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Autore: Shichan    02/06/2010    2 recensioni
[Durarara!! - AobaMikado]
Non sapeva se fosse triste, preoccupante o seccante rendersi conto che il proprio interesse verso il resto del mondo era minore di quello per uno straccio vecchio, sporco e usato che affondava in un secchio di acqua sudicia.
[Spoiler della Light Novel per il personaggio di Aoba][Shonen-ai leggerissimo]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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I can see through you

Kuronuma Aoba non era di quegli studenti particolarmente famosi nell’Istituto, di quelli che in un modo o nell’altro vengono preceduti dalla propria fama.

Il suo essere conosciuto, un po’ come la maggior parte degli studenti dell’Accademia, era limitato alla sua classe e a qualche compagno che poteva avere in quelle adiacenti.

«Dai, Yuki-chan, fatti coraggio!»

«M-Ma io veramente…»

«Yuki-chan, se non ti dai una mossa qualcun’altra si dichiarerà al tuo posto! Forza!»

…E qualche ragazza sua coetanea, come quella che occhieggiava l’entrata della classe 1-C dal corridoio con le due amiche intente a spronarla alla dichiarazione che sembrava meditare già da qualche tempo.

Una delle due compagne, la meno timida delle due, sbuffò spazientita: «Ora basta, vado a chiedere di farlo uscire. Tu preparati, eh Yuki-chan?» prese posizione, avvicinandosi alla porta dell’aula, aperta per l’intervallo.

Si affacciò leggermente, sbirciando all’interno e fermando poi una ragazza che stava uscendo in quel momento in corridoio.

Le due compagne la videro annuire alle richieste dell’amica e fare capolino con la testa nuovamente verso l’aula per richiamare il compagno.

Poco dopo il suo: «Kuronuma-kun, ti cercano.», notarono il ragazzo uscire dall’aula; la compagna – Shimizu – scambiò qualche parola con lui, gesticolando, dopodiché videro Aoba puntare lo sguardo in loro direzione e muovere qualche passo in quel senso.

Una volta che ebbe raggiunto la diretta interessata, le due compagne si allontanarono per lasciar loro una certa privacy.

Aoba, una mano in tasca e l’altra lasciata lungo il fianco, a dispetto dell’espressione cortese di chi rimane educatamente in attesa l’unica cosa che pensò fu che sperava fosse una cosa veloce.

Non si trattava di imbarazzo: in realtà, la figura tremante per l’emozione di doversi dichiarare, con il volto leggermente arrossato, non lo smuoveva ad una maggiore cordialità.

Se avesse potuto, l’avrebbe liquidata lui stesso senza nemmeno ascoltare, perché dichiarazioni come quella gli parevano sciocche, inutili.

«Ecco, Kuronuma-kun… tu mi… piaci.» la sentì articolare a fatica, imbarazzata.

Tra sé e sé, storse il naso; piacergli, che assurdità.

Quella ragazza sapeva a mala pena il suo cognome e il nome, con un po’ di fortuna la data di nascita per quelle fissazioni tipiche delle ragazze con roba come l’affinità del segno zodiacale.

A volte, anche con quelle precedenti a questa – non che fosse un latin lover, anzi, ma semplicemente non era la prima – aveva avuto l’impulso quasi irrefrenabile di rispondergli che certo, sarebbe uscito volentieri con la lei del caso.

Ma avrebbe voluto aggiungere “casualmente”, che sarebbe dipeso molto dal far combaciare gli impegni: che aveva una gang da mandare avanti, persone che non avevano nemmeno una buona fama da incontrare.

Avrebbe anche voluto dire a quella ragazza – come a chi c’era stata prima – che no, non aveva hobby particolari se non manipolare le persone a proprio comodo e piacimento; che non era affatto un ragazzo gentile, quello di cui professavano di essere innamorate.

Era uno che alle elementari aveva imparato che quando qualcuno usa la forza su di te, è uno per cui molto spesso basta usare il cervello; che dopotutto, l’apparenza ingannava eccome e per questo poteva essere sfruttata a proprio vantaggio.

