Crossover
Segui la storia  |       
Autore: Dk86    16/05/2010    2 recensioni
Nell’Universo ci sono un sacco di cose.
Per la maggior parte si tratta di fenomeni interessanti e visivamente spettacolari ma non molto utili all’atto pratico, come giganti rosse, pulsar o nane brune. I buchi neri, se non altro, possono risultare efficaci se ci si vuole liberare di qualcosa di scomodo… Sempre che il buco bianco corrispondente non decida di aprirsi proprio davanti alla persona a cui si stava tentando di nascondere il problema in questione (ed era successo almeno una volta, a quanto si diceva).
Pianeti e satelliti invece sono molto meglio, soprattutto perché c’è la possibilità che ospitino forme di vita intelligente, o quantomeno non troppo stupida. Inoltre possono rivelarsi ottimi luoghi di villeggiatura, come la ciurma della Crazy Diamond aveva imparato a proprie spese.
E poi, ogni tanto, ci sono anche delle astronavi.
(dal capitolo 14, "Salvare l'Omniverso e altri sport estremi")
Genere: Avventura, Commedia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Anime/Manga, Fumetti, Libri, Telefilm, Videogiochi
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

PARTE PRIMA – IL CAPITOLO DELLA TERRA


Nessuno sapeva come tutto avesse avuto inizio.

Semplicemente, un giorno era successo.
La teoria più comune era che qualcosa avesse fatto cedere d’un colpo le barriere sottili ma – almeno fino a quel momento – impenetrabili che avevano distinto un Universo dall’altro. Altri lo vedevano come un atto divino, altri ancora – una derivazione della seconda teoria – un’idea divina per risparmiare spazio. Perché in effetti avere migliaia di universi paralleli quando puoi accorparli tutti in uno solo senza grossi problemi?
In ogni caso, ciò che aveva cambiato l’esistenza di miliardi di miliardi di esseri viventi non era stata la causa, quanto più le conseguenze. Per alcuni, come ad esempio gli Eterni, non c’era nulla di diverso: loro già esistevano in tutte le dimensioni, e anzi il tutto aveva semplificato loro la vita. Haruhi Suzumiya era stata contentissima di scoprire che non solo esper, alieni e viaggiatori del tempo esistevano davvero, ma che ce n’erano più di quanti ne avrebbe mai potuti incontrare in una vita intera.
A chi era andata male, invece, era a tutti quei cattivi che volevano alternativamente conquistare o distruggere la Terra: la cosa poteva essere fattibile per un singolo pianeta, ma quando esso si moltiplicava da un momento all’altro in decine di migliaia, l’obiettivo perdeva leggermente di senso (anche se questo non aveva impedito a qualche deficiente di provarci comunque, con risultati non particolarmente brillanti).
Ma in fondo, nemmeno le conseguenze erano veramente importanti. Ciò che contava era che per tutti era iniziata l’era dello spazio.


Sigla d’apertura: Butterfly, di Kouji Wada
(ovviamente)


CAPITOLO PRIMO – IL MONDO CHE SOLO DIO CONOSCE (ALMENO PER ORA)



“Possa tu vivere in tempi interessanti”
(antica maledizione cinese)


