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Autore: _D a f n e    01/06/2010    2 recensioni
**Dal decimo capitolo**
Come stavo io vi chiedete? Di merda. Per tre ragioni. Uno: ero costretta a mentire. Due: non sapevo mentire. Tre: non volevo mentire a lui. Mai. Senza considerare poi la sofferenza interiore che mi toglieva il fiato. Avete presente quando c'è qualcosa che vi brucia dentro talmente tanto che nello stomaco sembra formarsi una palla di fuoco? Io la sentivo perfettamente. Potevo definirne con assoluta precisione i contorni e intercettarla in ogni suo minimo spostamento. Avrei avuto voglia di vomitarla da quanto bruciava e faceva male. Ma continuavo a deglutire cercando di spengere quel fuoco e cercando di non pensare a me, ma a lui. In fondo ero lì per quello.
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Prologo



Il panorama scorre veloce dal finestrino, lunghe e interminabili distese di prati, arricchite di tanto in tanto da qualche fienile o qualche casetta di legno atta a contenere tutti gli attrezzi per il mantenimento del seminato mi passano davanti veloci, tanto veloci da non riuscire bene a distinguere nitidamente i contorni di ciò che vedo. Sto scappando. Odio ammetterlo, ma è così. Ho mentito per tanto tempo a me stessa credendo di riuscire a superare tutto, credendo che l'amore ti fa superare tutto, ma con me non funziona. Io non sono così. E adesso ho paura, ho paura di nuovo e faccio l'unica cosa che mi riesce meglio in queste situazioni: scappo. Non nego che un po' me ne vergogno, cos'ha di tanto diverso da me un qualsiasi viscido codardo che tanto disprezzo? Niente, proprio niente. E mentre i prati corrono veloci attraverso i miei occhi, non posso fare a meno di ripensare all'ultimo anno della mia vita, quella che ormai era la mia precedente vita.

***

Mia nonna è decisamente la cosa più cara e preziosa che mi sia capitata nella vita. Quando si ha poco, beh quel poco vale decisamente tanto. E' lei che mi ha cresciuta quando i miei se ne sono andati in un incidente stradale quando io avevo solo 2 anni, è lei che mi ha preso sotto la sua ala prottettrice e mi ha spiegato che le persone, anche quelle buone, muoiono. "E' il Signore che le vuole con sè per trasformarle in angeli" Mi diceva. Era molto credente. Forse era il suo Dio a darle tutta quella forza che a me è sempre mancata. Forse se non me la fossi presa con Lui quando me l'ha portata via a quest'ora anche io sarei così forte e non avrei bisogno di scappare. Quando mia nonna se n'è andata avevo 18 anni e lei ne aveva 83, povera donna, aveva resistito il più possibile, aveva scacciato la morte in diverse occasioni e ci aveva provato anche quell'ultima volta, ma il destino era ormai scritto e non avrebbe potuto fare più niente contro la volontà divina. La morte è terribile, in special modo per chi rimane ed è costretto a continuare a vivere, nonostante dentro il suo mondo sia crollato, ma sono sicura che nel mio caso sia stato maggiore il dispiacere di mia nonna all'idea di lasciarmi da sola e abbandonata in un mondo tanto crudele. "Nonna, so che puoi sentirmi, sto bene, non preoccuparti per me, me la saprò cavare. Fai buon viaggio." Queste furono le ultime parole che le dissi, seduta sul bordo del suo letto d'ospedale, ero una brava nipote. E forse ero anche una brava persona. Una persona che non sarei stata mai più. Iniziò da quel letto il mio primo cambiamento e la mia prima fuga.


