Kuronuma Aoba non era di quegli studenti particolarmente
famosi nell’Istituto, di quelli che in un modo o nell’altro vengono preceduti
dalla propria fama.
Il suo essere conosciuto, un po’ come la maggior parte
degli studenti dell’Accademia, era limitato alla sua classe e a qualche
compagno che poteva avere in quelle adiacenti.
«Dai, Yuki-chan, fatti coraggio!»
«M-Ma io veramente…»
«Yuki-chan, se non ti dai una mossa qualcun’altra si
dichiarerà al tuo posto! Forza!»
…E qualche ragazza sua coetanea, come quella che
occhieggiava l’entrata della classe 1-C dal corridoio con le due amiche intente
a spronarla alla dichiarazione che sembrava meditare già da qualche tempo.
Una delle due compagne, la meno timida delle due, sbuffò
spazientita: «Ora basta, vado a chiedere di farlo uscire. Tu preparati, eh
Yuki-chan?» prese posizione, avvicinandosi alla porta dell’aula, aperta per
l’intervallo.
Si affacciò leggermente, sbirciando all’interno e fermando
poi una ragazza che stava uscendo in quel momento in corridoio.
Le due compagne la videro annuire alle richieste
dell’amica e fare capolino con la testa nuovamente verso l’aula per richiamare
il compagno.
Poco dopo il suo: «Kuronuma-kun, ti cercano.», notarono il
ragazzo uscire dall’aula; la compagna – Shimizu – scambiò qualche parola con
lui, gesticolando, dopodiché videro Aoba puntare lo sguardo in loro direzione e
muovere qualche passo in quel senso.
Una volta che ebbe raggiunto la diretta interessata, le
due compagne si allontanarono per lasciar loro una certa privacy.
Aoba, una mano in tasca e l’altra lasciata lungo il
fianco, a dispetto dell’espressione cortese di chi rimane educatamente in
attesa l’unica cosa che pensò fu che sperava fosse una cosa veloce.
Non si trattava di imbarazzo: in realtà, la figura
tremante per l’emozione di doversi dichiarare, con il volto leggermente
arrossato, non lo smuoveva ad una maggiore cordialità.
Se avesse potuto, l’avrebbe liquidata lui stesso senza
nemmeno ascoltare, perché dichiarazioni come quella gli parevano sciocche,
inutili.
«Ecco, Kuronuma-kun… tu mi… piaci.» la sentì articolare a
fatica, imbarazzata.
Tra sé e sé, storse il naso; piacergli, che assurdità.
Quella ragazza sapeva a mala pena il suo cognome e il
nome, con un po’ di fortuna la data di nascita per quelle fissazioni tipiche
delle ragazze con roba come l’affinità del segno zodiacale.
A volte, anche con quelle precedenti a questa – non che
fosse un latin lover, anzi, ma semplicemente non era la prima – aveva avuto
l’impulso quasi irrefrenabile di rispondergli che certo, sarebbe uscito
volentieri con la lei del caso.
Ma avrebbe voluto aggiungere “casualmente”, che sarebbe
dipeso molto dal far combaciare gli impegni: che aveva una gang da mandare
avanti, persone che non avevano nemmeno una buona fama da incontrare.
Avrebbe anche voluto dire a quella ragazza – come a chi
c’era stata prima – che no, non aveva hobby particolari se non manipolare le
persone a proprio comodo e piacimento; che non era affatto un ragazzo gentile,
quello di cui professavano di essere innamorate.
Era uno che alle elementari aveva imparato che quando
qualcuno usa la forza su di te, è uno per cui molto spesso basta usare il
cervello; che dopotutto, l’apparenza ingannava eccome e per questo poteva
essere sfruttata a proprio vantaggio.
Lui era lo stesso ragazzino che si era vendicato del
fratello maggiore facendo scoppiare un incendio nella stanza, facendo sì che la
colpa venisse attribuita proprio al primogenito della famiglia, che loro padre
nel rimproverarlo attuasse la vera e propria rivincita pensata e desiderata da
Aoba stesso.
E poi aveva sorriso a quello stesso fratello e gli aveva
rivolto un: «La cosa importante è che il fratellone stia bene.»