Non era stata una brutta giornata. Ma nemmeno una giornata memorabile.
Una giornata normale, insomma.
O, per essere più precisi, una giornata noiosa.
Marco prendeva a calci una lattina mentre camminava lungo la ciclabile. Nella testa si immaginava come si sarebbe svolta la scena se fosse stato presente anche Pietro: o meglio, come non si sarebbe svolta, visto che l’altro avrebbe raccolto la lattina e l’avrebbe senza tante cerimonie buttata nella spazzatura. “Beh, per fortuna adesso lui non c’è”, borbottò Marco. In ogni caso, comunque, dopo qualche metro gettò il rifiuto nel cestino. Non era poi così divertente come poteva sembrare.
Il ragazzo si afflosciò sulla panchina più vicina, gettando lo zaino accanto a sé. Dopo qualche secondo, la bocca gli si spalancò in un enorme sbadiglio. Il caldo di inizio giugno e nulla di interessante all’orizzonte…, pensò letargico mentre alzava gli occhi semiaperti verso le fronde dei pioppi sopra di lui. È una combinazione letale.
Esattamente come la sua giornata, anche il suo umore non era né buono né cattivo. Era… beh, normale; una specie di zuppa grigia che gli ribolliva all’altezza dello stomaco. “Devo trovare qualcosa di eccitante da fare”, si disse con fermezza, gli occhi fissi davanti a sé. Una signora anziana con un grosso mazzo di fiori nel cestino della bicicletta gli riservò un’occhiata storta mentre passava davanti a lui.
Oh, perfetto, ora vengo biasimato pure dalle vecchiette…
Marco si ritrovò a pensare al monologo che Naota, il protagonista di FLCL, faceva all’inizio del primo episodio. “Non c’è niente di straordinario. Accadono solo cose scontate”. Anche se, a onor del vero, dopo di cose straordinarie al ragazzino iniziavano a succederne parecchie…
“Ehi, che è questa depressione?”, il giovane disse a se stesso, alzandosi in piedi di scatto (era sempre stato piuttosto umorale). “Di certo stando qui a non fare niente non mi capiterà nulla di interessante!”.
E ovviamente, giusto per smentirlo, qualcosa di interessante accadde.
All’inizio fu come se il mondo fosse diventato un vecchio filmato in bianco e nero: la leggera brezza che agitava le foglie degli alberi soffiava ancora, ma non produceva nessun rumore, mentre la donna in bici pedalava lentissima, come se si trovasse sott’acqua. Marco, ancora seduto sulla panchina, si guardò intorno ad occhi sgranati; a qualche centimetro dal suo volto una farfalla dalle ali bianche – una di quelle chiamate cavolaie – era sospesa e immobile, immortalata in una fotografia reale e in tre dimensioni. Il ragazzo tese un dito per toccarla, con gran circospezione, ma quando stava ormai per sfiorarla una forza tremendamente intensa lo catturò all’altezza del petto; riuscì a ad allungare l’altra mano in un gesto istintivo e ad afferrare il proprio zaino, prima che tutto scomparisse.
Beh, almeno ho la mia roba, pensò, mentre galleggiava nel nulla cosmico. Riusciva a vedere se stesso, ma intorno a lui l’oscurità era compatta e impenetrabile.
Meno di un secondo dopo, una tremenda forza di risucchio gli afferrò lo stomaco e diede un fortissimo strattone.
“Evviva! Esperimento riuscito!”, esclamò una voce acuta.