Lui era lo stesso ragazzino che si era vendicato del fratello maggiore facendo scoppiare un incendio nella stanza, facendo sì che la colpa venisse attribuita proprio al primogenito della famiglia, che loro padre nel rimproverarlo attuasse la vera e propria rivincita pensata e desiderata da Aoba stesso.

E poi aveva sorriso a quello stesso fratello e gli aveva rivolto un: «La cosa importante è che il fratellone stia bene.»

«Quindi, se… se non c’è già un’altra ragazza che ti piace…»

Come no.

Figurarsi se quella era innamorata di lui; se lo avesse conosciuto, sarebbe scappata.

E non aveva la minima intenzione di prestarsi ad un gioco così noioso.

Comunque, di lui si potevano dire moltissime cose, ma non che fosse uno stupido, o uno sprovveduto; non avrebbe calato la maschera di studente non perfetto, ma gentile e cortese con molti.

Era troppo comoda per rinunciarvi.

«Ti ringrazio, Aikawa-san.» pronunciò, rivolgendole un sorriso pacato: «Però c’è già qualcuno che mi interessa anche se non è la mia ragazza, e non voglio prendere in giro il tuo sentimento. Per questo, preferisco dirtelo sinceramente.» spiegò.

Non c’era alcuna ragazza, anche se in un certo senso una persona interessante al momento l’aveva sotto mano eccome.

Ma di certi dettagli non c’era affatto bisogno; voleva solo tornarsene in classe.

«Oh, c-capisco.» disse lei, affrettandosi in un inchino impacciato: «Ti ringrazio per la tua sincerità.» aggiunse quindi.

Lui accennò ad un inchino leggero solo col capo, lasciando che la ragazza si allontanasse; solo a quel punto, quando fu sparita nel corridoio con le amiche, si voltò facendo per tornare nella propria classe.

Nel tempo che impiegarono i pochi passi a coprire la distanza per fargli nuovamente varcare la soglia, assunse per pochissimo un’espressione che a scuola era sempre stato bene attento a non mostrare mai – o a mostrare solo quando era più che sicuro di non essere notato da nessuno.

Fece schioccare le labbra seccato: «Che seccatura.» soffiò piano, prima di tornare ad un’espressione placida, rientrando in aula.

 

 

«Sei sicuro, Kuronuma-kun?» sentì chiedere alla compagna che in quel momento era tre file di banchi indietro rispetto a lui, di spalle e intento a pulire la lavagna.

Si voltò in sua direzione, incurvando le labbra in un sorriso leggero ma cortese, annuendo appena: «Per la terza volta, sì Kitajima-san.» puntualizzò con tono palesemente scherzoso.

«Davvero non mi pesa, altrimenti non mi sarei offerto.» assicurò quindi in aggiunta, per far sì che la ragazza finalmente si tranquillizzasse decidendosi a tornare a casa prima di finire il suo turno delle pulizie, lasciando il lavoro ad Aoba.

La ragazza gli sorrise lievemente di rimando, annuendo: «In questo caso, ti ringrazio Kuronuma-kun.» pronunciò, recuperando la propria cartella e avvicinandosi ad una delle due porte che collegavano la classe al corridoio.

Già aperte dall’uscita dei compagni al suono dell’ultima campanella, lei si soffermò sulla soglia: «Mi raccomando, quando ti servirà un aiuto per qualcosa, non esitare a chiedere. Voglio ricambiare assolutamente.» aggiunse, attendendo che lui annuisse per uscire definitivamente dopo aver chinato appena il capo in saluto.

Quando non fu più in grado di sentire i passi nel corridoio, fece un respiro profondo a metà fra un sospiro e uno sbuffo, rilassando le spalle.

L’espressione pacata e gentile, con quel sorriso leggero, aveva lasciato il posto ad una annoiata e fredda fin troppo repentinamente per poter credere che si trattasse davvero di un’espressione sincera piuttosto che fittizia.

Anche se forse, tutto si semplificava pensando alla precedente come quella falsa che finalmente era stata calata come una maschera troppo pesante per essere tenuta un’intera giornata.

