluzione francese/Terrore
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* Questa lettera è nata per un concorso del forum a cui io ho partecipato e che ho vinto (mi è stato consigliato di specificarlo ed io l'ho fatto); spero che vi piaccia.

 

Lettera

Lettera di Maria Antonietta d’Austria-Lorena per il conte Hans Axel di Fersen

15 ottobre 1793

A voi vadano il mio saluto ed il mio cuore.

Mi è stata data la possibilità da parte dei miei carcerieri di scrivere un’ultima lettera, con la quale poter dire addio ad una persona amata prima della fine, che mi aspetta domani alle dodici in punto.

Siccome gli affetti famigliari mi sono stati tolti da Dio e dalla Rivoluzione, ora rimanete solo voi, mio fedele amico, a cui io possa rivolgere il mio ultimo saluto.

È trascorso più di un anno dall’ultima volta che ci siamo visti, ed ora spero di non stare scrivendo questa lettera a vuoto, e che voi siate riuscito a tornare finalmente in Svezia, la vostra amata patria di cui tanto mi avete parlato.

Con questa speranza nel cuore vi scrivo, pur essendo sicura che questa lettera non arriverà mai nelle vostre mani se prima passerà per quelle di Fouquier-Tinville, esattamente come quella che ho scritto ad Elisabetta.

Mi trovo rinchiusa nella prigione di Conciergerie, sotto la guardia di alcuni Francesi rozzi e scontenti, i quali non desiderano altro, lo discerno nei loro sguardi quando mi osservano con quella espressione animalesca sul volto, che vedermi ghigliottinata sulla pubblica piazza e poter così avere la certezza che l’assolutismo dei re di Francia sia caduto.

Infatti essi sanno benissimo che, fino a quando non sarà stato eliminato anche l’ultimo membro della famiglia reale, la monarchia non si potrà definire caduta, sebbene i miei carcerieri mi dicano e mi ripetano in continuazione, con quell’orribile sorriso sulle labbra ed un tono di voce oltremodo irrispettoso, che la data della caduta della monarchia risale al 10 agosto dell’anno trascorso.

Non so se essi lo dicano perché è realmente così, o per farmi sentire in colpa a causa del Manifesto di Brunswick.

Se fosse per quest’ultimo motivo, mi rammarica doverlo ammettere, ci starebbero riuscendo, poiché fu a causa della mia sconsideratezza e della forma offensiva del Manifesto che i rivoluzionari esplosero.

Sentendo questi rozzi Parigini parlare del 10 agosto come la data della caduta della monarchia mi sento terribilmente a disagio e continuo a ripetermi che forse, se solo non fossi andata contro il parere di Mallet du Pan, tutto questo non sarebbe accaduto. Poi ci ripenso e mi dico che invece tutto questo sarebbe accaduto lo stesso, poiché lo scontento del popolo era grande, troppo grande per essere arrestato, e l’assalto alla Bastiglia di quattro anni fa ne era stata la dimostrazione più eclatante.

Inizialmente credevo di essere io il problema dei Francesi, considerata la presenza del grande partito antiaustriaco presente a Parigi durante il periodo delle mie nozze con Luigi XVI e la caduta in disgrazia di Choiseul, il quale era convinto che questo matrimonio avrebbe rafforzato i legami tra Francia ed Austria.

Questa mia convinzione crebbe sempre di più, fino a che non raggiunse il culmine in quel famoso maggio di sette anni fa, quando vidi tutto il popolo di Parigi parteggiare per il cardinale di Rohan contro di me.

Fu forse quella la prima volta che mi resi conto, seppure per un breve periodo di tempo, quanto fossi odiata dai Parigini, i quali si erano detti disposti a condannarmi a causa di quella maledetta collana, con la quale non avevo niente a che fare.

Ripensare a tutto questo mi fa male, ma io devo scrivere in questa mia ultima lettera tutto quello che penso, tutto quello che ho sofferto, poiché anche io ho sofferto, amato Hans; ritengo di avere il diritto di esprimere la mia verità e solo in questo modo posso farlo.

Ho tenuto il conto dei giorni della mia prigionia: sono ormai quattrocentotrentaquattro giorni che sono prigioniera dei Parigini rivoluzionari, duecentosessantasette dei quali trascorsi qui a Conciergerie, nella solitudine più totale e tremenda.