“Di quale esperimento parli? Il teletrasporto lo abbiamo già usato un sacco di volte”, altra voce, più profonda.
Un angolo del cervello di Marco gli suggerì che conosceva entrambe le voci in questione. Tutto il resto del contenuto della sua scatola cranica era invece impegnato ad impedirgli di vomitare, a fargli ritrovare l’equilibrio e a eliminare il pulviscolo grigio che gli danzava davanti agli occhi.
“Non mi sembra che stia molto bene, eh?”, disse la prima voce.
“Succede a tutti, con il primo teletrasporto”, rispose l’altra. “Ricordi cos’è accaduto a te?”.
Momento di silenzio. “Oh, lasciamo perdere, Kyon”.
Kyon? Ma allora…
E poi successe. Marco perse l’equilibrio e cadde in avanti, picchiando il naso contro un pavimento freddo e metallico. “Ahia”, disse.
Se non altro, questo gli fece passare la nausea.
Qualcuno gli si avvicinò e lo aiutò a rimettersi seduto. “Tutto bene?”, domandò la voce profonda.
“Che schifo, Kyon, gli sanguina il naso. Dagli un fazzoletto”.
“Sì, capitano…”. Nelle mani di Marco venne messo un quadrato di tela, che il ragazzo usò per tamponarsi il naso. Si sentiva come il tipico ragazzo da harem-comedy durante una scena alle terme.
Chiuse e riaprì gli occhi, ed ecco che la tendina di pulviscolo si sollevò. La stanza in cui si trovava era piccola, con pareti e soffitto dello stesso metallo grigio del pavimento; proprio al centro, però, c’era un circolo illuminato di circa tre, quattro metri di diametro, che ricordava una di quelle piattaforme di teletrasporto di Star Trek. Davanti a lui, con un’espressione di moderato scazzo sul viso, c’era un giovane uomo con indosso un’uniforme azzurra con basco coordinato; dietro il ragazzo, con le mani sui fianchi e un volto dall’aria talmente spavalda che quasi ci si sentiva imbarazzati a guardarlo, una fanciulla dai capelli castani tenuti fermi da un nastro giallo, che vestiva una divisa rossa; intorno al braccio sinistro sfoggiava una fascia con la scritta “Capitano”.
“Sono morto?”, domandò Marco.
La ragazza alzò gli occhi al soffitto. “Certo, Kyon, che potevi scegliere qualcuno sano di mente da teletrasportare a bordo”.
“Veramente, capitano, sei tu che hai detto che aveva una faccia divertente”, ribatté l’altro.
Devo prenderlo come un complimento?, pensò Marco perplesso. “Devo essere morto”, ripeté convinto. “O quello, oppure ho un tumore al cervello che mi provoca allucinazioni. Non so quale sia peggio”.
“E perché dovresti avere un tumore al cervello, sentiamo?”, ripeté la ragazza, ancora imbronciata.
“Beh”, fece Marco. “Dov’è il mio zaino?”. Kyon glielo mise fra le mani senza una parola. “Oh, grazie… sono di sicuro qui dentro, Elena me li ha restituiti oggi… ah, eccoli qua!”. E come un archeologo che rinviene un prezioso reperto dalle viscere della terra, estrasse dalla borsa un box di cartone che conteneva dei Dvd. Una delle facce della scatola recava la scritta “La malinconia di Haruhi Suzumiya”, e vi erano disegnati due personaggi. Uno in divisa azzurra, l’altra in divisa rossa. “Noti qualche somiglianza?”.
Haruhi storse le labbra. “Quell’immagine non mi rende giustizia”, sentenziò incrociando le braccia.