Passò il cancellino sulla lavagna, pulendo una delle ultime parti di gesso che davano forma a dei grafici matematici che li avevano torturati l’ultima ora: «Quando mi servirà aiuto, eh?» ripeté fra sé e sé, lo sguardo vuoto che sebbene fissato sulla superficie scura non aveva il minimo interesse nel guardarla davvero.

Oh, era quasi toccato dall’immagine mentale di se stesso che chiedeva a Kitajima-san aiuto per qualcosa; e cosa, poi? Gli appunti?

Giacché si prendeva il disturbo di giocare allo studente modello, gli appunti tanto valeva prenderseli da solo. Almeno poteva essere certo di capire cosa scriveva e, in caso contrario, avrebbe potuto prendersela solo con se stesso.

Sistemò i gessetti ordinatamente nell’apposita scatola, e mise il cancellino sulla parte in basso a destra della lavagna.

Occhieggiò la cattedra, notandovi delle tracce di polvere bianca – proveniente dagli oggetti appena riordinati; mosse diversi passi, scendendo dal piano leggermente sopraelevato dove si trovava la postazione solitamente occupata dai docenti, fino a raggiungere il secchio precedentemente riempito d’acqua.

Si chinò sulle ginocchia, la mancina che si appropriò del panno inumidito già da prima e che guidò nuovamente nell’acqua ancora pulita, la mano libera che tirò appena su la manica che rischiava altrimenti di bagnarsi.

Sostò immobile in quella posizione per qualche secondo più del necessario, lo sguardo chiaro fisso sull’acqua nel secchio senza che ci fosse davvero nulla da guardare con tanto interesse.

Poi, lasciò scivolare fra le labbra uno sbuffo sarcastico: «Sarà questo che chiamano stress scolastico?» sussurrò a se stesso, estraendo il panno dall’acqua e strizzandolo con entrambe le mani.

Tornò sui suoi passi, andando a pulire la superficie lignea della cattedra.

Era frequente, da qualche giorno, quel nervosismo che lo prendeva senza un motivo preciso; aveva notato, tra le altre cose, che anche se non si limitava all’ambiente scolastico, lì sembrava per certi versi maggiore.

Così come non gli era sfuggito il senso di sollievo o calma che appariva in un guizzo improvviso quanto di breve durata quando era fuori.

Specialmente con i Blue Square.

Aveva azzardato delle ipotesi, che finivano inevitabilmente con il convogliare tutte in uno stesso punto: non era la scuola a renderlo nervoso, non nell’accezione di compiti in classe, attività del club e studio.

Era il contorno.

Erano quelle situazioni di cui per quel giorno aveva fatto il pieno; erano le persone che si avvicinavano senza un motivo, dicendo un “mi piaci” insensato e ipocrita.

Quelle a cui, senza eccezione per la ragazza di quella mattina, avrebbe voluto chiedere: “ti piace cosa?”, solo per metterle in difficoltà, vederle boccheggiare confuse senza trovare una risposta ed infine darne una così banale e scontata da essere prevedibile.

O anche le persone come Kitajima-san, che blateravano di aiutare per una forma di gentilezza tanto stereotipata tra compagni di classe da risultare nauseante.

Quella con cui lui si prendeva gioco di quegli stessi compagni fingendosi il ragazzo gentile e cortese, quello affidabile sebbene un po’ riservato.

«Tsk» fece schioccare le labbra seccato, dando l’ultima passata di panno sulla cattedra per poi allontanarsene.

Tirò giù le maniche, raggiungendo il proprio banco per recuperare la cartella; nel dirigersi verso l’uscita dell’aula usata prima da Kitajima-san, allungò una mano per afferrare il panno usato e, passando accanto al secchio, lo lasciò cadere di nuovo in acqua senza piegarsi per agevolarne il movimento.

Varcando la soglia, si sentì inspiegabilmente persino più irritato, mentre alle sue spalle il panno andava imbevendosi d’acqua fino a raggiungere il fondo in metallo.