Uno
gioventù bruciata



Dieci giorni dopo ero seduta in una panchina in centro a Madrid, accanto a me una pietra enorme che rappresentava il "chilometro zero", ovvero il centro esatto di tutta la Spagna. Cosa mi avesse spinto fino lì, ad oltre 2000 km da casa, per me era ancora un mistero, ricordavo solo, nell'annebbiamento dei giorni in cui cerchi di metabolizzare una perdita, di aver fatto le valigie come meglio potevo e di aver deciso di prendere il primo aereo che sarebbe partito dall'aereoporto di Firenze. Il caso volle che quel volo fosse diretto proprio nella mia adorata Spagna che non avevo mai visitato e che tanto desideravo vedere. Lo considerai un segno del destino e forse, ripensandoci a distanza di anni, quel giorno il destino agì proprio al mio posto. Non fu un bel periodo della mia vita, lo ammetto, quando si è giovani, maggiorenni e soli si è anche estremamente stupidi. Non è che mi vergogno di ciò che ho fatto, ma di sicuro non ne vado nemmeno estremamente fiera. Ho trascorso in Spagna poco più di un anno e mezzo, durante il quale ho finito la scuola che avevo iniziato in Italia e conseguito il diploma con non poco sforzo. Una cosa buona in mezzo a tante altre cattive. Durante quello stesso anno e mezzo ho bevuto, fumato, sniffato, provato quasi ogni tipo di droga possibile immaginabile. Mi sono divertita con tanti ragazzi, ho perso il conto di quante volte mi sono svegliata in un letto che non era il mio con accanto un uomo che, forse, la sera prima mi era sembrato bellissimo. Un giorno, era inverno, vicino al mio compleanno, forse dicembre o gennaio, non ricordo con esattezza la data, ero in una viuzza nei sobborghi di Madrid con alcuni amici. Beh, amici era un parolone, diciamo che in quel momento ci facevamo comodo a vicenda; uno aveva la scheda telefonica, l'altro i soldi, io il più delle volte avevo la coca. Non perché la comprassi, di solito facevamo a metà, ma perché dicevano che una donna destava meno sospetti e attirava meno l'attenzione delle guardie. Ma quella sera invece di stendere la coca sul cruscotto della macchina, Raùl tirò fuori un altro sacchetto e un'armamentura diversa. Un cucchiaio, un accendino, mezzo limone e una stringa da scarpe bianca. "Che succede ragazzi?" Chiesi cercando di emarginare il sospetto che mi si era insinuato in testa alla vista di tutta quella roba. "Stasera si cambia, chica!" -era così che mi chiamavano- "Da stasera vita nuova." "Quella roba è ciò che penso che sia?" Il terrore mi si stampò sul volto e divenni più bianca di quanto lo ero di solito. "Questa è la droga degli dei!" Urlò esaltato Pilàr, probabilmente lo spinello di poco prima iniziava a fare effetto. Raùl lo rimise immediatamente a posto con una gomitata. In fondo Raùl era un po' come se fosse il nostro capo, era il più grande di noi ed era nel giro da un bel po', forse per questo tutti gli portavamo un grande rispetto. E forse per questo quando mi volle fare sua, mi sentii tanto orgogliosa. Ero davvero stupida. Ad ogni modo, tra tutte le cazzate che avevo fatto e che stavo ancora facendo, quella mi sembrò in assoluto la peggiore, così mi posizionai per ultima nel cerchio che eravamo soliti creare, cercando così di prendere più tempo per decidere se scappare e cercare di tornare a galla o rimanere e affogare. Quella volta scappare fu la scelta giusta. Approfittai dei 4-5 minuti in cui tutti erano con gli occhi girati indietro a godersi il loro attimo di paradiso, gli augurai sussurrando buoni trip futuri e li scongiurai di non morire, dopodiché me ne andai senza voltarmi indietro. Sapevo che se lo avessi fatto non avrei avuto più la forza di proseguire. Erano dei drogati, degli alcolizzati, dei relitti, una spina nel fianco della Madrid perbenista di inizi anni 90, ma in fondo erano quanto di più vicino a una famiglia avessi in quel momento. Quando arrivai a casa e mi poggiai contro la porta che mi si chiuse alle spalle, scoppiai a piangere. Era la prima volta che piangevo da quando avevo abbandonato il mio piccolo paesino in Toscana. Incredibile, mi ci erano voluti quasi due anni perché riuscissi a far uscire delle lacrime dai miei occhi. Me le scrollai velocemente dalle guance e corsi in camera a fare la valigia. Un'altra volta. E per un'altra volta la feci nello stesso stato di annebbiamento della volta precedente. Nello svuotare il mobiletto in bagno, mi trovai di fronte allo specchio senza volerlo, mi guardai attentamente facendo una fatica mortale nel riconoscermi. Allungai una mano verso quell'immagine riflessa per essere certa che quello specchio stesse riflettendo proprio me. Il mio viso si era fatto scanato, gli zigomi spuntavano dalla poca carne rimasta, il colore della pelle era di un grigio spento, le occhiaie erano nere. I miei riccioli rossi avevano perso la tinta da troppo tempo e adesso erano di uno strano colore indecifrabile, forse erano anche sporchi. Quanto tempo era passato dall'ultima volta che li avevo lavati? Non sapevo darmi una risposta ed era una terribile e frustante situazione. L'istinto ebbe il sopravvento e in quel momento un barlume di vita brillò dentro il mio corpo. Gettai il borsone a terra e mi spogliai. L'immagine che ora lo specchio mi rendeva indietro era ancora più terrificante della precedente. Non solo il mio corpo portava i segni di quegli anni sregolati, ma era anche spaventosamente esile. Potevo contare con assoluta precisione quante ossa avevo in corpo da tanto che erano visibili, il mio seno si era ridotto a due tettine appena accennate e, adesso che ci pensavo, non avevo nemmeno più il ciclo da diverso tempo. Ovvio, si chiama sopravvivenza, i nostri corpi sono più intelligenti di noi. Quando vengono a mancare le forze necessarie per sopravvivere, inizia ad eliminare il superfluo. Ed il ciclo rientrava in questa categoria, non c'era da sorprendersi. Scacciando l'angoscia che mi aveva messo addosso la mia immagine riflessa nello specchio, mi girai e aprii l'acqua della vasca per farmi un bagno e lavarmi i capelli; ci volle un po' affinché passasse dal colore marroncino alla naturale trasparenza. Mi infilai dentro velocemente, la temperatura dell'acqua era molto alta, forse una persona normale non avrebbe resistito lì dentro per più di 30 secondi, ma io non avevo addosso abbastanza pelle e grasso da farmi caldo e quel calore mi dette un enorme sollievo. Guardando come la mia pelle riprendesse piano piano un colorito quasi normale, sul roseo anziché sul grigiastro mi chiesi cosa il destino avesse in serbo per me in quell'occasione. E non seppi darmi una risposta.