«Quindi, se… se non c’è già un’altra ragazza che ti
piace…»
Come no.
Figurarsi se quella era innamorata di lui; se lo avesse
conosciuto, sarebbe scappata.
E non aveva la minima intenzione di prestarsi ad un gioco
così noioso.
Comunque, di lui si potevano dire moltissime cose, ma non
che fosse uno stupido, o uno sprovveduto; non avrebbe calato la maschera di studente
non perfetto, ma gentile e cortese con molti.
Era troppo comoda per rinunciarvi.
«Ti ringrazio, Aikawa-san.» pronunciò, rivolgendole un
sorriso pacato: «Però c’è già qualcuno che mi interessa anche se non è la mia
ragazza, e non voglio prendere in giro il tuo sentimento. Per questo,
preferisco dirtelo sinceramente.» spiegò.
Non c’era alcuna ragazza, anche se in un certo senso una
persona interessante al momento l’aveva sotto mano eccome.
Ma di certi dettagli non c’era affatto bisogno; voleva
solo tornarsene in classe.
«Oh, c-capisco.» disse lei, affrettandosi in un inchino
impacciato: «Ti ringrazio per la tua sincerità.» aggiunse quindi.
Lui accennò ad un inchino leggero solo col capo, lasciando
che la ragazza si allontanasse; solo a quel punto, quando fu sparita nel
corridoio con le amiche, si voltò facendo per tornare nella propria classe.
Nel tempo che impiegarono i pochi passi a coprire la
distanza per fargli nuovamente varcare la soglia, assunse per pochissimo
un’espressione che a scuola era sempre stato bene attento a non mostrare mai –
o a mostrare solo quando era più che sicuro di non essere notato da nessuno.
Fece schioccare le labbra seccato: «Che seccatura.» soffiò
piano, prima di tornare ad un’espressione placida, rientrando in aula.
«Sei sicuro, Kuronuma-kun?» sentì chiedere alla compagna
che in quel momento era tre file di banchi indietro rispetto a lui, di spalle e
intento a pulire la lavagna.
Si voltò in sua direzione, incurvando le labbra in un
sorriso leggero ma cortese, annuendo appena: «Per la terza volta, sì
Kitajima-san.» puntualizzò con tono palesemente scherzoso.
«Davvero non mi pesa, altrimenti non mi sarei offerto.»
assicurò quindi in aggiunta, per far sì che la ragazza finalmente si
tranquillizzasse decidendosi a tornare a casa prima di finire il suo turno
delle pulizie, lasciando il lavoro ad Aoba.
La ragazza gli sorrise lievemente di rimando, annuendo:
«In questo caso, ti ringrazio Kuronuma-kun.» pronunciò, recuperando la propria
cartella e avvicinandosi ad una delle due porte che collegavano la classe al
corridoio.
Già aperte dall’uscita dei compagni al suono dell’ultima
campanella, lei si soffermò sulla soglia: «Mi raccomando, quando ti servirà un
aiuto per qualcosa, non esitare a chiedere. Voglio ricambiare assolutamente.» aggiunse,
attendendo che lui annuisse per uscire definitivamente dopo aver chinato appena
il capo in saluto.
Quando non fu più in grado di sentire i passi nel
corridoio, fece un respiro profondo a metà fra un sospiro e uno sbuffo,
rilassando le spalle.
L’espressione pacata e gentile, con quel sorriso leggero,
aveva lasciato il posto ad una annoiata e fredda fin troppo repentinamente per
poter credere che si trattasse davvero di un’espressione sincera piuttosto che
fittizia.
Anche se forse, tutto si semplificava pensando alla
precedente come quella falsa che finalmente era stata calata come una maschera
troppo pesante per essere tenuta un’intera giornata.
Passò il cancellino sulla lavagna, pulendo una delle
ultime parti di gesso che davano forma a dei grafici matematici che li avevano
torturati l’ultima ora: «Quando mi servirà aiuto, eh?» ripeté fra sé e sé, lo
sguardo vuoto che sebbene fissato sulla superficie scura non aveva il minimo
interesse nel guardarla davvero.