Non sapeva se fosse triste, preoccupante o seccante rendersi conto che il proprio interesse verso il resto del mondo era minore di quello per uno straccio vecchio, sporco e usato che affondava in un secchio di acqua sudicia.

 

 

L’unico motivo per il quale si era fermato nel suo procedere verso le scale che lo avrebbero portato al piano inferiore e, conseguentemente, all’uscita della scuola una volta attraversato il cortile, era stato l’aver notato la targa fuori dall’aula.

Nel riconoscere la sezione e l’anno cui appartenevano Anri e Mikado, le labbra si erano naturalmente incurvate in un sorrisetto che non aveva potuto fare altro che ampliarsi quando aveva sentito dei rumori all’interno.

Specie perché a loro volta seguiti da un verso che era un misto di frustrazione e sorpresa, in cui aveva riconosciuto la voce di Ryuugamine Mikado, che difficilmente avrebbe potuto confondere con quella di qualcun altro.

Si affacciò sulla soglia, individuando la figura del senpai intento a raccogliere qualcosa da terra, che da lì non riusciva a decifrare.

Si mosse abbastanza celermente, posando la cartella sul banco al proprio fianco: «Serve una mano, senpai?» chiese, nel tono una sfumatura di bonario divertimento.

Mikado si voltò, lo sguardo sorpreso dovuto alla presenza inattesa dell’altro nella sua classe; scosse la testa, abbozzando un sorrisetto: «No, Aoba-kun, grazie.» pronunciò, tornando ad occuparsi di quel qualcosa che aveva lasciato cadere e che il compagno più giovane non riusciva a vedere ancora.

Tuttavia – e probabilmente anche Mikado se lo aspettava – Aoba non girò sui tacchi rivolgendogli un saluto e tornando a dirigersi verso casa: al contrario, si avvicinò con pochi passi allo stesso Mikado, chinandosi per aiutarlo a raccogliere quello che aveva tutta l’aria di essere la scatola dei gessi.

Cosa che supponeva a giudicare dai suddetti oggetti sparsi a terra, alcuni dei quali anche spezzati a metà dalla caduta probabilmente.

Mikado lo guardò perplesso per qualche secondo: «Ma avevo detto che non c’era bisogno.»

«Lo so, ma tanto lo dici sempre. Ho pensato che a volte forse devo ignorare quello che dici. O interpretarlo a modo mio.» diede come semplice spiegazione, il tono divertito.

Mikado fece un sospiro, abbozzando poi nuovamente un sorriso leggero, riprendendo a raccogliere i gessetti superstiti e la scatola per contenerli, aiutato dal più giovane.

Fu lui stesso a rompere la fase di stallo creatasi quasi subito – non era mai stato particolarmente a suo agio con le persone ed un silenzio imbarazzante come collante fra sé e loro: «Come mai sei ancora qui a quest’ora, Aoba-kun? Avevi le attività del club?» domandò, osservandolo di sfuggita.

Aoba, alzandosi con in una mano alcuni dei gessi recuperati e nell’altra la scatola, scosse la testa: «No, avevo il turno di pulizie oggi.» replicò, mettendo il tutto sulla cattedra e in ordine, aspettando che Mikado facesse lo stesso.

Non gli chiese se fosse lo stesso per lui, perché gli sembrava ovvio: «Ti manca tanto per finire, senpai?» domandò invece.

Mikado occhieggiò velocemente la classe e scosse la testa: «Devo solo sistemare il materiale nell’armadietto in fondo.» replicò pensieroso; Aoba coprì allora con pochi passi la distanza da uno dei primi banchi della fila centrale, sedendosi su di esso pur stando attento a non poggiare i piedi sulla sedia.

Voltò la testa quanto bastava a poter osservare Mikado da sopra la propria spalla: «Allora ti aspetto.» comunicò semplicemente, come se fosse prassi.

Il più grande fece anche per rispondere, ma vide l’altro voltare nuovamente la testa verso l’armadietto da lui stesso indicato l’attimo prima, e ne dedusse che Aoba non lo avrebbe ascoltato comunque.