Due.
Pulizia

La disintossicazione non è affatto come si vede nei film. E' mille volte peggio. Specialmente quando la si affronta da soli.
Non me ne ero ancora andata da Madrid, non ero del tutto sicura di volerlo, ma mi ero rinchiusa nel mio mini appartamento in attesa di quei momenti che sapevo sarebbero arrivati. Il borsone era ancora per terra in bagno con tutte le mie cose dentro, avevo anche svuotato al suo interno il contenuto del mobiletto, ma era rimasto tutto lì, fermo in attesa di essere caricato in spalla.
Lei arrivò quando ero sdraiata sul divano, catatonica, ad ascoltare la radio. Presi a sudare freddo, la vista mi ballava e i contorni degli oggetti che mi circondavano si fecero sempre più sfocati, la mia testa pulsava forte, sembrava quasi che il mio cuore si fosse spostato dal petto al cervello. Iniziai a tirarmi botte con le mani sulle tempie, nel vano tentativo di far passare quella tremenda sensazione, poco dopo la bocca mi si riempì di saliva e, nauseata, corsi in bagno a vomitare. Adesso avevo caldo, troppo caldo per essere in pieno inverno e con il riscaldamento rotto, riempii la vasca di acqua ghiacciata e mi ci infilai dentro. Girandomi verso lo specchio notai che i miei occhi si erano fatti due fessure e le mie pupille sembravano spilli da tanto che erano sottili. Era la mia prima crisi d'astinenza, la prima di tante.
Passai cinque giorni in cui, a confronto, l'inferno mi sarebbe sembrato il paradiso. Mi stavo depurando, il mio corpo espelleva in qualsiasi forma possibile, vomito, sudore, diarrea, tutto il marcio che c'era dentro di me. In quei cinque giorni i miei pensieri erano divisi in due fazioni opposte, una voleva morire, l'altra voleva fortissimamente un'altra dose. Sono stata sul punto di uscire e andare nella viuzza tanto familiare da Raùl, Pilar e tutti gli altri per ben 17 volte, le ho contate e appuntate su un quaderno improvvisato che tenevo sul tavolino. Mi vestivo, mi infilavo il mio giubbotto marrone nella confusione più totale e strizzando bene gli occhi per cercare di vedere meglio e mi avviavo verso il portone di casa, poggiavo la mano sulla maniglia e mi bloccavo. Una parte di me sapeva perfettamente che quella era la cosa peggiore che avessi potuto fare in quel momento e così desistevo da quell'idea.
Solo una volta riuscii a uscire e a raggiungere il pianerottolo, ma quando le scale iniziarono a ballare e a muoversi sinuose sotto i miei occhi mi ricordai di quanto avevo sofferto in quei giorni, di quanto avessi raschiato il fondo grattandolo con le unghie e con i denti e mi convinsi che, se avessi sceso quelle scale, il mio soffrire non sarebbe valso a niente. E rientrai.