È un luogo buio e terribilmente sporco, dove ho a disposizione un letto piccolissimo, le cui lenzuola, se non fosse stato per la buona grazia della figliola dei nuovi portinai, non sarebbero mai state cambiate durante la mia permanenza qui, ed un tavolo di legno rozzo e volgare, così vecchio e marcio che mi chiedo come faccia a reggere il peso del foglio di carta e dell’inchiostro che sto ora usando per scrivervi.

Le condizioni igieniche in cui mi trovo sono raccapriccianti e credo lo sia anche il mio aspetto, seppure non lo possa dire con certezza, non vedendo uno specchio da ormai quattrocentotrentaquattro giorni.

So che i miei carcerieri vorrebbero vedermi disperata; vorrebbero che li pregassi in ginocchio di fornirmi dell’acqua per lavarmi ed una spazzola per potermi pettinare i capelli, ed in questo modo poter avere la soddisfazione di rinfacciarmi tutte le occasioni in cui io avevo negato loro qualcosa; ma io, caro amico, non sono più la ragazzina viziata che loro ricordano e non avranno questa soddisfazione da me. Non sia mai che io mi pieghi davanti a questi rozzi Francesi e permetta loro di ridere di me alla mia morte, ormai terribilmente vicina: mi comporterò con la dignità reale che mai ho sfoggiato prima d’ora, dando priorità a vestiti e gioielli; ma domani, del tutto priva di questi futili ornamenti, ed avvolta anzi negli abiti più disadorni, avanzerò a testa alta verso la mia morte, adornata solo dalla mia dignità e dal mio orgoglioso sangue austriaco.

Mi pare di udire già adesso le voci dei Parigini che gridano: “Morte all’Austriaca, morte a Madame Veto”; la soddisfazione di vedermi morta non la posso togliere loro, ma non vedranno mai la Maria Antonietta che si aspettano: se credono che piagnucolerò e li implorerò di risparmiarmi, avranno una delusione, poiché andrò in contro alla morte con dignità.

Ormai nulla può più farmi male: ora che mi sono stati tolti i miei figli, nulla può più ferirmi.

Le più terribili falsità sono state dette su di me, caro Hans, così orribili che, sebbene io le abbia affrontate e sopportate con freddezza, ora mi tremano le mani e quasi non ho il coraggio di riportarle; ma devo farlo, poiché è giusto che si sappia quello che anche io ho dovuto patire.

Ricordo con chiarezza il 14 ottobre appena trascorso: il giorno del mio processo.

Alle dieci del mattino fui portata davanti al Tribunale Rivoluzionario, davanti ai miei giudici. Gli stessi che, pochi mesi prima, mi avevano separato dai miei figli, permettendomi a mala pena di abbracciare la mia Maria Teresa e senza neppure darmi il tempo di vedere mio figlio Luigi.

I giudici erano in piedi davanti a me, vestiti di scuro nel già scuro ambiente, reso ancor più buio ed inquietante dalla luce tenebrosa che solo una mattinata nuvolosa e bigia di ottobre può emanare.

Il luogo era sporco quasi quanto la mia prigione; era come se tutti i posti che io dovessi visitare fossero stati scelti appositamente fra i più sporchi e malsani della città: forse per infastidire quella parte di me che ancora amava l’ordine, la bellezza e la pulizia, o forse era un modo dei Francesi per esprimere efficacemente tutto il loro disgusto nei miei confronti ed una maniera come un’altra per farmi intendere che dentro di me dimora tanta sporcizia quanta ce n’era in quei luoghi.

Fui fatta accomodare su di una poltrona: i miei giudici mi guardavano, con espressioni fredde e serie sui volti illuminati solo dalla debole luce di una candela consunta. Io sostenni tutti i loro sguardi con altrettanto sprezzo e freddezza.

Furono loro a cedere per primi, o forse vi furono costretti, poiché il processo doveva avere inizio; abbassarono lo sguardo e poi uno di loro cominciò a farmi le domande di rito.

Mi domandò come mi chiamassi, quale fosse il mio attuale stato sociale e quanti anni avessi.

Quando ebbi risposto, con tono freddo quanto il mio sguardo, a queste inutili domande, di cui tutti loro conoscevano quasi meglio di me le risposte, furono chiamati in causa dei testimoni.