Perciò si limitò ad un sospiro, recuperando il materiale in questione e avviandosi verso il fondo dell’aula.

Per tutto il tempo in cui lavorò, Aoba non disse granché; dalla sua postazione, si limitava a fissare i movimenti di Mikado, i piedi che penzolavano appena dondolando avanti e indietro. Approfittando di avere le spalle del maggiore, Aoba aveva lasciato lentamente sparire l’espressione sorridente che gli aveva rivolto, e il suo posto era stato preso da una pensosa.

Francamente parlando, all’inizio Ryuugamine Mikado gli era apparso uno come tanti.

Anzi no.

Persino molto più ingenuo, di uno come tanti, salvo poi essere smentito anche piuttosto brutalmente da quanto avvenuto tempo addietro in quella fabbrica dove si erano incontrati anche con il resto dei Blue Square.

Quell’episodio aveva sicuramente reso in qualche modo il senpai più interessante, a livello di essere umano e aggiunto alla noia naturale che Aoba provava verso le persone, poteva essere stato quel qualcosa ad aver fatto sì che lui accettasse il famoso “patto” tra loro.

Ma gli sfuggiva qualcosa lo stesso, e si rivelava abbastanza fastidiosa a volte.

Aggrottò appena le sopracciglia: Ryuugamine Mikado era cosa, oltre il capo dei Dollars?

Una persona tutto sommato comune, si rispondeva.

Volendo passar sopra al fatto che a quanto pareva era dotato di una doppia personalità tale che avrebbe fatto la gioia di parecchi strizza cervelli – ma quello era un giudizio che, d’altra parte, comprendeva anche lui stesso e che quindi non poteva essere fatto con accezione negativa senza risultare piuttosto incoerente.

Eppure lui aveva la stessa attitudine nei confronti di tutti quelli “comuni”, che lo annoiavano.

E la medesima – sebbene diversa da quei soggetti classificati come noiosi – verso coloro che invece destavano il suo interesse per un periodo più o meno breve.

Ma i modi di fare verso Ryuugamine Mikado, non erano gli stessi verso Sonohara Anri, no?

Portò la mano fasciata un po’ più vicina al proprio viso, quasi dimentico del compagno più grande lì nella stessa stanza, fissandola come se dovesse dargli l’illuminazione.

Scosse la testa.

Sembro una ragazzina alla prima cotta, che cazzo., si rimproverò mentalmente.

Dopotutto, il loro rapporto si basava sulla comodità per entrambi. Stare a lambiccarsi il cervello sul perché o il come, non era nulla che fosse necessario fare.

«Fa ancora male?» sentì pronunciare poco distante da sé, alzando lo sguardo e ritrovandosi Mikado a pochi passi che lo fissava con espressione seria, e forse una sfumatura di qualcos’altro – preoccupazione? – negli occhi chiari.

Per una volta, l’aria confusa che mostrò non fu studiata, ma sincera: «Eh?» pronunciò senza capire, mentre mentalmente si malediceva.

Non avrebbe davvero mai dovuto perdersi in ragionamenti, almeno non con Mikado presente; aveva la sensazione che per un motivo o per l’altro, non potesse mai essere una buona cosa.

«La mano. Ti fa ancora male?» gli sentì ripetere, senza cambiare espressione.

Collegò finalmente tutti gli elementi e scosse la testa, un sorrisetto a metà fra il divertito e qualcos’altro di non identificato che gli incurvava le labbra.

«No, non mi fa male.» assicurò: «Finito di sistemare?» cambiò discorso.

Ma a giudicare dallo sguardo di Mikado – che ricordava vagamente quello di una mamma preoccupata e poco convinta da quello che le hai appena detto – il più grande non aveva intenzione di assecondare quel repentino e sospetto cambio d’argomento.

«Ho finito» replicò infatti, ma sbrigativamente: «Ma non sono molto convinto, riguardo quella.» disse accennando alla mano.

Aoba non seppe se stupirsi per l’ennesima volta dei cambiamenti repentini dell’altro, o se concentrarsi sul come recitare al meglio la parte del compagno più giovane responsabile.