Passarono altri 5 giorni e stavo meglio, non stavo ancora bene, ma meglio mi sembrava un risultato più che soddisfacente in quel momento.
Avevo fame e anche quello era un gran risultato, oltre che una grande novità. Decisi che sarei potuta uscire a comprare qualcosa senza avere la fortissima tentazione di raggiungere i miei ex-amici nella viuzza, così mi lavai per bene la faccia, mi misi un po' di correttore sulle occhiaie che ancora non se ne erano andate, uno strato di fondotinta tonalità ivory -la più vicina al mio colore naturale-, matita intorno agli occhi e un po' di mascara, mi vestii, indossai il cappotto e mi avviai verso la porta finalmente soddisfatta del mio aspetto.
Agli occhi estranei che avrebbero incrociato il mio viso e il mio corpo, sarei sembrata ancora terribilmente magra e malata, ma se mi avessero visto un paio di settimane prima.. Beh, sarei sembrata loro uno zombie.
Mentre stavo per uscire mi accorsi di aver calpestato qualcosa di liscio e piatto, alzai istintivamente il piede e notai un pezzo di carta ripiegato quattro volte su se stesso. Non avevo idea di che diamine fosse e come fosse finito lì, lo raccolsi e lo aprii.



Raùl. Santissimo il cielo, Raùl. Dovetti sedermi per paura che nel pavimento si aprisse una voragine proprio sotto i miei piedi. Che significavano quelle parole e quando aveva lasciato quel biglietto? Già vestita uscii di corsa di casa e mi diressi verso la prima cabina telefonica.

-Chi è?-
Esitai un momento, ma poi presi coraggio
-Raùl ciao.-
-Chica? Sei davvero tu?-
-Si.-
-Non posso crederci. Tu sei un dono caduto dal cielo.-
-Raùl cosa significa il biglietto che hai lasciato a casa mia?-
-E' la verità Chica e non so come ho fatto a non accorgermene in questi due anni. Sai quant'è che faccio questa vita? Ho tirato la mia prima striscia quando avevo sedici anni, adesso ne ho 28, fai un po' te i conti. Di gente ne ho vista andare e venire a flotte e non me ne è mai importato niente, ma con te è stato diverso. Non chiedermi il perché, non lo saprei. So solo che mi hai svegliato, mi hai fatto aprire gli occhi. Non voglio più essere quello che sono, anzi non voglio essere proprio niente senza di te.-
-E' vero che sei pulito?-
-E' vero che sono un paio di giorni che non tocco niente. Sto da cani e non so da che parte sbattere la testa. Vieni qui, per favore.-


Sapevo bene come si sentiva, era esattamente come mi sentivo io fino alla settimana prima. E sapevo anche quanto in quei momenti avrei voluto qualcuno accanto ad incoraggiarmi, a dirmi che ero forte e che ce l'avrei fatta nonostante mi sembrasse di essere in vicolo cieco senza possibilità di intravedere un'uscita.

-Sono a piedi, ci metterò una ventina di minuti ad arrivare.-
E riattaccai senza dargli il tempo di dire altro.






Tre
Rinascita

Per la strada mi fermai a comprare un po' di cose che sapevo mi sarebbero state utili. Caramelle alla menta che erano un toccasana contro la nausea, io stessa nei dieci giorni precedenti ne avevo consumati oltre 15 pacchetti, qualche garza per gli impacchi freddi sulla fronte quando gli sarebbe salita la febbre, un flacone di bagnoschiuma e una bottiglia di vino. Quest'ultimo acquisto era per l'eventuale piano B, bisogna sempre avere un piano B. Il mio consisteva nel farglielo bere qualora la sua disintossicazione fosse stata più dura del previsto, dato che nel suo caso doveva ripulirsi da dodici anni di droghe.
Arrivai a destinazione nella Calle Vizcava nel quartiere di Moguer, poco lontano dal maestoso stadio Bernabeu, con circa dieci minuti di ritardo rispetto alla mia previsione, posai i sacchetti per terra e frugai nella borsa in cerca delle chiavi. Sapevo di averle da qualche parte, Raùl me le aveva date diverso tempo prima dicendo che almeno quando avrebbe avuto voglia di me, gli sarebbe bastato chiamarmi e non si sarebbe nemmeno dovuto alzare per aprirmi il portone.
Che stronzo.
Eppure non riuscii a fregarmene e a lasciarlo solo.
La scena che mi si presentò agli occhi una volta entrata in casa era nauseante.
Raùl era sdraiato per terra accanto al tavolo di cucina in piena crisi, fissava il soffito con occhi spalancati in preda a chissà quale visione, tremava e stringeva i pugni sul petto. Tutto intorno c'erano chiazze di vomito, bottiglie di vino finite e lasciate a terra, lattine di birra e l'armamentario di quella che immaginavo fosse stata la sua ultima pippata.
Mi avvicinai a lui e quando mi vide scoppiò in lacrime e blaterò qualcosa di sconnesso che forse aveva un senso solo nella sua testa, un altro effetto delle crisi di astinenza da cocaina infatti era proprio la paranoia.
Fredda e con il cuore che mi batteva forte al ricordo che anche io ero stata in quelle condizioni, lo presi, lo trascinai in bagno e aprii l'acqua della doccia. Mentre aspettavo che la temperatura raggiungesse i gradi giusti, lo spogliai e notai come il suo corpo fosse tumefatto e pieno di lividi, le braccia avevano ancora i segni dei buchi passati e presenti, le gambe erano due spiedini, ciò nonostante era ancora estremamente bello e affascinante. Gli baciai velocemente la fronte e lo infilai dentro bagnandomi a mia volta.