Sebbene profondamente disgustata da questo processo, fui incuriosita dai testimoni: ero ansiosa di sapere di cosa fossero testimoni e di cosa mi accusassero.

Li vedevo, erano lì: tre testimoni pronti a dire qualsiasi cosa, anche la più assurda o crudele, pur di vedermi condannata a morte dai miei giudici.

Un sorriso amaro mi increspò le labbra: che bisogno c’era dei testimoni quando tutti sapevano benissimo che sarei stata condannata ugualmente?

Era forse un modo per dare a me l’illusione di una giustizia inesistente? Davvero credevano che io fossi così sciocca da poter anche solamente pensare di avere una minima possibilità di salvezza?

Non ebbi il tempo di darmi una risposta, poiché i giudici cominciarono ad interrogare i testimoni.

Il primo di loro depose sulla fuga di Varennes del 20 giugno di due anni fa.

Vi ricordate la fuga di Varennes, Hans?

La si stava preparando da tempo con diversi piani di evasione, sempre accantonati per l’indecisione di Luigi. Alla fine però ero riuscita ad impormi e ad obbligare mio marito a seguire il vostro piano, preparato nei minimi dettagli, basato sull’appoggio del generale Bouillé e sul principio che il sovrano non dovesse abbandonare il territorio francese, al fine di preservare sia il prestigio della monarchia sia quello che restava dell’autorità reale.

Avremmo dovuto quindi rimanere nella piazza forte di Montmedy, sotto la protezione delle truppe del generale.

Rammento che tutte le uscite del palazzo di Tuileries erano presidiate da militi della Guardia Nazionale agli ordini dell’amato La Fayette, e fu da una di esse che uscimmo, a tarda sera.

Ci ricongiungemmo verso mezzanotte e mezza: eravamo in ritardo.

Superata la barriera di Saint-Martin, stranamente priva di sorveglianza, lasciammo la carrozza, salimmo sulla berlina reale, che ci attendeva fuori dalle mura, e ci avviammo verso la nostra destinazione, sostando circa ogni ora e mezza per il cambio dei cavalli, che voi avevate preventivamente predisposto.

Foste sempre voi che, travestito da cocchiere, guidaste la berlina del re fino a Bondy.

Sebbene arrivare fino a Varennes sia stato inutile, vi ringrazio per tutto quello che avete fatto per la famiglia reale.

Dopo questo primo testimonio, fu il turno di un secondo, il quale mi accusava di aver dato da bere a dei soldati svizzeri il 10 agosto del 1791 ed anche per aver inviato somme di denaro a mio fratello, l’imperatore Giuseppe, in Austria.

Se devo essere sincera, caro Hans, l’accusa riguardante i soldati svizzeri non l’ho compresa ancora oggi, ma del resto che importanza può avere? Bastava che fosse un’accusa contro di me ed ai miei giudici sarebbe andata bene.

Ascoltai tutte queste incriminazioni senza mostrare il minimo turbamento, senza abbassare lo sguardo né fare altro che non fosse ascoltare e, dentro di me, ridere amaramente per l’assurdità di certe affermazioni.

Infine però, si presentò davanti ai giudici il terzo testimonio: il suo nome era Hébert.

Gli fu chiesto di esporre la sua accusa, ed egli cominciò con un cenno del capo ed un sorriso diabolico, che mi fece correre un brivido lungo la schiena; per fortuna nessuno si accorse di questo mio turbamento.

Le parole che uscirono dalla sua bocca mi scuotono ancora l’animo più profondamente di qualsiasi bestemmia.

Esse colpirono il mio cuore così profondamente che le rammento tutte, dalla prima all’ultima, ed ora, seppure la mia mano protesti con il suo tremore, io le riporterò, affinché si sappia la verità.

Dopo essersi presentato, il testimonio cominciò col dire di essere stato incaricato di parecchie missioni importanti che gli avevano provato la mia cospirazione; più precisamente un giorno, alla prigione del Tempio, egli disse di aver trovato un libro da messa, appartenente a me, all’interno del quale c’era uno di quei simboli controrivoluzionari consistenti in un cuore infiammato, trapassato da una freccia, con la scritta: “Jesu, miserere nobis”.

