Ballerò sulla tua tomba
©Kingdom Hearts. Square Enix.
Quando i suoi occhi si erano aperti
per la prima volta e avevano osservato il mondo in cui viveva, il modo in cui
viveva, si erano immediatamente richiusi, costringendola in un buio opprimente
da cui non riusciva ad uscire.
[Questo mondo, mi
ferisce]
Aveva vagato senza meta, in quel buio
opprimente che le stringeva forte i polmoni, fasciata da un abito bianco come
il latte e si era incamminata, alla ricerca di una luce che le schiarisse le
idee e le illuminasse i passi.
[Vagavo, vagavo senza
vedere nulla.
Il buio era freddo]
Camminava con passo malfermo,
intonando note di quel mondo che i suoi occhi le avevano fatto disprezzare e
rigirandosi fra le dita una ciocca di biondi capelli, pensando a tutto quel
freddo e al suo vestito, troppo bianco e troppo leggero per poterla scaldare.
[Non potevo essere
scaldata.
Io non ero viva]
Camminava sempre, di notte, di giorno,
con il vento, con la pioggia, con il sole, con le stelle, con il caldo, con il
freddo, con le nuvole, con la neve.
[In tutto quel buio
avevo imparato a distinguere le cose.
Sapendo che erano
inesistenti]
Il buio diventava sempre più fitto, sempre più
angusto e quando i piedi le facevano terribilmente male tremava al pensiero di
fermarsi e lasciarsi opprimere.
Così non smetteva mai, di passeggiare
in quell’oscurità scura e fredda che aveva imparato a chiamare casa.
[Non sapevo come erano
fatte le case.
Quella la consideravo
tale solo per non sprofondare
Nella pazzia]
Poi, quando i suoi piedi iniziarono a lasciare dietro di sé delle
strisce rosse di sangue fresco, la vide, brillante, lucente: la luce che tanto
aveva bramato.
Allungò le mani verso di essa ma,
quando ne sfiorò la superficie labile, fu costretta a richiudere gli occhi,
ferita da tanta bellezza.
[Solo allora capii che
quella si chiamava vita.
E mi
sorse una domanda:
Cos’ero io prima di incontrarla?]
Ci aveva messo un po’ a riabituarsi, a
dimenticare il dolore dei piedi e il dolore degli occhi e ad osservarla.
La guardò come fosse stata la cosa più
meravigliosa del mondo e se ne sentì quasi pervadere. Era bianca,
monocromatica, e pensò che fosse intonata al suo vestitino.
[In fondo, era più
attraente il bianco che il nero
angosciante dell’oscurità.
Per evitare la delusione
mi dissi che avrei imparato ad amarla]
Fu quando scoprì che la sua anima era
monocromatica come quella luce che capì di non aver mai veramente aperto gli
occhi.
E la frustrazione che provò la scaricò
su un blocco da disegno, posto su un inspiegabile tavolo bianco saltato fuori
dal nulla.
[Bianco, nero. Che
differenza c’era?
Io non potevo scegliere]
Disegnare era diventata la sua
missione di vita, in quel mondo che si era improvvisamente colorato di bianco,
nascondendo il nero dietro le ombre del suo profilo intento a tracciare visi di
persone simili a lei.
[Non sapevo chi erano le
persone.
Se io lo ero,
significava che erano come me]
Imparò a godere del suono della
propria voce, delle sue risate cristalline, della malinconia che le offuscava
la vita e le stringeva la gola, facendole diventare la propria forza.
Se avesse dovuto vivere lì, in quel
mondo che non le suggeriva niente, allora voleva assicurarsi che fosse il più
ospitale possibile.
[Perché avrei dovuto viverci
io.
E le miriadi di persone
che avevo creato]
Iniziò ad attaccare i propri disegni
sulle pareti, riempiendo ogni singolo spazio che lasciava vuoto, assicurandoli
alla parete con doverosa pazienza.
Quel mondo claustrofobico sarebbe
diventato colorato e alla fine lei sarebbe morta felice.
[Perché lo sapevo, che
sarei morta.
Era questione di tempo.
E io non volevo
andarmene impreparata]
Poi, quando le speranze iniziarono a
vacillare e a cadere, spezzandosi in milioni di frammenti che non riusciva a riunire,
successe qualcosa.
[Capii subito che era
una persona.
E mi chiesi:
le persone sono diverse l’une
dalle altre?]