Stetti nella doccia seduta insieme a lui per più di mezz'ora, incurante del fatto che fossi vestita e truccata, le mie gambe cingevano da dietro la sua vita e con le mani gli accarezzavo delicatamente la testa badando bene di non fare movimenti bruschi che lo avrebbero spaventato. Quando iniziava a tremare lo stringevo più forte a me, alzavo la temperatura dell'acqua e lui dopo poco si calmava e tornava ad essere inerme verso tutto ciò che lo circondava.
Non appena la crisi passò e le sue pupille tornarono di una dimensione accettabile si girò verso di me con le gocce che ancora gli colavano dalla fronte e il suo sguardo si riempì di dolce gratitudine.

"Sei così bella."
"Sei così dannatamente fatto."
"Chica, non lasciarmi, non andartene, non farlo mai più. Rimani qui, con te accanto posso farcela. Tu puoi salvarmi."
"E poi chi salverà me quando sarai tu ad andartene perché ti sarai stancato?"
"Io non me ne andrò, non lo farò mai."
"Lo farai Raùl, eccome se lo farai. Ti conosco troppo bene per poter avere anche solo il privilegio di illudermi e credere a ciò che dici."
"Sei crudele."
"Sono realista. Ma sono anche qui."


Rimasi con Raùl per circa 5 mesi. Quella prima disintossicazione funzionò alla grande, era diventato davvero un'altra persona e io ci stavo quasi per cadere. Stavo per fare l'enorme cazzata di innamorarmi di lui. O forse ero già innamorata quando gli trovai in tasca un nuovo sacchetto con dentro un altro cucchiaio bruciato.
Aveva ricominciato. Ma questa volta aveva saltato direttamente il primo naturale passaggio ed era arrivato direttamente all'eroina e ai buchi.
Quella sera tirò fuori una delle sue scuse per uscire di casa ed andare nella viuzza e io approfittai della sua assenza per infilare un'altra volta tutta la mia roba nel borsone. Non avevo più nessun tipo di dubbio, Madrid non era più posto per me e non mi avrebbe avuta oltre. Le avevo già concesso fin troppo.
Un ultimo sguardo a quella casa, un biglietto lasciato sul tavolo per dirgli addio e la notte mi inghiottì nella sua oscurità ancora una volta senza avere la benché minima idea di dove sarei stata l'indomani.

***



Ho girato tanto, quasi tutta l'Europa occidentale. Mi sono spostata in treno, con l'autobus, in autostop e a piedi senza nemmeno sapere quale fosse la mia destinazione. Ho attraversato la Spagna, poi la Germania e infine l'Inghilterra dove mi sono fermata per un po' di tempo e dove, per la prima volta, ho avuto delle vere amicizie. Non sapendo in quale modo occupare il mio tempo libero e per cercare di tenere la mia mente e i miei pensieri lontani da Raùl e dalla mia vecchia vita, avevo iniziato a fare sport, mi allenavo con una squadra di calcio femminile vicino Liverpool ed ero anche abbastanza brava. Giocavo come centravanti di sfondamento e non c'era volta in cui a una partita mancavo lo specchio della porta avversaria. Le mie compagne di squadra, nonché le mie nuove, prime ed uniche amiche, mi chiamavano Lightning -ebbene sì, un'altra volta un altro soprannome straniero- che significa fulmine, perché dicevano che per loro ero stata come un fulmine a ciel sereno: ero arrivata e avevo portato un sacco di luce e di buone cose che con il buio non possono esistere.
Legai bene anche con il resto del team, il massaggiatore, il fisioterapista, l'allenatore e il medico. A quest ultimo non sfuggirono i segni che portavo sul mio corpo come ricordo indelebile delle cazzate fatte negli ultimi due anni.