Un’altra volta, egli trovò nella stanza di Elisabetta un capello che fu riconosciuto essere appartenuto a mio marito Luigi. Questo non gli permise più di dubitare che tra i suoi colleghi esistessero uomini capaci di degradarsi al punto da servire la tirannide.

A questo punto della narrazione, Hébert disse di ricordarsi che, un giorno, Toular era entrato con il cappello nella torre, e ne era uscito a testa nuda, asserendo di averlo perduto. Aggiunse che Simon gli aveva fatto sapere di aver qualche cosa d’importante da comunicargli ed egli allora si era recato al Tempio, accompagnato dal maire e dal Procuratore generale della Comune.

Essi qui ricevettero una dichiarazione da parte di mio figlio, dalla quale risulta che all’epoca della fuga di Luigi Capeto a Varennes, La Fayette e Bailly fossero tra coloro che più si erano prestati a facilitarla; che essi avessero a questo scopo passato la notte al castello e che durante il nostro soggiorno al Tempio, Elisabetta ed io, che all’epoca di cui parlava Hébert condividevamo ancora la stessa prigione, non avessimo cessato per molto tempo di essere informate di ciò che avveniva fuori, poiché ci venivano passate delle corrispondenze negli stracci e nelle suole.

Luigi nominò tredici persone, le quali si erano adoperate in parte a mantenere queste intelligenze; egli disse anche di aver sentito, dal vano della torretta nella quale era stato rinchiuso assieme a sua sorella, la persona menzionata che diceva a me: “Vi procurerò ogni giorno il modo di saper notizie, mandando uno strillone a gridare presso la torre i giornali della sera”.

Infine mio figlio, la cui costituzione fisica deperiva di giorno in giorno, fu sorpreso da Simon intento a polluzioni indecenti e funeste per le sue condizioni; il bambino, avendogli domandato Hébert chi gli avesse insegnato quel delittuoso maneggio, rispose che doveva a me ed a sua zia la conoscenza di questa viziosa abitudine.

Dalla dichiarazione che Luigi aveva fatto alla presenza del maire di Parigi e del Procuratore, osservò il terribile testimonio, risultava che Elisabetta ed io lo facessimo spesso dormire in mezzo a noi; che molte volte avessimo commesso atti della più sfrenata licenza e che non ci fosse nemmeno da dubitare, a quanto si rilevò dallo stesso Luigi, che vi fosse stata un’azione incestuosa tra madre e figlio.

Hébert infine disse che si aveva motivo di credere che questo criminoso consiglio non fosse suggerito da carnalità, ma dalla speranza politica di snervare il fisico del ragazzo, al quale piaceva ancora figurarsi destinato ad occupare un trono, e su cui si voleva assicurare con tale manovra il diritto di dominarne il morale; che per la stanchezza nervosa da lui procacciata, si era stati costretti a mettere al fanciullo un apparecchio medico, e che da quando egli non è più con me, va riacquistando un temperamento robusto e vigoroso.

Concluse con questa affermazione, che avrebbe ferito il cuore di qualsiasi madre, anche la peggiore, più in profondità di una lama.

Il mio volto rimase impassibile, ma dentro di me tutto era in subbuglio.

Anche allora credevo che nulla avrebbe potuto ferirmi, farmi male, ma mi ricredetti dopo aver ascoltato la testimonianza di Hébert; solo ora, dopo averla udita, posso asserirlo.

Non sapevo più cosa pensare: ero innocente, mai avevo fatto quanto asseriva quell’uomo orribile, ma non potevo sapere se quelle parole fossero solo calunnie partorite dalla sua bocca e dalla sua mente, o se fossero davvero state pronunciate da Luigi.

Non sono mai stata una buona madre, e lo so, ma davvero mi sono comportata così male da spingere i miei figli ad odiarmi e far crescere dentro di loro il desiderio di vendicarsi di me calunniandomi?

Forse l’unico rammarico che ho, caro Hans, è quello di dover morire domani senza sapere la verità sui miei figli; senza sapere se questa accusa di mio figlio Luigi fosse vera oppure totalmente inventata da Hébert.

Egli mi ha inflitto il più terribile dolore; dolore che porterò con me verso la morte.