Aveva lo sguardo di chi ha visto
troppi orrori e il viso di un giovane ragazzo strappato alla propria infanzia e
costretto a crescere prima per essere degno della situazione.
Successe qualcosa dentro di lei e il
bianco e il nero che si contendevano il posto nel suo cuore lasciarono spazio
ad un altro colore,monocromatico come gli altri: il grigio.
[Non mi importava che
colore fosse.
Sapere che ne esistevano
altri mi bastava]
Era un ragazzo silenzioso ed
introverso. Non parlava mai e l’unica volta che l’aveva fatto era stato per
chiedere scusa del disturbo.
Ma lei non gli aveva nemmeno dato retta
e l’aveva guardato curiosa.
“sei una persona?” chiese timida,
stropicciando la gonna del vestito.
“sì” rispose e lei pensò che parlare
con gli altri fosse la cosa più bella del mondo.
“non ho mai conosciuto delle persone
prima”.
“impossibile”
Lei lo guardò corrucciando le ciglia,
quasi offesa da quell’affermazione.
“ti dico che è così”
“non lo ricordi, ma le hai conosciute
e ci hai parlato, giocato, scherzato” rispose, monocorde quel ragazzo,
inclinando la testa da un parte, per guardarla meglio e spostare il suo ciuffo
di capelli dalla parte opposta del viso.
“perché dici così?” piagnucolò lei
tremando.
“perdonami. Non volevo offenderti”
E lei ritrovò il sorriso.
[Non potevo offendermi
con quella persona.
Era vera ed era come me.
Fatta di ossa, carne e
sangue]
Lui guardò i muri, distogliendo lo
sguardo dall’ esile figura della ragazza che, sentendosi improvvisamente sola,
scrollò le spalle e chiese:
“hai un nome, persona?”
Lui sembrò vederla per la prima volta,
spostando di nuovo il suo sguardo sul corpo di lei, così acerbo e spigoloso da
sembrare doloroso.
“mi chiamo… Zexion” e le si avvicinò.
“Zexion…” ripeté lei estasiata.
“già” affermò lui, accarezzando una
parete con le dita affusolate “e tu? come ti chiami?”
“io?” domandò lei, indicandosi il viso, stupita.
[Io non avevo un nome.
Nessuno me l’aveva dato
e io ero troppo sola
per pensare ad un nome
da darmi]
“io non ho un nome, Zexion” disse lei,
quasi pentita per non potere ricambiare quella domanda.
Lui nemmeno si scompose, pigiando un
dito sui disegni.
“chi sono?” domandò indicando delle
persone che ridevano, immortalate in un disegno scolorito che ricadeva molle da
un lato.
“persone felici” rispose lei, triste.
“persone…” disse lui, tornando a
guardarla, soffermandosi sul suo viso e su quegli occhi blu accecanti.
“hai mai conosciuto le persone?”
chiese lei, avvicinandosi a lui ma non abbastanza per considerarlo reale.
“sì” e lei lo invitò a proseguire.
“non ti piacerebbero. Non piacciono a
nessuno quelle persone”
“perché no? Quante persone ci sono
fuori di qui?”
“tante. Forse troppe. E si
distinguono”
“distinguono?”
Lui aveva annuito e, con una
semplicità che lei ritenne volgare disse:
“tu per esempio sei come me. Una persona senza
cuore”
Fu come una doccia fredda e la ragazza
sentì di nuovo freddo.
[Stava tornando tutto
nero.
Avevo paura]
Si dovette sedere, reggendosi la testa
tra le mani piccole e bianche.
Rialzò lo sguardo su di lui solo
quando ebbe la certezza che non la guardasse.
“cosa significa?”
“noi siamo le ombre delle persone con
i cuori. Viviamo per cercare le nostre metà e galleggiamo in un oscurità per la
maggior parte del tempo” la fissò cercando conferma nei suoi occhi di quel
periodo.
Lei li abbassò, colpevole.
“poi loro ci trovano. Sentono il
bisogno di riaverci e tutto… diventa bianco”.
Non le importava del perché la sua
stanza, il suo mondo fossero bianche, lei voleva sapere perché non aveva il
cuore.
“Ma perché siamo senza cuore?”
Lui impercettibilmente sorrise e lei
pensò a quanto fosse bello un sorriso.
“perché noi non ne abbiamo bisogno.
Noi possiamo fare a meno dei sentimenti”
“e se io li volessi?”