Marco si diede una sberla in faccia con la mano libera. “Ma non è questo il punto”. La voce gli stava iniziando a risalire un paio di ottave. “Tu nemmeno dovresti esistere! Sei un personaggio di fantasia, vedi?”, e tamburellò l’indice sulla scatola come un picchio impazzito.
Haruhi non sembrò scoraggiata dall’essere stata messa di fronte al fatto di essere il parto della fantasia di qualcun altro. “Certo. Forse nel tuo mondo. Come se fosse la prima volta che capita!”.
“C-che intendi dire?”, domandò l’altro, preso totalmente alla sprovvista.
La ragazza agitò una mano con evidente fastidio. “Oh, non ricordarmelo… Un paio di mesi fa siamo sbarcati su una delle Terre ancora poco esplorate. E appena sono scesa dalla nave mi arriva incontro questa lolita totalmente schizzata che mi abbranca e inizia a scuotermi manco fossi una pignatta! È da allora che prima teletrasportiamo a bordo qualcuno, e poi sbarchiamo”.
“Ehm… Forse la domanda ti sembrerà stupida, ma… Quella tizia per caso si chiamava Konata e aveva dei lunghi capelli blu e un neo sotto un occhio?”, domandò Marco.
Nemmeno un secondo dopo, un’occhiata omicida di Haruhi lo trafisse da parte a parte. “Non mi dire che conosci quella pazza!”.
“Beh, come dire… Lo studio che ha prodotto l’anime dove sei protagonista ha fatto anche quello dove c’era Konata”, spiegò Marco. Una voce nel suo cervello stava cercando di illustrargli l’assurdità della scena, ma la sua bocca aveva accettato la situazione di buon grado. “Naturalmente il tuo era molto meglio”.
“E vorrei ben vedere! Certo che l’animazione è proprio caduta in basso sul tuo pianeta, se si sono ridotti a usare soggetti del genere…”.
Kyon, che se ne era stato zitto fino a quel momento, si fece sentire con un discreto schiarire di gola. Haruhi lo fulminò con lo sguardo, poi parve capire cosa lui intendesse e si ricompose. “Ehm. Sì, comunque… Di certo non ti ho teletrasportato a bordo per parlare di quella staller”. Alzò gli occhi al soffitto borbottando qualcosa, come se si fosse appena dimenticata quello che stava per dire. “Kyon, puoi farlo tu il discorso di accoglienza?”, disse alla fine. Il ragazzo scosse la testa. Finisce sempre così, diceva l’espressione del suo viso. “Benvenuto a bordo della Crazy Diamond, nave spaziale di classe C”, fece, con voce meccanica. “Io sono il comandante, Kyon, mentre lei è Haruhi Suzumiya, il capitano”.
“Ehi, potresti anche metterci un po’ più di enfasi!”, lo rimproverò l’altra.
Lo sguardo negli occhi di Kyon ora diceva: ce la metterei anche, se non mi avessi costretto a fare lo stesso discorso centinaia di volte. “Il nostro lavoro è quello di percorrere il cosmo alla ricerca di pianeti abitati ancora non inclusi nella Confederazione Iperuranica…”.
“È un modo figo per dire ‘spaziale’”, intervenne Haruhi. “Oh. Scusa, Kyon, continua pure”.
“…e di porli sotto la giurisdizione della stessa”, continuò Kyon, come se nessuno lo avesse interrotto. “Ovviamente prima preleviamo uno degli abitanti a caso per verificare che essi non risultino un pericolo per la Confederazione stessa”.
“O che non siano delle pazze che cercano di uccidermi”, aggiunse il capitano.