"Che ti è successo ragazza?"
"Niente. Gioventù bruciata."

Abbassai lo sguardo nel dirlo, i ricordi erano ancora troppo freschi e facevano ancora terribilmente male. Evidentemente lui lo capì e non insistette oltre, non quella sera almeno. Ma con il passare del tempo si avvicinò sempre di più a me, sembrava quasi volesse farmi da psicoterapeuta personale, sembrava veramente interessato ai miei pensieri e alle mie angosce. Parlammo tanto, era sicuramente la persona con la quale mi ero aperta maggiormente in tutta la mia vita. Ogni sera, dopo l'allenamento e la doccia, mi fermavo al campo e, seduti sulla panchina sorseggiando un succo al pomodoro, parlavamo incuranti della pioggia, del freddo o della neve.
Riuscii a rivelargli tutto quello che avevo passato, gli raccontai della nonna, del mio trasferimento in Spagna, della viuzza, della disintossicazione mia e di quella di Raùl. Omisi solo la mia breve storia d'amore.
Amore, che parolone.
Beh, quella non gliela raccontai. Quella bruciava ancora più di tutto il resto e stavo male a pensare a Raùl che aveva ricominciato a farsi e io che lo avevo abbandonato. Per di più non avevo nemmeno modo di sapere se fosse sempre vivo o meno.
Conny -questo era il suo nome- era particolarmente interessato a come fossi riuscita a farmi e a fargli passare le crisi di astinenza senza essere ricorsa a nessun tipo di farmaco. Per lui era una cosa del tutto sorprendente. Per me era del tutto sorprendente che l'unica cosa che lo avesse colpito in tutta la mia storia, fosse la mancanza di medicine nella disintossicazione.
Era strano per me, abituata come ero, che un uomo fosse interessato ai miei pensieri e non si fingesse tale solamente per portarmi a letto, ma devo ammettere che era una bellissima sensazione. Con lui potevo essere me stessa senza preoccuparmi di niente. Quando parlavo mi ascoltava veramente, mi faceva domande, rideva delle mie battute -altra cosa assolutamente nuova: facevo battute che evidentemente erano anche simpatiche-, insomma era un amico.
Sorprendentemente successe qualcosa che non avevo nemmeno lontanamente immaginato: sfondai nel mondo del calcio femminile. Dopo la nostra promozione nella serie maggiore mi arrivarono proposte da ogni club, tutti mi volevano nella loro squadra.
Che strana sensazione. Specialmente perché per me il calcio era un modo come un altro per passare il tempo. Non c'erano in ballo nessun tipo di cifre astronomiche a sette zeri, né tantomeno auto lussuose e serate in discoteca come succedeva nel mondo parallelo e più seguito del calcio maschile, ma era comunque una nuova prospettiva di vivere. la vita mi stava rendendo indietro ciò che mi aveva tolto in passato e dentro di me sentivo crescere l'orgoglio e il dolce sapore della rivalsa.
Dopo altre due stagioni al Liverpool in cui le mie amicizie si rafforzarono e il passato scivolò lento nell'annebbiamento dei ricordi, accettai una proposta da una squadra americana, i Los Angeles Sol.
Ero eccitata e amareggiata allo stesso tempo, da una parte vedevo nuove prospettive e nuove possibilità e dall'altra non volevo lasciare ciò che mi aveva aiutato a risalire dall'abisso.
Ancora oggi non so scegliere se partire sia stata una buona decisione oppure no.






Quattro
Giudizi

Erano passati 10 anni da quella mia scelta, era il 2004 e il mondo, e la mia vita, stavano proseguendo a grandi passi. Alla Nasa arrivavano le prime foto di Marte, il terrorismo si faceva sempre più spaventoso, una nuova terribile malattia infettiva avanzava dall'Asia e l'11 marzo più di duemila persone rimasero coinvolte in un attentato a Madrid.
La mia vita andava avanti a ritmi regolari, quasi monotoni, tra un allenamento, una passeggiata in centro e una cena con gli amici. Il mio passato era rimasto definitivamente in un angolo remoto della mia mente e di quella di Conny, l'unico con il quale avessi mai condiviso i miei ricordi. Tutto era normalmente normale fino a quel giorno. Fino al 24 agosto 2004.