Questa deposizione era stata fatta in un cupo silenzio, e quando Hébert ebbe finito, un fremito di orrore corse per l’uditorio, scuotendolo.

Per quanto l’odio di tutti i presenti nei miei confronti fosse implacabile, esso a questo punto cadde e si rivoltò contro il miserabile.

Dopo questo attimo di orrore, mi fu chiesto che cosa rispondessi all’accusa.

Io dissi con freddezza e distacco, che ora come ora fatico a credere di aver potuto adottare, di non essere a conoscenza dei fatti di cui parlava Hébert, ma che il cuore a cui egli aveva accennato, era stato regalato da mia figlia Maria Teresa a suo fratello; per quanto riguardava il capello invece, esso era un dono che mio marito Luigi aveva fatto a sua sorella Elisabetta prima di morire.

I giudici mi domandarono anche se gli amministratori, Michonis, Jobert, Marino e Michel, non conducessero persone con loro quando venivano da me.

Io risposi con sincerità a questa ed a tutte le domande che seguirono, fino a che non mi fu rivolta quella tanto temuta.

Mi fu chiesto, poiché uno dei giurati disse che non avevo risposto intorno al fatto di cui aveva parlato Hébert, cosa fosse realmente avvenuto tra me e mio figlio.

Solo a questo punto cedetti; pur mantenendo un comportamento dignitoso, la voce mi si spezzò e gli occhi mi bruciarono, ma non piansi: dissi solo che la natura si rifiutava di rispondere ad accuse simili fatte ad una madre.

Nonostante il mio stato d’animo, riuscii a lanciare una rapida occhiata ai miei giudici, e fui sorpresa di vedere che, nonostante l’odio che nutrivano nei miei confronti, non potevano non condividere la mia commozione, né potevano pensarla diversamente da me circa l’accusa infondata d’incesto e fornicazione.

Durò solo un attimo, ma fu un attimo di inattesa solidarietà che mai mi sarei aspettata di ricevere dai miei giudici.

Dopo questi primi tre testimoni, si affrettarono a chiamarne altri: numerosissimi uomini mi passarono davanti in veste di testimoni, asserendo le cose più strane ed accusandomi delle più assurde, ma nessuna di queste accuse fu più crudele di quella pronunciata Hébert.

Sebbene non ricordi più il loro numero, né le accuse che mi lanciarono, rammento perfettamente che uno di loro era Simon il calzolaio, l’uomo a cui era stato affidato mio figlio Luigi, il quale non fu però neppure interrogato riguardo ai fatti accennati da Hébert.

Sebbene il mio cuore fosse in pezzi, ebbi almeno la consolazione, seppur misera, di vedere i miei giudici riconoscere l’infamia dell’oltraggio recato ai miei sentimenti di madre.

Tutto il resto del processo è rimasto nella mia mente come una serie di immagini sfuocate, disgiunte; non mi scomposi neppure quando mi condannarono solennemente a morte: la ferita recata al mio cuore era così grande e profonda che nient’altro avrebbe potuto turbarmi.

Ora che vi ho raccontato quello che accadde durante il mio processo, caro Hans, mi sento più libera, sebbene il dolore dimori sempre nel mio cuore, ed il dubbio che le terribili parole di Hébert siano davvero state pronunciate da mio figlio mi affligge.

Il poco inchiostro a mia disposizione sta finendo ed il braccio mi duole, poiché mai l’ho utilizzato così a lungo come ora da quando sono qui.

Rinchiusa nella mia prigione a Conciergerie, attendo le dodici di domani, ora in cui dovrò dire addio alla vita.

Non ho assistito alla decapitazione di mio marito Luigi, ma ora che anche il mio momento è vicino, nella mia mente appaiono terribili particolari, quasi fossi stata lì.

Ricordo che gli fu dato appena il tempo di salutare me, sua sorella ed i nostri figli prima di essere trascinato fuori dal Tempio in malo modo.

Mi fece male vedere il buon Luigi, che io tante volte avevo disprezzato e fatto soffrire, essere maltrattato in quel modo dal suo stesso popolo, che un tempo lo aveva anche amato per la sua bonarietà. Non mi ero mai accorta di quanto fosse indifeso, vulnerabile e bonario Luigi, poiché troppo intenta a vedere i suoi difetti, quali la goffaggine, l’ingenuità, l’obesità e mille altri.