Oh, era quasi toccato dall’immagine mentale di se stesso
che chiedeva a Kitajima-san aiuto per qualcosa; e cosa, poi? Gli appunti?
Giacché si prendeva il disturbo di giocare allo studente
modello, gli appunti tanto valeva prenderseli da solo. Almeno poteva essere
certo di capire cosa scriveva e, in caso contrario, avrebbe potuto prendersela
solo con se stesso.
Sistemò i gessetti ordinatamente nell’apposita scatola, e
mise il cancellino sulla parte in basso a destra della lavagna.
Occhieggiò la cattedra, notandovi delle tracce di polvere
bianca – proveniente dagli oggetti appena riordinati; mosse diversi passi,
scendendo dal piano leggermente sopraelevato dove si trovava la postazione
solitamente occupata dai docenti, fino a raggiungere il secchio precedentemente
riempito d’acqua.
Si chinò sulle ginocchia, la mancina che si appropriò del
panno inumidito già da prima e che guidò nuovamente nell’acqua ancora pulita,
la mano libera che tirò appena su la manica che rischiava altrimenti di
bagnarsi.
Sostò immobile in quella posizione per qualche secondo più
del necessario, lo sguardo chiaro fisso sull’acqua nel secchio senza che ci
fosse davvero nulla da guardare con tanto interesse.
Poi, lasciò scivolare fra le labbra uno sbuffo sarcastico:
«Sarà questo che chiamano stress scolastico?» sussurrò a se stesso, estraendo
il panno dall’acqua e strizzandolo con entrambe le mani.
Tornò sui suoi passi, andando a pulire la superficie
lignea della cattedra.
Era frequente, da qualche giorno, quel nervosismo che lo
prendeva senza un motivo preciso; aveva notato, tra le altre cose, che anche se
non si limitava all’ambiente scolastico, lì sembrava per certi versi maggiore.
Così come non gli era sfuggito il senso di sollievo o
calma che appariva in un guizzo improvviso quanto di breve durata quando era
fuori.
Specialmente con i Blue Square.
Aveva azzardato delle ipotesi, che finivano
inevitabilmente con il convogliare tutte in uno stesso punto: non era la scuola
a renderlo nervoso, non nell’accezione di compiti in classe, attività del club
e studio.
Era il contorno.
Erano quelle situazioni di cui per quel giorno aveva fatto il pieno; erano le persone che si avvicinavano senza un motivo, dicendo un “mi piaci” insensato e ipocrita.
Quelle a cui, senza eccezione per la ragazza di quella mattina, avrebbe voluto chiedere: “ti piace cosa?”, solo per metterle in difficoltà, vederle boccheggiare confuse senza trovare una risposta ed infine darne una così banale e scontata da essere prevedibile.
O anche le persone come Kitajima-san, che blateravano di
aiutare per una forma di gentilezza tanto stereotipata tra compagni di classe
da risultare nauseante.
Quella con cui lui si prendeva gioco di quegli stessi
compagni fingendosi il ragazzo gentile e cortese, quello affidabile sebbene un
po’ riservato.
«Tsk» fece schioccare le labbra seccato, dando l’ultima
passata di panno sulla cattedra per poi allontanarsene.
Tirò giù le maniche, raggiungendo il proprio banco per
recuperare la cartella; nel dirigersi verso l’uscita dell’aula usata prima da
Kitajima-san, allungò una mano per afferrare il panno usato e, passando accanto
al secchio, lo lasciò cadere di nuovo in acqua senza piegarsi per agevolarne il
movimento.
Varcando la soglia, si sentì inspiegabilmente persino più
irritato, mentre alle sue spalle il panno andava imbevendosi d’acqua fino a raggiungere
il fondo in metallo.
Non sapeva se fosse triste, preoccupante o seccante
rendersi conto che il proprio interesse verso il resto del mondo era minore di
quello per uno straccio vecchio, sporco e usato che affondava in un secchio di
acqua sudicia.
L’unico motivo per il quale si era fermato nel suo
procedere verso le scale che lo avrebbero portato al piano inferiore e,
conseguentemente, all’uscita della scuola una volta attraversato il cortile,
era stato l’aver notato la targa fuori dall’aula.