“E, ehm…”, disse Marco, dopo che si fu accertato che per il momento i due non dovevano aggiungere altro. “Quindi io non risulto pericoloso, vero?”.
“Nah, se lo fossi Kyon ti avrebbe già sparato”, rispose secca Haruhi. “E comunque no, sei solo ipocondriaco. Un tumore al cervello, ma figuriamoci…”, e schioccò la lingua in una nota di disappunto.
“E perciò ora che avete intenzione di farne, di me?”, domandò lui. Si stupiva da solo per la calma che stava dimostrando; forse, concluse, la situazione in cui era stato gettato era così assurda da essere in qualche strana e perversa maniera perfettamente naturale, come quei film splatter della Troma che erano talmente brutti e repellenti da essere spassosissimi.
“Ti riportiamo indietro, ovvio”, disse Haruhi.
“Oh”, rispose lui, abbassando lo sguardo. “Beh, d’accordo…”.
“Che è quell’aria da cane bastonato, ora?”, sbottò lei. “Ero convinta che volessi tornare sul tuo pianeta, o sbaglio?”. Sospirò, incrociando di nuovo le braccia contro il petto. “Ma se vuoi venire con noi alla Sede Centrale per fare rapporto non c’è problema, eh. Tanto il tuo pianeta verrà incluso nella Confederazione Iperuranica in qualche settimana al massimo”.
Se Marco fosse stato prelevato da uno dei pianeti popolati da personaggi di shojo, i suoi occhi si sarebbero riempiti di brillii e stelline. “Sul serio posso venire?”, mormorò.
“Sì. Ma non fare quella faccia, mi inquieta”.
“N-non mi stai prendendo in giro, vero?”.
“Senti, sono il capitano di una nave spaziale, pensi che abbia il tempo di prendere in giro il primo idiota che teletrasporto a bordo?”.
“Beh, le ultime due settimane le abbiamo passate su quel pianeta tropicale fingendo un’avaria ai motori”. Kyon, ovviamente.
“Grazie tante, comandante, sai proprio quali sono le parole giuste al momento giusto…”, sibilò Haruhi a mezza bocca.
“Prego”.
“Allora siete sicuri che io possa venire con voi?”.
“Per l’ennesima volta, sì! Che devo fare, firmare un contratto?”.
Marco si bloccò, con la bocca semiaperta. La fronte gli si riempì di rughe, mentre l’ultima frase di Haruhi veniva macinata e assorbita dai suoi neuroni. “Aspetta… hai detto ‘contratto’?”.
“Sì, perché?”.
Il ragazzo fissò Kyon, che non sembrava in vena di elargire aiuti. “Beh, ecco… Sapete com’è, ultimamente per quelli che si sono appena laureati è abbastanza difficile trovare lavoro… Quindi, insomma, pensate che la vostra, ehm, Confederazione Iperuranica, giusto? Pensate che possa darmene uno?”.
Da Haruhi si era aspettato una reazione inconsulta, a questa domanda. Qualcosa come un calcio volante dritto in faccia. In effetti già si aspettava di sentire la suola dello stivaletto di lei frantumargli il setto nasale; eppure il colpo non arrivò. Anzi, sembrava che stesse riflettendo davvero sulle sue parole. “Mah… Non vedo perché no. Credo che si possa provare. Tu che ne pensi, Kyon?”.
Lui fece spallucce. “Hanno affidato una nave a te, d’altronde”.
“E, uhm…”, intervenne ancora Marco, cercando di impedire una possibile sfuriata di Haruhi nei confronti del comandante. “Pensate che sia possibile aspettare un altro giorno, prima di ripartire?”.