Dalla stretta finestra della mia prigione, vidi il carro che lo portava verso Piazza della Rivoluzione, poiché il luogo della decapitazione era stato spostato da Piazza del Carosello a lì, dove era situata la ghigliottina.

La Conciergerie è troppo lontana da Piazza della Repubblica perché io potessi vedere qualche cosa, ma spero vivamente che Luigi sia morto bene e con dignità; dico questo perché, quando lo vennero a prendere, lo vidi comportarsi con una compostezza e freddezza di cui non lo credevo capace.

Il silenzio calò su Parigi alle dieci di quella mattina, ed allora capii ed intuii che tutta la città doveva trovarsi in piazza e che presto sarebbe avvenuta l’esecuzione.

Quel silenzio di morte era più terribile di qualsiasi urlo di dolore, e vedere le strade di Parigi così deserte, peggio che assistere forzatamente alla decapitazione.

Mentre ascoltavo il silenzio della città, il quale mi rimbombava nelle orecchie più dello scalpiccio degli zoccoli di cento cavalli da guerra lanciati al galoppo per la sua intensità, mi parve di vedere Luigi andare al patibolo.

Non discersi la sua espressione, ma vidi il boia ed il suo assistente mentre lo costringevano ad inginocchiarsi e gli posizionavano la testa sotto la grande, incombente lama della ghigliottina.

Nella mia mente vidi chiaramente il giustiziere che gli legava le mani, lo immobilizzava sulla tavola orizzontale ribaltabile e gli fissava il collo nell’incavo. Passarono lunghissimi istanti prima che udissi, sempre nella mia fantasia, il colpo secco della lama, che avrebbe dovuto decapitare e far rotolare nella cesta la testa del re di Francia, il quale era però morto, di questo sono certa, come cittadino Luigi Capeto, e non come re Luigi XVI.

Non so in realtà in che modo sia morto, né mai lo saprò, ma spero non abbaia sofferto e che non abbia dato modo ai Francesi di deriderlo, ma che si sia comportato da re.

Come quel giorno vidi con chiarezza, nella mia mente, le immagini della decapitazione di Luigi, ora io vedo me stessa, amato Hans, mentre percorro la via che porta a Piazza della Rivoluzione, accompagnata dalle occhiate e dalle parole di odio dei Francesi. Vedo me stessa intenta a salire quegli stessi scalini che salì Luigi il 21 gennaio di ormai un anno fa; pochi scalini di legno che mi separano dalla morte.

Ma non ho paura, caro Hans, non ho paura di andare in contro alla morte, ma la affronterò con dignità e freddezza, poiché queste ormai sono le mie principali doti, ed il dolore il mio principale sentimento.

Pregate per me almeno voi, Hans; pregate per la mia anima, affinché il Signore possa averne misericordia quando arriverà il Giorno del Giudizio.

Ho patito le pene più terribili in questa prigione e l’Inferno non potrà essere peggiore.

Mi hanno tolto i miei figli adorati, i quali sono, e sempre sono stati, il mio bene più caro, senza neppure darmi il tempo necessario per salutarli degnamente, costringendomi ad aspettare ore intere prima di poter vedere di sfuggita l’amato volto di mio figlio attraverso una fessura e per un solo attimo; attimo breve, ma che mi illuminava la giornata, portando per pochi, splendidi secondi, la felicità nel mio animo.

I miei bambini saranno sempre dentro di me, nel mio cuore, ed anche ora i miei pensieri volano in continuazione a loro, che amo più della mia vita, la quale ormai conta ben poco.

Parlare con voi, mio caro Hans, mi ha fatto bene, e spero che almeno voi piangerete per me.

Vi ho molto amato in vita ed anche nella morte vi amerò; amatemi anche voi come un tempo e pregate per me.

Au revoir caro amico.

Anzi, il mio saluto per voi sarà Auf Widersehen, poiché di francese preferisco non avere più nulla.

La Francia mi ha creato, ma ora mi distrugge, ed io domani morrò dignitosamente: quello che imbratterà il patibolo sarà il mio orgoglioso sangue austriaco.

Auf Widersehen, amato Hans: non dimenticatemi.

Sinceramente vostra

Maria Antonietta d’Austria-Lorena.

  
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