Nel riconoscere la sezione e l’anno cui appartenevano Anri
e Mikado, le labbra si erano naturalmente incurvate in un sorrisetto che non
aveva potuto fare altro che ampliarsi quando aveva sentito dei rumori
all’interno.
Specie perché a loro volta seguiti da un verso che era un
misto di frustrazione e sorpresa, in cui aveva riconosciuto la voce di
Ryuugamine Mikado, che difficilmente avrebbe potuto confondere con quella di
qualcun altro.
Si affacciò sulla soglia, individuando la figura del
senpai intento a raccogliere qualcosa da terra, che da lì non riusciva a
decifrare.
Si mosse abbastanza celermente, posando la cartella sul
banco al proprio fianco: «Serve una mano, senpai?» chiese, nel tono una
sfumatura di bonario divertimento.
Mikado si voltò, lo sguardo sorpreso dovuto alla presenza
inattesa dell’altro nella sua classe; scosse la testa, abbozzando un
sorrisetto: «No, Aoba-kun, grazie.» pronunciò, tornando ad occuparsi di quel
qualcosa che aveva lasciato cadere e che il compagno più giovane non riusciva a
vedere ancora.
Tuttavia – e probabilmente anche Mikado se lo aspettava –
Aoba non girò sui tacchi rivolgendogli un saluto e tornando a dirigersi verso
casa: al contrario, si avvicinò con pochi passi allo stesso Mikado, chinandosi
per aiutarlo a raccogliere quello che aveva tutta l’aria di essere la scatola
dei gessi.
Cosa che supponeva a giudicare dai suddetti oggetti sparsi
a terra, alcuni dei quali anche spezzati a metà dalla caduta probabilmente.
Mikado lo guardò perplesso per qualche secondo: «Ma avevo
detto che non c’era bisogno.»
«Lo so, ma tanto lo dici sempre. Ho pensato che a volte
forse devo ignorare quello che dici. O interpretarlo a modo mio.» diede come
semplice spiegazione, il tono divertito.
Mikado fece un sospiro, abbozzando poi nuovamente un sorriso
leggero, riprendendo a raccogliere i gessetti superstiti e la scatola per
contenerli, aiutato dal più giovane.
Fu lui stesso a rompere la fase di stallo creatasi quasi
subito – non era mai stato particolarmente a suo agio con le persone ed un
silenzio imbarazzante come collante fra sé e loro: «Come mai sei ancora qui a
quest’ora, Aoba-kun? Avevi le attività del club?» domandò, osservandolo di
sfuggita.
Aoba, alzandosi con in una mano alcuni dei gessi
recuperati e nell’altra la scatola, scosse la testa: «No, avevo il turno di
pulizie oggi.» replicò, mettendo il tutto sulla cattedra e in ordine,
aspettando che Mikado facesse lo stesso.
Non gli chiese se fosse lo stesso per lui, perché gli
sembrava ovvio: «Ti manca tanto per finire, senpai?» domandò invece.
Mikado occhieggiò velocemente la classe e scosse la testa:
«Devo solo sistemare il materiale nell’armadietto in fondo.» replicò
pensieroso; Aoba coprì allora con pochi passi la distanza da uno dei primi
banchi della fila centrale, sedendosi su di esso pur stando attento a non
poggiare i piedi sulla sedia.
Voltò la testa quanto bastava a poter osservare Mikado da
sopra la propria spalla: «Allora ti aspetto.» comunicò semplicemente, come se
fosse prassi.
Il più grande fece anche per rispondere, ma vide l’altro
voltare nuovamente la testa verso l’armadietto da lui stesso indicato l’attimo
prima, e ne dedusse che Aoba non lo avrebbe ascoltato comunque.
Perciò si limitò ad un sospiro, recuperando il materiale
in questione e avviandosi verso il fondo dell’aula.
Per tutto il tempo in cui lavorò, Aoba non disse granché;
dalla sua postazione, si limitava a fissare i movimenti di Mikado, i piedi che
penzolavano appena dondolando avanti e indietro. Approfittando di avere le
spalle del maggiore, Aoba aveva lasciato lentamente sparire l’espressione
sorridente che gli aveva rivolto, e il suo posto era stato preso da una
pensosa.