-Pronto?-
Una voce maschile all'altro capo della cornetta parlò.
-Lightning?-
Ripetei quel nome nella mia mente. Nessuno mi chiamava più così da diverso tempo.
-Chi parla?-
-Sono Conny.-


Non ricordo con esattezza la mia felicità in quel momento. Avrei fatto i salti di gioia, avrei urlato, corso, pianto da tanto che ero felice di risentirlo. Parlammo per una mezz'ora buona del più e del meno, di come fossero proseguite le nostre vite l'uno in assenza dell'altra, delle novità che c'erano state e scoprimmo che abitavamo entrambi nella stessa città senza che lo sapessimo.
Anzi, senza che io lo sapessi. Perché adesso che ci penso bene, probabilmente il suo piano era già studiato da tempo e quella telefonata non fu per niente casuale come volle farmi credere.
Prima di salutarci e riattaccare mi chiese se avessi voglia di andare a bere una cosa insieme un giorno di quelli e io accettai con grande entusiasmo, in fondo non avevo motivo di dubitare di alcun losco piano che mi avrebbe portato faccia a faccia con il mio passato e con la più grande delle delusioni.

Ci incontrammo tre giorni dopo, in una caffetteria sulla nona strada, nel bel mezzo della vita affaristica di Los Angeles.
Come al mio solito ero arrivata con notevole anticipo e mi ero seduta a un tavolino all'ombra sotto il grande ombrellone bianco che speravo mi riparasse almeno un po' dai 25 gradi di quell'afosa estate. Quando vidi spuntare la sua sagoma da dietro il fiume di persone che camminava sul marciapiede, il mio cuore fece un balzo nel petto, non avrei mai creduto di poter essere tanto contenta di rivedere un amico. Mi alzai istintivamente e gli corsi incontro buttandogli le braccia al collo, solo allora mi accorsi che lui era felice quanto me nel rivedermi. Finiti i saluti iniziali, mi allontanai da lui senza lasciargli le mani e lo osservai attentamente. Quei dieci anni di tempo non lo avevano toccato minimamente, era sempre l'omone nero dalla faccia paffuta e simpatica che mi aveva tanto ascoltata e confortata. Ci sedemmo e ordinammo due succhi al pomodoro come tanto tempo prima. Incredibile, si ricordava ancora i miei gusti.
Parlammo, parlammo e parlammo ancora. Non c'era imbarazzo nelle nostre parole, c'era solo tanta voglia di riscoprirsi e di condividere le nostre emozioni ancora una volta. Gli raccontai tanto di me, probabilmente tutto, per la maggior parte del tempo la mia voce sovrastò la sua e lui, come sempre, ascoltava attento le mie storie. Quando gli chiesi di cosa si occupasse adesso abbassò gli occhi in direzione delle sue mani che si unirono sotto il tavolino come per nascondere l'imbarazzo, dalla sua voce uscì un suono talmente debole da farmi dubitare che stesse parlando.

"Lavoro in privato adesso."
"Che significa che lavori in privato Conny?"
"Significa che ho un datore di lavoro."
"Un datore di lavoro? Ma non fai più il medico?"
"Certo che sì, non saprei fare altro nella mia vita!"

Ironizzò nel vano tentativo di portare altrove la conversazione, consapevole però che prima o poi avrebbe dovuto affrontare quel discorso.

"E quindi..? Cos'è tutto questo mistero? E' un qualcosa che non puoi dire? Lavori per la CIA per caso?"
Ironizzai anche io sperando che così riuscisse finalmente a parlare.

"No, niente CIA, ma non ci sei andata molto lontana. Cioè, aspetta prima che ti venga un colpo, non sono diventato né un agente segreto, né un infiltrato in qualche missione pericolosa. Diciamo che sono il medico personale di una persona famosa, ecco."
"Oh, capirai! E io che credevo chissà cosa! E chi sarebbe la persona famosa in questione? Arnold Schwarzenegger? Il presidente Bush? No, no, sono fuori strada lo sento. Secondo me è una bella donna. Avanti parla se non vuoi farmi morire dalla curiosità!"
"Mi dispiace deluderti, ma niente presidenti e niente donne. Sei decisamente molto lontana. Ti do un piccolo aiuto, è un cantante di fama mondiale, anzi, di fama intergalattica. E' conosciuto perfino sulla Luna. Lightning devi aiutarmi, ma ho paura che tu non sia forte abbastanza, non vorrei mai che tu soffrissi, ma non so che altro fare."


Vi chiederete quale fosse la sua richiesta. Semplice. Tanto semplice quanto diabolica.

"Lightning quanto tempo è che non vedi un telegiornale?"
"Da ieri sera."
"Di cosa hanno parlato al telegiornale ieri sera?"
"Conny, non me lo ricordo! Dove vuoi arrivare?"
"Avanti, cerca di sforzarti, di cosa hanno parlato al telegiornale ieri sera?"