“E poi cos’è successo?”, domandò Riccardo. Non sembrava particolarmente sconvolto o perplesso dalla storia che Marco gli stava raccontando. Anzi, pareva piuttosto interessato.
“Haruhi ha acconsentito, anche se ci è voluto un po’ a convincerla. Poi mi hanno teletrasportato indietro e sono tornato a casa. E… beh, direi che è tutto”, terminò Marco, le dita strette intorno al bicchiere di frappé al cioccolato.
Sul gruppetto cadde per qualche secondo il silenzio, che fu interrotto quando Pietro arrivò in fondo al suo succo d’ananas e la sua cannuccia iniziò ad aspirare l’aria con un fastidioso rumore di risucchio.
“Senti, Marco…”, intervenne Elena, passandosi una mano nella chioma rossa con aria imbarazzata. “Non è che io non ti creda, però…”.
“Non mi credi?”.
“No”.
“Insomma”, intervenne Pietro, che finalmente aveva lasciato perdere la cannuccia. “Converrai con me che ciò che ci hai appena raccontato suona piuttosto assurdo. Posso capire una nave spaziale, ma che a comandarla fosse Haruhi… Insomma, l’abbiamo vista tutti ‘Il giorno del sagittario’, sappiamo che succederebbe se Haruhi avesse a disposizione una flotta di astronavi”. E iniziò a ridacchiare fra sé, come se trovasse molto divertente il ricordo di quella particolare scena.
“Sì, ma non è questo il punto”, spiegò con voce calma Elena, anche se la fronte iniziava a corrugarlesi. “Non c’entra cosa farebbe Haruhi con una nave spaziale, rimane comunque un personaggio di fantasia. E dato che non siamo in ‘Chi ha incastrato Roger Rabbit’, e non ci sono cartoni animati che se ne vanno in giro passeggiando…”.
“Non preoccuparti, Elena, lo so che è difficile da credere”, le rispose Marco con un mezzo sorriso. Si era aspettato una reazione del genere, in fondo: anche lui nelle stesse condizioni si sarebbe comportato alla stessa maniera. “Insomma, anch’io quando sono stato teletrasportato a bordo credevo di essere morto o di avere un tumore al cervello… Comunque beh, liberi di pensare come volete. Ma vi giuro che quella che vi ho detto è la verità”.
Sul tavolo calò di nuovo il silenzio. Marco abbassò gli occhi sul calice mezzo vuoto, facendo ruotare la cannuccia e lanciando occhiate di sfuggita ai tre amici. Sapeva benissimo che non sarebbe stato facile convincere qualcuno della veridicità della sua storia, quantomeno non senza prove concrete. Vi prego, qualcuno dica qualcosa, pensò, le guance arrossate per l’imbarazzo. Qualsiasi cosa, basta che qualcuno parli…
E qualcuno parlò.
“Io gli credo”.
Gli altri tre alzarono gli occhi più o meno sgranati verso Riccardo. “Cosa!?”, esclamarono all’unisono.
Riccardo tentò di farsi piccolo – cosa che comunque gli riusciva piuttosto difficile – sulla sua sedia. “Beh”, borbottò. “Se questo fosse uno scherzo non sarebbe granché divertente, e non credo che Marco direbbe una bugia così stupida. Perciò, insomma…”.
“‘Una volta scartato l’impossibile, ciò che rimane, per quanto improbabile, dev’essere per forza la verità’?”, intervenne Pietro, che si era rimesso a giocare con la sua cannuccia. “In effetti è un punto di vista interessante…”.
Elena fissò i tre ragazzi con disappunto: da un attimo con l’altro si era ritrovata in minoranza. Sospirò, incrociando le braccia. “D’accordo, poniamo per un attimo che ciò che ha raccontato Marco sia vero”, disse, corrucciata. “Ma il problema rimane: com’è possibile una cosa del genere?”.
Marco fece spallucce. “In effetti non lo sanno neppure loro, pare”, rispose. “Da quel poco che mi ha detto Haruhi, è successo più o meno sette, otto anni fa… Le barriere che tenevano separati i vari universi sono cadute all’improvviso, creandone uno solo”.
“Quindi questo vorrebbe dire che ci sono centinaia di migliaia di Terre, ora?”, domandò Pietro.
“Mah, credo”.
“E allora scusa, com’è possibile che nessun astronomo se ne sia ancora accorto?”. Elena era passata nuovamente al contrattacco.