Francamente parlando, all’inizio Ryuugamine Mikado gli era
apparso uno come tanti.
Anzi no.
Persino molto più ingenuo, di uno come tanti, salvo poi
essere smentito anche piuttosto brutalmente da quanto avvenuto tempo addietro
in quella fabbrica dove si erano incontrati anche con il resto dei Blue Square.
Quell’episodio aveva sicuramente reso in qualche modo il
senpai più interessante, a livello di essere umano e aggiunto alla noia
naturale che Aoba provava verso le persone, poteva essere stato quel qualcosa
ad aver fatto sì che lui accettasse il famoso “patto” tra loro.
Ma gli sfuggiva qualcosa lo stesso, e si rivelava
abbastanza fastidiosa a volte.
Aggrottò appena le sopracciglia: Ryuugamine Mikado era
cosa, oltre il capo dei Dollars?
Una persona tutto sommato comune, si rispondeva.
Volendo passar sopra al fatto che a quanto pareva era
dotato di una doppia personalità tale che avrebbe fatto la gioia di parecchi
strizza cervelli – ma quello era un giudizio che, d’altra parte, comprendeva
anche lui stesso e che quindi non poteva essere fatto con accezione negativa
senza risultare piuttosto incoerente.
Eppure lui aveva la stessa attitudine nei confronti di
tutti quelli “comuni”, che lo annoiavano.
E la medesima – sebbene diversa da quei soggetti
classificati come noiosi – verso coloro che invece destavano il suo interesse
per un periodo più o meno breve.
Ma i modi di fare verso Ryuugamine Mikado, non erano gli
stessi verso Sonohara Anri, no?
Portò la mano fasciata un po’ più vicina al proprio viso, quasi dimentico del compagno più grande lì nella stessa stanza, fissandola come se dovesse dargli l’illuminazione.
Scosse la testa.
Sembro una ragazzina alla prima cotta, che cazzo., si
rimproverò mentalmente.
Dopotutto, il loro rapporto si basava sulla comodità per
entrambi. Stare a lambiccarsi il cervello sul perché o il come, non era nulla
che fosse necessario fare.
«Fa ancora male?» sentì pronunciare poco distante da sé,
alzando lo sguardo e ritrovandosi Mikado a pochi passi che lo fissava con
espressione seria, e forse una sfumatura di qualcos’altro – preoccupazione? –
negli occhi chiari.
Per una volta, l’aria confusa che mostrò non fu studiata,
ma sincera: «Eh?» pronunciò senza capire, mentre mentalmente si malediceva.
Non avrebbe davvero mai dovuto perdersi in ragionamenti,
almeno non con Mikado presente; aveva la sensazione che per un motivo o per
l’altro, non potesse mai essere una buona cosa.
«La mano. Ti fa ancora male?» gli sentì ripetere, senza
cambiare espressione.
Collegò finalmente tutti gli elementi e scosse la testa,
un sorrisetto a metà fra il divertito e qualcos’altro di non identificato che
gli incurvava le labbra.
«No, non mi fa male.» assicurò: «Finito di sistemare?»
cambiò discorso.
Ma a giudicare dallo sguardo di Mikado – che ricordava
vagamente quello di una mamma preoccupata e poco convinta da quello che le hai
appena detto – il più grande non aveva intenzione di assecondare quel repentino
e sospetto cambio d’argomento.
«Ho finito» replicò infatti, ma sbrigativamente: «Ma non
sono molto convinto, riguardo quella.» disse accennando alla mano.
Aoba non seppe se stupirsi per l’ennesima volta dei
cambiamenti repentini dell’altro, o se concentrarsi sul come recitare al meglio
la parte del compagno più giovane responsabile.
Sospirò, scegliendo una terza opzione che fino a quel
momento aveva raramente preso anche solo in considerazione con le persone
esterne ai Blue Square.
«Non mi fa male, davvero.» esordì: «E poi, avevo detto che
andava bene, no?» accennò, notando Mikado alzare un sopracciglio perplesso.