“dovresti ricongiungerti con l’altra
te stessa” suonò come un ordine e lei si rabbuiò.
[Sentimenti? Cos’erano,
i sentimenti?]
“Non ho mai provato dei sentimenti”
pigolò lei, facendo un passo indietro quando lui, distratto, le passò vicino,
sfiorandola con la veste nera.
“no, infatti. Senza cuore non ti è
possibile provarli”
“eppure” disse arrossendo “ho paura di
te”.
“la paura che dici di provare, è un
eco di quella vera. La sua… ombra”
[Era stato così che
avevo capito
il significato della mia
esistenza.
E pensai che un pugno
sarebbe stato meno doloroso]
Non disse più niente e lo lasciò
girovagare per la stanza, sentendo le dita di lui toccare i foglio e lisciarli
con doverosa dolcezza.
Quei tocchi, ben presto, li sentì
sulla propria pelle e se ne spaventò.
Indietreggiò ancora, calpestando il
pavimento bianco e cercò di allontanarsi da quella figura, da quel ragazzo così
calmo.
“ho trovato” disse poi lui,
avvicinandosi a lei abbastanza da sentirne il flebile calore:
“ti ho trovato un nome”.
Lei sgranò gli occhi, rendendosi conto
solo in quel momento che lui era vicino, vicinissimo e aveva paura.
“un nome?”
Lui annuì e le strinse le spalle
facendola tremare.
“ti chiamerai… Naminé”
[Fu così che incominciò
la nostra strada insieme.
Io mi sentivo sua e lui
si sentiva abbastanza vicino a me da lasciarsi considerare mio]
C’era sempre qualcosa di nuovo da imparare
nella casa che Zexion aveva detto di chiamare “Castello dell’Oblio”.
Aveva imparato a disegnare ricordi di
persone che non conosceva, a manipolarli anche e lui era fiero di lei, quasi
orgoglioso di quel potere che sviluppava man mano che il tempo passava e lei
era felice, o solo fintamente felice, che lui la considerasse importante.
Non parlavano mai degli altri, come li
chiamava lui, semplicemente perché non c’era bisogno di ricordare che loro non
erano nessuno.
[Mi disse che dovevo
considerarmi un Nobody.
Il suono della parola mi
piacque talmente tanto,
che non badai al
significato celato dietro]
La sua vita o la sua esistenza, iniziò
a colorarsi e a diventare un arcobaleno di luci e suoni che la facevano sentire
immensamente allegra.
In più quel nome così particolare che
Zexion le aveva dato, osservando i suoi disegni, le riempiva il vuoto nel petto
di una strana sensazione che gli altri avrebbero definito Amore.
[Zexion non amava quella
parola e,
io cercavo di usarla il
meno possibile]
“Zexion?” chiamò lei, un giorno,
fissando il suo viso intristito.
“parto” disse lui con quella
schiettezza che le feriva la pelle e la faceva bruciare.
“e dove vai?” continuò lei, pigiando
un pastello rosso sul foglio.
“a combattere” la sua voce risuonò
stanca e Naminè poggiò una mano sulla sua.
“sei preoccupato?”
“no”.
Naminè si diede della stupida e
continuò a colorare mentre lui, senza farsi troppi scrupoli disse, freddo:
“potrei morire o forse morirò davvero”
“morirai?” ripeté Naminè sconvolta.
[Avevo dimenticato
l’esistenza della morte.
Era troppo il tempo che
avevo vissuto lontano da lei per ricordarla.
Eppure, il suono della
sua parola, mi fece rabbrividire]
“Già, morire. Perché alla fine la mia
ora è giunta”
“m-ma.. Zexion! Non puoi morire!”
Era una cosa assurda, quasi
paradossale e Naminè pregò che fosse uno scherzo.
“non posso dici? E chi me lo
impedirebbe?”
Lei non riuscì a rispondere, fremendo
a tanta freddezza.
Fu quasi inconsapevole quando gli tirò
uno schiaffo sulla guancia e gli disse:
“io, io te lo impedisco! Perché senza
di te sono persa! Perché senza di te il mio mondo torna bianco! Perché sei
diventato importante per me! Perché ti amo!”
Lui spalancò gli occhi, toccandosi la
guancia arrossata e la guardò, così piccola ed eterea in quel vestito bianco
come il latte.
“vorrei che fosse vero…”
Lei volse gli occhi al cielo.