Sospirò, scegliendo una terza opzione che fino a quel momento aveva raramente preso anche solo in considerazione con le persone esterne ai Blue Square.

«Non mi fa male, davvero.» esordì: «E poi, avevo detto che andava bene, no?» accennò, notando Mikado alzare un sopracciglio perplesso.

Il sorriso assunse una connotazione divertita: «Avevo detto che andava bene, e che sarebbe stato il segno del patto che abbiamo fatto, no? Perciò non te ne dovresti davvero preoccupare, giusto senpai?» chiarì, studiandolo.

Portò la mano sul banco, dandosi una spinta quasi impercettibile, di quelle che non fanno altro se non assecondare il movimento nel rimettersi in piedi.

«Ma sono stato comunque io a procurarti la ferita, perciò non dovresti parlare come se non fossero affari miei.» gli sentì pronunciare, l’espressione in viso che somigliava più ad una contrariata ora.

Mentalmente, Aoba fischiò in ammirazione.

Oh oh, si disse, l’ho indispettito forse?

Probabilmente stava per azzardare; stava per fare una di quelle cose stupide, o dettate dal sottovalutare Mikado, come quella che gli aveva procurato la ferita al momento al centro della loro conversazione.

«Lo so, che me l’hai procurata tu. Esattamente come ricordo che sempre tu l’hai medicata, ne senpai?» lo apostrofò, occhieggiandolo.

«Ma a me sta bene. È una sorta di legame, giusto? Non proprio “normale” forse, ma…» lasciò cadere, muovendo un passo verso l’altro.

Quasi quasi avvertiva già il dolore di qualcosa che si conficcava più o meno violentemente in una parte del proprio corpo, mentre mentalmente ripercorreva senza volerlo del tutto il dolore che la sua testa aveva registrato dalla notte del famoso patto.

Doveva aver perso anche qualche residuo barlume di lucidità in quell’occasione, per tirare tanto la corda sapendo quali potessero essere le reazioni di Ryuugamine Mikado.

«Aoba-kun?» lo sentì incalzarlo, a metà fra il cercare di capire dove volesse andare a parare e il perplesso di chi osserva qualcosa che non riesce a registrare del tutto come delle intenzioni precise.

«Mh?» replicò lui, fermo.

«Sei vicino.»

«Lo so.» fu il primo scambio abbastanza ovvio; certo che si era accorto di essere vicino, visto che il viso di Mikado era più grande rispetto a quando se ne stava al proprio posto seduto sul banco.

«Non ti stai allontanando.»

«So anche questo.»

«Smettila di rispondere cose ovvie.» lo riprese Mikado, una nota di leggero nervosismo nella voce. Aoba ridacchiò sommessamente quando la notò.

«Senpai, sei così timido che se sono vicino come ora ti senti a disagio?» lo prese bonariamente in giro – in realtà anche un po’ bastardo, ma non con la stessa cattiveria che aveva ampiamente dimostrato di saper tirare fuori.

«Direi.» replicò Mikado, calcando quell’unica parola.

Sì, si disse.

Doveva proprio aver perso il poco senno che lo aveva reso capace di intendere e di volere in quegli ultimi anni.

«Mh, mi dispiace.» pronunciò in un bisbiglio, avvicinandosi tanto che sentì distintamente l’altro trattenere il fiato e riprendere a respirare l’istante dopo, come se per un attimo avesse immaginato cosa Aoba stesse cercando di fare avvicinandosi, e quello dopo avesse risolto il tutto etichettandolo come “impossibile”.

O come qualcosa che non gli avrebbe comunque cambiato di molto l’esistenza.

Ad Aoba, forse, serviva quello.

Nel chinarsi verso di lui non per baciarlo, ma deviando verso la sua spalla, in realtà le labbra del moro le sfiorò comunque; ma non si poteva nemmeno parlare di bacio, tanto era stato qualcosa di leggero, quasi casuale ed involontario.

Arrivò invece a posare la fronte contro la spalla di Mikado, un ridacchiare sommesso.