Il sorriso assunse una connotazione divertita: «Avevo
detto che andava bene, e che sarebbe stato il segno del patto che abbiamo
fatto, no? Perciò non te ne dovresti davvero preoccupare, giusto senpai?»
chiarì, studiandolo.
Portò la mano sul banco, dandosi una spinta quasi
impercettibile, di quelle che non fanno altro se non assecondare il movimento
nel rimettersi in piedi.
«Ma sono stato comunque io a procurarti la ferita, perciò
non dovresti parlare come se non fossero affari miei.» gli sentì pronunciare,
l’espressione in viso che somigliava più ad una contrariata ora.
Mentalmente, Aoba fischiò in ammirazione.
Oh oh, si disse, l’ho indispettito forse?
Probabilmente stava per azzardare; stava per fare una di
quelle cose stupide, o dettate dal sottovalutare Mikado, come quella che gli
aveva procurato la ferita al momento al centro della loro conversazione.
«Lo so, che me l’hai procurata tu. Esattamente come
ricordo che sempre tu l’hai medicata, ne senpai?» lo apostrofò,
occhieggiandolo.
«Ma a me sta bene. È una sorta di legame, giusto? Non
proprio “normale” forse, ma…» lasciò cadere, muovendo un passo verso l’altro.
Quasi quasi avvertiva già il dolore di qualcosa che si
conficcava più o meno violentemente in una parte del proprio corpo, mentre
mentalmente ripercorreva senza volerlo del tutto il dolore che la sua testa
aveva registrato dalla notte del famoso patto.
Doveva aver perso anche qualche residuo barlume di
lucidità in quell’occasione, per tirare tanto la corda sapendo quali potessero
essere le reazioni di Ryuugamine Mikado.
«Aoba-kun?» lo sentì incalzarlo, a metà fra il cercare di
capire dove volesse andare a parare e il perplesso di chi osserva qualcosa che
non riesce a registrare del tutto come delle intenzioni precise.
«Mh?» replicò lui, fermo.
«Sei vicino.»
«Lo so.» fu il primo scambio abbastanza ovvio; certo che
si era accorto di essere vicino, visto che il viso di Mikado era più grande rispetto
a quando se ne stava al proprio posto seduto sul banco.
«Non ti stai allontanando.»
«So anche questo.»
«Smettila di rispondere cose ovvie.» lo riprese Mikado,
una nota di leggero nervosismo nella voce. Aoba ridacchiò sommessamente quando
la notò.
«Senpai, sei così timido che se sono vicino come ora ti
senti a disagio?» lo prese bonariamente in giro – in realtà anche un po’
bastardo, ma non con la stessa cattiveria che aveva ampiamente dimostrato di
saper tirare fuori.
«Direi.» replicò Mikado, calcando quell’unica parola.
Sì, si disse.
Doveva proprio aver perso il poco senno che lo aveva reso
capace di intendere e di volere in quegli ultimi anni.
«Mh, mi dispiace.» pronunciò in un bisbiglio,
avvicinandosi tanto che sentì distintamente l’altro trattenere il fiato e
riprendere a respirare l’istante dopo, come se per un attimo avesse immaginato
cosa Aoba stesse cercando di fare avvicinandosi, e quello dopo avesse risolto
il tutto etichettandolo come “impossibile”.
O come qualcosa che non gli avrebbe comunque cambiato di
molto l’esistenza.
Ad Aoba, forse, serviva quello.
Nel chinarsi verso di lui non per baciarlo, ma deviando
verso la sua spalla, in realtà le labbra del moro le sfiorò comunque; ma non si
poteva nemmeno parlare di bacio, tanto era stato qualcosa di leggero, quasi
casuale ed involontario.
Arrivò invece a posare la fronte contro la spalla di
Mikado, un ridacchiare sommesso.
«Senpai» lo richiamò, il tono indecifrabile che poteva
sembrare tutto e niente, dipendendo completamente dal significato che Aoba gli
attribuiva: «quella sera, a quel patto, ti avevo risposto?»
Tanaka Tarou: >Mi allontano un attimo dal computer,
torno fra un po’, lesse il proprio messaggio appena inviato sulla
chat dei Dollars, adocchiando brevemente anche le risposte di Kanra e
Setton-san che arrivarono poco dopo.