Marco si grattò il mento con un indice. “Beh, se non ho capito male non è un processo istantaneo. Insomma, fino a ieri pare che nella zona in cui ora si trova la nostra Terra non ci fosse nulla… È come quando lanci un sasso nell’acqua e le onde si allargano pian piano, avete presente? Infatti Haruhi mi ha detto che quando una nave scopre un nuovo pianeta abitato e fa rapporto alla Confederazione Iperuranica il suo equipaggio riceve un bonus premio nella busta paga”.
“Beh, ha senso”, intervenne Riccardo, annuendo.
A quanto pare qui c’è qualcuno che ha accettato la situazione più velocemente di quanto non l’abbia fatto io…, pensò Marco. “Ah, giusto, che ore sono?”, domandò, afferrando il bicchiere di frappé e scolandosene quanto ne restava.
“Le cinque meno cinque”, rispose Pietro. “Perché?”.
Marco rischiò una morte da cioccolato: gli occhi gli si dilatarono ed iniziò a tossire, spargendo gocce di frappé tutto intorno. Ancora livido in volto frugò nel portafogli e sbatté una banconota da venti euro sul tavolo del bar. “Pago io”, sibilò, attraverso il grumo che gli ostruiva la gola. Poi afferrò lo zaino e si mise a correre.
“Ehi!”, urlò Elena qualche metro dietro di lui. Pietro e Riccardo la seguivano a pochi passi di distanza. “Mi spieghi che cavolo ti prende tutto d’un tratto?”.
“Credevo fosse più presto!”, rispose l’altro, senza smettere di correre.
“Più presto per cosa!?”
Marco, in tutta risposta, aumentò la velocità. La ragazza si lasciò sfuggire un verso di disappunto che sembrava molto simile ad un ruggito e accelerò il passo, subito imitata dagli altri.
Qualche secondo dopo, Marco fermò la sua corsa nella piazzetta antistante l’università che i quattro frequentavano; piegato in avanti, le mani appoggiate alle ginocchia, ansimò un paio di volte per poi rialzare la testa verso i tre che quasi lo avevano raggiunto, annunciando con voce roca e interrotta da pesanti respiri: “Credo… credo che… abbiamo fatto in tempo, per fortuna…”.
Per tutta risposta Elena lo afferrò per il bavero della maglietta e strinse forte. “Vedi di spiegarmi perché tutto d’un tratto sei andato completamente fuori di testa”, ringhiò. “E non accetterò astronavi e personaggi inventati come risposta”.
“Elena, credo stia soffocando”, osservo Pietro tranquillamente. La ragazza mollò la presa.
“G-grazie”, borbottò Marco, continuando ad ansimare. Fece istintivamente un passo indietro, per tentare di sottrarsi ad un altro degli attacchi mortali di Elena. “C-comunque, beh… Se aspettate ancora un paio di minuti credo che… credo che il ‘piano B’ avrà effetto”.
“Piano B?”, ripeté Elena. Era ancora arrabbiata, ma la nuova stranezza fuoriuscita dalla bocca dell’amico per un attimo l’aveva precipitata di nuovo nella perplessità.
“Ehm, mi sembrava improbabile potervi convincere di ciò che mi è successo semplicemente a parole”, spiegò l’altro. “Perciò ho pensato che mostrandovi l’astronave avrebbe allontanato ogni dubbio”.
“E dove sarebbe, l’astronave?”, domandò Riccardo.
“Che ore sono?”.
“Due minuti e saranno le cinque”.
“Bene, fra due minuti sarà qui, se Haruhi rispetta quanto ha detto”.
“Possiamo piantarla con questa storia, una buona volta?”, domandò Elena. “Lo sappiamo tutti e quattro che non arriverà nessuna nave spaziale, dai!”.
“Piuttosto…”, intervenne Pietro, che come al solito sembrava seguire linee di pensiero diverse da quelle del resto del mondo. “Non vi pare che ci sia qualcosa di strano?”.
Gli altri si guardarono intorno, le fronti aggrottate. Le lezioni erano quasi finite, e nella piazzetta – in cui di solito gli studenti si riunivano per pranzare, fumare o farsi quattro chiacchiere in compagnia – era deserta.
Era tutto tranquillo. Troppo tranquillo. Nessuno dei residenti più anziani della zona a passeggio con il cane, nessuna auto che transitava nelle vie accanto alla piazza; perfino gli insetti che di solito infestavano la zona con tutta la fastidiosa metodicità di cui mosche e zanzare sono in grado erano scomparse.
“È come se fossimo rimasti solo noi nel mondo”, disse Pietro in tono sognante.
“Non mi sembra qualcosa di così bello, sai?”, gli rispose Elena, continuando a guardarsi intorno con aria nervosa.