[Per lui era tutto
irreale e il mio sforzo di rendere tutto diverso,
non faceva altro che far peggiorare la
situazione.
Salvarsi non rientrava
nei suoi piani,
perciò non sarebbe
rientrato nemmeno nei miei]
“E’ vero Zexion! Perché per una volta
non cerchi di guardarmi in modo differente?”
Lui si alzò e, a dispetto di quello
che credeva lei, la strinse tra le braccia, in un modo così disperato che le
fece venir voglia di piangere.
Ma si trattenne.
“se non dovessi tornare, se non
tornerò, tu sarai triste?”
Naminè sentì dentro di sé un
impercettibile incrinarsi di qualcosa e dovette respirare più volte prima di
sussurrare, contro il suo petto:
“sì, Zexion. Soffrirei”
Lui aveva sorriso e l’aveva baciata,
freddo e sterile, con una calma che a lei suggeriva solo paura.
[Eppure la paura non la
potevo provare.
Eppure c’era e mi
infreddoliva le ossa]
“Devo andare” aveva detto poi
lasciandola libera.
“Non andare”
Lui le sorrise, un sorriso che per la
prima volta le scaldò il vuoto nel petto.
“addio, Naminè”
Nonostante stesse per andare lontano,
Naminè pensò che il suo nome, tra le sue labbra era bellissimo e tentò di
imprimerselo nella testa per ricordarlo e sentirsi felice.
[Quella sera piansi.
Versai tutte le lacrime
che non avevo mai versato e
pronunciai il suo nome
tante volte.
Mi addormentai sul
disegno di noi due abbracciati]
La mattina successiva alla sua
partenza Naminè disegnò, disegnò e disegnò finchè le mani non presero a dolerle
e a sanguinare.
Ma non le importava e continuò a
colorare gli occhi azzurri di lui e il suo sorriso dolce, così raro da essere
un ricordo effimero.
Solo dopo aver tracciato la riga
definita del suo viso sentì quel qualcosa dentro di sé incrinarsi di nuovo e si
portò una mano al petto, preoccupata.
[Credetti fosse il cuore
e tenni la mano sopra di esso
finchè non mi calmai]
Poi, mentre finiva i contorni di un
vestito rosso sentì chiaramente lo spezzarsi di qualcosa e si sentì male,
malissimo, perché il pensiero volò subito a Zexion.
Al suo combattimento e, seppur per un
secondo, pensò che fosse morto.
Fu con fatica che scrollò le spalle e
riprese a disegnare. Le mani rosse di sangue e colore.
[L’avevo capito subito
che era successo qualcosa.
Ma nel mio mondo di
cristallo mi ero illusa che tutto andasse bene]
Il tempo trascorse, da qualche parte
in quel mondo le stagioni cambiarono, la sua giovinezza sfiorì facendola
diventare donna e la consapevolezza che ormai Zexion non c’era più la fecero
tornare lentamente nel buio che l’aveva tenuta prigioniera per tanto tempo.
Nemmeno si stupì quando, aprendo gli
occhi non vide più niente.
Anzi, pregò di essere morta.
[Ma invece ero viva e
vegeta,
sospesa di nuovo in quel
posto freddo e opprimente che odiavo.
Fu solo la speranza che
la mia esistenza stava volgendo alla fine,
che mi fece trovare quel
posto meno inospitale di prima]
Riprese a camminare, a cantare canzoni
mai sentite e a parlare da sola desiderando di nuovo la voce di Zexion che
sussurrava il suo nome.
Si sentì una stupida quando scoprì di
essersi dimenticata il suono della sua voce e pregò di risentirla, almeno un
ultima volta.
La preghiera si spense con il suono
dei suoi passi.
[Per me, alla fine non
c’era niente.
Bianco. Nero. Grigio o
Arcobaleno.
Io non potevo scegliere]
Fu quasi con sollievo che, dopo tanto
camminare e pregare e sanguinare la vide.
La lapide con il nome del suo
Zexion.
Gli si avvicinò, chiamandolo e, si
inginocchiò lì osservando la luce che ne
proveniva.
Provò anche a toccarla ma sentì le
mani ustionarsi.
Le ritirò offesa.
[Ma come potevo
offendermi con una persona inesistente?]
“Zexion…” disse e la sua voce si
disperse nel buio freddo del posto “mi hai lasciata”.