In realtà non aveva da fare.
Si lasciò cadere all’indietro, andando a sdraiarsi
direttamente sul tatami, lo sguardo al soffitto.
Ripensava alle parole di Aoba – non si soffermava su
quell’accenno di contatto che c’era stato, perché in primis non riusciva a
capire se fosse stato dovuto alla disattenzione di Aoba quando voleva essere
solo uno scherzo, o se fosse stato invece completamente voluto ma senza la
volontà di approfondirlo e renderlo qualcosa di vagamente più simile ad un
bacio.
Gli atti seguente del kohai, però, quelli erano senz’altro
più chiari e al tempo stesso più preoccupanti, in qualche modo.
Continuava a tornargli in mente Aoba che si scostava da
lui, e gli dava le spalle per allontanarsi di qualche passo.
«Allora devo risponderti ora, giusto?» aveva detto, come
se fosse stata una dimenticanza e, già che c’erano, fosse opportuno rimediare.
Mikado non aveva avuto una bella sensazione in quel momento.
Non che Aoba avesse fatto qualcosa di particolare, oltre
dargli le spalle, eppure era stato come se qualcosa fosse stato fuori posto.
Cosa, non ne aveva avuto idea, né l’aveva tuttora.
Sapeva solo che poi il compagno più giovane si era voltato
in sua direzione, l’espressione che non era né il sorriso che di solito
rivolgeva a lui, Sonohara o Kida, né quello spietato che i compagni dei Blue
Square potevano vantare di saper ormai riconoscere al primo sguardo.
Era un incurvarsi di labbra un po’ sarcastico, un po’
arrogante, non malevolo ma nemmeno bonario; e c’era poi quella sfumatura lì,
che a Mikado non era piaciuta.
Somigliava troppo a qualcosa di cui non credeva Aoba
capace.
Somigliava a quel sorriso che una persona stanca di tutto
e di niente ti rivolge prima che accada qualcosa di irreparabile.
E poi Aoba si era abbassato, fino a toccare terra con un
ginocchio, in quella posa classica da cavaliere delle favole, la mano che
teneva sempre fasciata che era stata portata vicino al petto con fare formale e
perfetto nella sua interpretazione.
«Disponi pure di me come preferisci, Ryuugamine Mikado.»
aveva pronunciato, gli occhi azzurri che avevano cercato quelli del compagno
più grande con determinazione.
«Lo avevi… già detto quella sera, Aoba-kun.» gli fece
presente, cercando di smorzare la tensione palpabile nell’aria.
Ma Aoba, lui aveva semplicemente continuando a sorridere
alzandosi in piedi, recuperando la cartella ed avviandosi per varcare la soglia
dell’aula; e solo all’ultimo si era voltato verso di lui, occhieggiandolo da
sopra la propria spalla, la borsa nella mano sana.
«Quella sera parlavo al capo dei Dollars.» era stata
l’unica risposta prima che sparisse.
Mikado portò un braccio a coprire il viso, concedendosi un
lungo sospiro.
«Acchan, la cena è pronta!» sentì dire a sua madre, il
nomignolo inconfondibile.
Sbuffò appena, strascicando un udibile «Arrivo» in
risposta, senza troppa enfasi; nello stesso momento, vide il cellulare
illuminarsi e vibrare, entrambi segni di una chiamata che presto avrebbe fatto
risuonare la suoneria.
Lo prese al volo, riconoscendo sul display il numero di
uno dei compagni della gang e rispondendo alle prime due note della canzone, in
modo da non farsi sentire da sua madre.
Non per altro, ma non sapeva cos’era peggio tra la domanda
“chi era, tesoro?” o quella che sarebbe seguita al suo tentativo di non
raccontarle della gang, tradotta in un “guarda che sono stata giovane anch’io,
so come funziona tra voi ragazzi”.
Ecco, meglio evitare.
La conversazione non durò a lungo, il tempo di farsi
passare la comunicazione e dare un paio di disposizioni; stava per
riagganciare, quando dall’altra parte sentì un: «Aoba, senti, ma questa cosa
del gemellaggio con i Dollars è davvero un bene?» perplesso e intimidito al
tempo stesso.