“Che dici, Marco, può essere un effetto provocato dall’astronave di Haruhi?”, domandò Riccardo.
“E basta con questa astronave!”, sbottò Elena. Si sistemò la borsa a tracolla con un gesto stizzito e incrociò le braccia. “Anzi, sapete che vi dico? Io me ne torno a casa!”. Si voltò e fece un paio di passi con la chiara intenzione di andarsene, salvo poi girarsi di nuovo. “In ogni caso voglio che sappiate che questo non rovinerà la nostra amicizia. Ma lasciatemi in pace per qualche giorno, ok? Soprattutto tu” e scoccò uno sguardo molto eloquente verso Marco, prima di rimettersi a camminare.
Non poté fare più di tre passi.
“Ehi, tu! Dove credi di andare? Il vostro amico, lì, mi ha chiesto di aspettare per colpa vostra, quindi fatemi il favore di rimanere dove siete!”. La voce risuonò, potente e diffusa, come se qualcuno avesse piazzato di nascosto degli altoparlanti lungo tutto il perimetro della piazza e li avesse accesi a massimo volume.
Elena si voltò, gli occhi grossi come piattini. “C-chi di voi ha parlato?”.
“Senti, bella, ti pare che la mia voce possa uscire da qualcuno di quegli idioti?”, rispose a tono la presenza. “Basterebbe che tu alzassi la testa e capiresti da dove ti sto parlando!”.
I quattro ragazzi alzarono lo sguardo. Sopra di loro c’era il cielo, e nient’altro.
“Io non vedo assolutamente niente”, disse Elena.
La voce tacque per qualche secondo. “Scusate, vedo di risolvere un inconveniente tecnico…”. Un rumore ritmico, come di passi, poi la stessa voce attutita dalla distanza. “Kyon, dannato microcefalo, perché hai attivato lo schermo occultante?”.
La risposta fu un basso borbottio incomprensibile.
“Come sarebbe a dire ‘Stiamo sorvolando una città’? Siamo venuti qui apposta per farci vedere e tu attivi quel cavolo di scudo?”.
Altro borbottio.
“Sì, certo che so a cosa andiamo incontro violando i principi della Confederazione! Ma chissenefrega, tanto fra due settimane saranno inclusi anche loro!”.
Un terzo borbottio.
E poi, finalmente, accadde.
Apparve di colpo, occupando la gran parte del cielo, come un enorme plesiosauro di acciaio e vetro. Doveva essere lunga almeno centoventi metri, dalla punta della parte anteriore affusolata e aerodinamica fino alla coda tozza; le quattro enormi pinne laterali – quasi sicuramente le sedi dei motori – ronzavano placide nell’aria del pomeriggio. Il ventre dell’astronave, lucido e solo leggermente ricurvo, si accese come un enorme schermo, rivelando un altrettanto mastodontico volto di Haruhi, che per l’occasione sfoggiava un sorriso che andava da un orecchio all’altro e teneva in mano un microfono. “Salve, ehm… tizio che abbiamo prelevato ieri e suoi insulsi amici! Qui è il capitano della Crazy Diamond, la leggendaria Haruhi Suzumiya, che vi parla!”.
I quattro ragazzi si erano ammutoliti da che l’astronave era apparsa. Gli occhi sgranati e le bocche spalancate; mancavano solo un paio di piccioni, e avrebbero potuto passare per un quartetto di statue estremamente realistiche.
Fu Marco il primo a riprendere il controllo del proprio corpo. Com’era giusto, d’altronde aveva già subito parte dello shock il giorno prima. “Ehm, ragazzi?”, mormorò, con un filo di voce. “Pensate che un ‘ve l’avevo detto’ sarebbe eccessivo?”.



MARCO: Ed eccoci pronti per le anticipazioni!

HARUHI: Anticipazioni? Che anticipazioni?

PIETRO: Capitano, possibile che tu non abbia mai visto un anime?

RICCARDO: Le anticipazioni stanno alla fine di un episodio – anzi, qui stanno alla fine dei capitoli – e, mah… ti dicono che ci sarà la volta successiva.

HARUHI: Ah, un modo per attirare l’attenzione del pubblico sui futuri sviluppi della vicenda! Ingegnoso, avrei dovuto pensarci io!

MARCO: Forza, Elena, tocca a te.

ELENA: Il secondo capitolo di “Il cielo è un’ostrica, le stelle sono perle”, si intitola “Lontano dal pianeta silenzioso”. Non perdetelo!

HARUHI: Ehi, ma sbaglio o nessuno ha detto nulla di quello che succederà la prossima volta?

  
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Crossover / Vai alla pagina dell'autore: Dk86