Riflettei attentamente.
"Dunque, fammi pensare.. Sono stati rubati due quadri di Munch a un museo, hanno rapito tre giornalisti in Iraq, i Queen possono vendere i dischi in Iran, è iniziato il processo preliminare a Michael Jackson.."
"Stop! Ferma!"
"Cosa? I Queen o Michael Jackson?"
"Michael Jackson."
"Conny, non vorrai mica dirmi che tu lavori per quell'uomo vero?"

La mia bocca si contrasse in una smorfia a chiamare uomo qualcuno che abusava di bambini innocenti.
"Si Lightning. Ed è proprio di lui che ti vorrei parlare."
"Oh no Conny, mi dispiace immensamente, credimi, ma non penso di aver voglia di sentir parlare di un pedofilo."
"Lightning credimi, non è assolutamente come credi o come vogliono farti credere in televisione. Michael è la persona più buona che esista in questo mondo e ha bisogno di una mano. Lasciami almeno spiegare."
"Conny, forse non sono stata sufficientemente chiara. Non me ne frega un cazzo degli assurdi problemi di una pop star tanto milionaria quanto pervertita. Che marcisca all'inferno."


Mi alzai, lasciai una banconota da dieci dollari sul tavolo e girai le spalle per andarmene. Non avevo nessuna intenzione di ascoltarlo oltre. Quella specie di uomo che molestava i bambini stava male? Fatti suoi. Dalle mie parti si chiamava castigo divino, nessuno ne è esonerato.

"Ah si, è questo che pensi? Ti facevo molto più intelligente, ma soprattutto molto meno superficiale! E allora cosa avrebbe dovuto dire di te la gente quando ti facevi di cocaina e di chissà quale altra roba appena dieci anni fa? Pensavo che tu più di tutti avessi imparato a non giudicare le persone dalle apparenze!"
Urlava in piedi davanti al tavolino che avevo abbandonato. Era un colpo basso, che diavolo c'entrava la mia storia con quel cantante isterico? Io se avevo fatto del male a qualcuno, lo avevo fatto solamente a me stessa, era decisamente fuori luogo tirare in causa la mia vita per arrivare al suo scopo. Mi voltai e tornai indietro puntando un dito contro colui che fino a cinque minuti prima avevo ritenuto un amico. La rabbia mi si leggeva in volto e strinsi forte il pugno nell'altra mano per evitare di tremare dall'agitazione.

"Tu.. Tu.. Ma come ti permetti? Vattene al diavolo! Tu e il tuo caro amico Jackson! E se sei suo complice, allora che marciate all'inferno entrambi!"

Non fu decisamente quella che normalmente si considera una bella rimpatriata tra amici di vecchia data, ma le sue parole quella notte mi risuonavano nelle orecchie. Suonavano tanto forte da farmi male. Su una parte aveva ragione, stavo giudicando una persona dalle apparenze senza soffermarmi su nient altro, proprio come facevano con me le persone che mi incrociavano per strada a Madrid.
"Quella è malata" "E' un'eroinomane" "Avrà sicuramente anche l'AIDS, meglio starle lontano". Il ricordo di quelle illazioni, sussurrate nemmeno tanto a bassa voce, mi fece tremare e riaffiorò il pensiero di come ci si sente ad essere giudicati senza avere nemmeno avuto la possibilità di spiegare, di parlare, di sospirare. Io non ero come mi ero mostrata quel pomeriggio. Io non giudicavo. Io davo sempre una seconda possibilità a chiunque. Prima almeno.
Adesso mi ero trasformata in un essere orribile, in una terribile sputa-sentenzie, in una di quelle persone che tanto disprezzavo e che promettevo a me stessa di non diventare mai.
L'istinto di chiamare Conny fu più forte di me e del mio orgoglio, erano le due di notte e poco mi importava se lo avrei svegliato.

-P.. Pronto?-
-Conny, scusami. E' vero, sono stata una sciocca superficiale, io ho emesso la mia sentenza prima ancora di sentire i fatti, io..-
-Lightninig, stai tranquilla, l'importante è rendersene conto e rimediare.-
-Avanti, di cosa volevi parlarmi?-
-Non è il caso che ne parli adesso. Troviamoci domani che ti racconto tutto.-
-D'accordo Conny, ti ringrazio.-
-Lightning?-
-Si?-
-Magari cambiamo bar domani, non vorrei, nel caso di un'altra scenata, che ti facessero internare!-

Scoppiai in una risata che mi liberò da tutti i pensieri e riattaccai. Era sempre il mio Conny.

Una nuova sfida mi stava aspettando dietro l'angolo.

  
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