Non volle perderci dietro troppo tempo, seccato già dalla
semplice domanda in sé: «A chi non sta bene se ne può anche andare. Ti saluto,
ho da fare.» replicò bruscamente, chiudendo la chiamata e lanciando il
cellulare sul materasso.
Si avvicinò alla porta, aprendola e uscendo dalla stanza,
richiudendosela alle spalle.
Prese a scendere le scale, mentre il profumo della cena
preparata da sua madre – quella sera era il suo turno – lo raggiungeva già lì a
metà strada.
Sedette a tavola con lei, i piatti già serviti: augurò un
«Buon appetito» ricambiato quasi subito dalla donna, fissando poi l’omelette
che c’era nel piatto con abbondanti dosi di ketchup.
Senza contare le altresì abbondanti dimensioni
dell’omelette.
Alzò lo sguardo su sua madre: «…Stiamo festeggiando
qualcosa?» domandò perplesso, vedendola sorridere, probabilmente compiaciuta
dal fatto che avesse notato subito il particolare – tra l’altro, era
impossibile non notarlo visto che poco mancava che l’omelette fosse più grande
della sua testa.
Ma questo evitò di dirglielo.
«Festeggiamo la tua entrata alla Raira.»
«…Mamma, ci vado da mesi alla Raira.» le fece notare,
ancor più perplesso; ma il sorriso che in quel momento aveva sua madre, era
quello che aveva imparato a riconoscere come l’espressione dell’allegria di
quando otteneva qualcosa per cui aveva lavorato tanto, o sperato per lungo
tempo.
«Quella ufficiale. Ma ultimamente ho notato che sembri più
felice, Acchan. L’altro giorno, mentre andavo al lavoro ti ho visto con un
compagno di scuola. Sembravi così contento, che mi sono detta: “oh, finalmente
Acchan si è trovato un amico con cui esce e sorride in questo modo”. Perciò,
festeggiamo!» concluse, con l’aria entusiasta di una bambina.
Facendo mente locale mentre parlava, pensò che l’unico a
cui potesse riferirsi sua madre fosse Mikado e questo lo portò ad abbassare lo
sguardo sull’omelette formato maxi, dedicandosi ad essa mentre qualcosa di
pericolosamente simile ad un broncio scocciato si formava sul suo viso.
«Mamma, a sentire te sembra che tu mi stia immaginando con
gli amichetti del bosco, come li chiamavi quando andavo all’asilo.» rimbeccò
burbero, facendola ridere.
Un amico?
Si diede mentalmente del cretino; sarebbe finita male, se
non stava attento.
Ryuugamine Mikado a quanto sembrava aveva persino la
capacità di metterlo in mezzo a cose come quella, indipendentemente dalla sua
abitudine a recitare la parte del ragazzo perfetto persino con sua madre.
Due parole dall’autrice
Allora, innanzitutto i disclaimer: i personaggi non sono miei, ma dei rispettivi autori, e non sono qui utilizzati per scopo di lucro.
Riguardo i personaggi, di Aoba si sa quel poco che le
novel ci hanno fornito (di cui peraltro io ho letto solo tre capitoli in cui è
presente, non so se ce ne fossero altri >_<); l’appuntamento a cui la
mamma di Aoba fa riferimento è appunto accennato in uno di questi tre.
La mamma in questione, tra l’altro, ha una
caratterizzazione completamente inventata, non avendone mai letto nulla,
nemmeno una battuta striminzita; tra l’altro, ce la vedevo troppo a fare
omelette giganti e a chiamarlo “Acchan” XD
Riguardo i pareri personali, non sono smaniosa per questa
shot: era partita in un modo, è finita totalmente in un altro, e non sono
nemmeno sicura che sia classificabile come “decente”; in ogni caso, a chi legge
il giudizio, no?
Ringrazio chi ha commentato la Izaya/Kida (Kagome,
kagome: ora chi c’è dietro?), ossia Sophie_, angelyuzu e Litachan <3
Concludo con la dedica di questa shot: senpai, a me fa un
po’ cagare, ma spero che a te piaccia abbastanza ;__;”