Niente rispose e lei, tenendosi il
petto, accettò amaramente la certezza della sua morte.
“mi hai abbandonato…” disse, piangendo
“lasciandomi in tutto questo buio, in questo freddo che mi gela le ossa e me le
fa scricchiolare. Perché l’hai fatto?”
Batté i pugni sulla luce della lapide
e le sue dita si arrossarono.
“ti avevo chiesto di non andare, di
restare con me in mezzo al bianco. Perché te ne sei andato se sapevi che ti
avrebbe atteso la morte?”
Allungò di nuovo le mani e digrignò i
denti quando vide il sangue colare.
Pensò che presto si sarebbe annullata
e, finchè non toccò il marmo freddo della lapide non le ritirò “io ti amavo e
poco importava se non avevo il cuore. Non sono mai stata abbastanza vero? Mai
alla tua altezza” e continuò a piangere, singhiozzando rumorosamente, con le
mani strette al petto che deturpavano il bianco candido della pelle e dei
vestiti. “Se solo mi avessi considerata, se solo avessi potuto capire ciò che
ti passava per la mente ora saremmo ancora insieme”.
[Ma sbagliavo e mentendo
non avrei fatto risorgere nessuno.
Perché, in fin dei
conti, nessuno era morto]
“me lo dicesti tu un giorno: il buio è
la prerogativa di chi dorme. Io non sto dormendo ma intorno a me è tutto buio”
carezzò la scritta del suo nome e si asciugò le lacrime, sporcandosi il viso
con il sangue “forse, me lo dicesti perché in realtà sto dormendo e questo non
è altro che un sogno?”
Il silenzio più assoluto le rispose e
lei si sentì sconfitta, sola e distrutta.
Con tocco malfermo, riuscì a mettersi
in piedi.
“Eppure non sono arrabbiata con te,
Zexion” osservò la lapide e poi le sue mani “no, non lo so e per ringraziarti
di tutto, ballerò per te, qui, sulla tua tomba”.
[Amava vedermi ballare e
io amavo il fatto di portelo fare
senza essere osservata]
E intonando canti antichi, cimeli
della sua memoria, prese a ballare, muovendo i piedi a ritmo delle parole che
scandiva, volteggiando nel fruscio di seta che provocava.
Non si fermò e i piedi presero a
dolere e ad insozzare la lapide con il sangue ma non le importò. Per Zexion,
questo ed altro.
Si mosse a ritmo di un suono
sconosciuto che forse non proveniva nemmeno più da lei.
Continuò per giorni senza mai
smettere, senza mai neanche soffermarsi a guardare la pozza in cui stava
lentamente affogando.
[Giurai a me stessa che,
finchè avrei avuto anche
solo una goccia di sangue in corpo,
avrei continuato a
ballare.
Per lui, per me e per il
nostro amore mai sbocciato]
Anche quando sentì le forze venir meno
non smise e gridò a voce più alta le parole che cantava, sentendosi ad un tratto
leggera e pensò di volare.
I piedi non li sentiva più, l’odore
del sangue le aveva annebbiato i sensi e le mani, stanche, continuavano a
muoversi con il suo corpo, così debilitato, così spigoloso.
Guardò una volta sola in basso e
quando vide il sangue estendersi fin’oltre il buio, aumentò il ritmo. Niente le
era parso più sollevante.
[Avevo male dappertutto
ma non mi importava.
Quel semplice dolore
avrebbe distratto la mia mente da tutto quel nero]
Quando alla fine tutto in lei perse
vigore, si lasciò cadere a terra, sentendo il viso affondare in quella melma
liquida di sangue fresco.
Provò ribrezzo e disgusto ma non si
scansò e lo bevve, avida, nonostante le venisse da rigettarlo. Si ripeteva che
per Zexion poteva fare qualunque sacrificio e quando la gola cominciò a
pizzicare per il sapore amarognolo, vi inzuppò i capelli liberando i polmoni da
una risata cristallina che rimbombò nel buio opprimente.
Chiuse gli occhi e il buio la
sovrastò.
[Non importava. Volevo la
morte.
Averla era stata la
realizzazione di un sogno]
Ma una luce le ferì le palpebre e la
costrinse ad aprirle.
Quando vide davanti a sé il mondo da
cui era fuggita, il mondo per cui aveva ostinatamente chiuso gli occhi capì.
[La mia altra mi aveva
trovato. Ora ero veramente morta.]