«Senpai» lo richiamò, il tono indecifrabile che poteva sembrare tutto e niente, dipendendo completamente dal significato che Aoba gli attribuiva: «quella sera, a quel patto, ti avevo risposto?»

 

 

Tanaka Tarou: >Mi allontano un attimo dal computer, torno fra un po’, lesse il proprio messaggio appena inviato sulla chat dei Dollars, adocchiando brevemente anche le risposte di Kanra e Setton-san che arrivarono poco dopo.

In realtà non aveva da fare.

Si lasciò cadere all’indietro, andando a sdraiarsi direttamente sul tatami, lo sguardo al soffitto.

Ripensava alle parole di Aoba – non si soffermava su quell’accenno di contatto che c’era stato, perché in primis non riusciva a capire se fosse stato dovuto alla disattenzione di Aoba quando voleva essere solo uno scherzo, o se fosse stato invece completamente voluto ma senza la volontà di approfondirlo e renderlo qualcosa di vagamente più simile ad un bacio.

Gli atti seguente del kohai, però, quelli erano senz’altro più chiari e al tempo stesso più preoccupanti, in qualche modo.

Continuava a tornargli in mente Aoba che si scostava da lui, e gli dava le spalle per allontanarsi di qualche passo.

«Allora devo risponderti ora, giusto?» aveva detto, come se fosse stata una dimenticanza e, già che c’erano, fosse opportuno rimediare. Mikado non aveva avuto una bella sensazione in quel momento.

Non che Aoba avesse fatto qualcosa di particolare, oltre dargli le spalle, eppure era stato come se qualcosa fosse stato fuori posto.

Cosa, non ne aveva avuto idea, né l’aveva tuttora.

Sapeva solo che poi il compagno più giovane si era voltato in sua direzione, l’espressione che non era né il sorriso che di solito rivolgeva a lui, Sonohara o Kida, né quello spietato che i compagni dei Blue Square potevano vantare di saper ormai riconoscere al primo sguardo.

Era un incurvarsi di labbra un po’ sarcastico, un po’ arrogante, non malevolo ma nemmeno bonario; e c’era poi quella sfumatura lì, che a Mikado non era piaciuta.

Somigliava troppo a qualcosa di cui non credeva Aoba capace.

Somigliava a quel sorriso che una persona stanca di tutto e di niente ti rivolge prima che accada qualcosa di irreparabile.

E poi Aoba si era abbassato, fino a toccare terra con un ginocchio, in quella posa classica da cavaliere delle favole, la mano che teneva sempre fasciata che era stata portata vicino al petto con fare formale e perfetto nella sua interpretazione.

«Disponi pure di me come preferisci, Ryuugamine Mikado.» aveva pronunciato, gli occhi azzurri che avevano cercato quelli del compagno più grande con determinazione.

«Lo avevi… già detto quella sera, Aoba-kun.» gli fece presente, cercando di smorzare la tensione palpabile nell’aria.

Ma Aoba, lui aveva semplicemente continuando a sorridere alzandosi in piedi, recuperando la cartella ed avviandosi per varcare la soglia dell’aula; e solo all’ultimo si era voltato verso di lui, occhieggiandolo da sopra la propria spalla, la borsa nella mano sana.

«Quella sera parlavo al capo dei Dollars.» era stata l’unica risposta prima che sparisse.

Mikado portò un braccio a coprire il viso, concedendosi un lungo sospiro.

 

 

«Acchan, la cena è pronta!» sentì dire a sua madre, il nomignolo inconfondibile.

Sbuffò appena, strascicando un udibile «Arrivo» in risposta, senza troppa enfasi; nello stesso momento, vide il cellulare illuminarsi e vibrare, entrambi segni di una chiamata che presto avrebbe fatto risuonare la suoneria.

Lo prese al volo, riconoscendo sul display il numero di uno dei compagni della gang e rispondendo alle prime due note della canzone, in modo da non farsi sentire da sua madre.

Non per altro, ma non sapeva cos’era peggio tra la domanda “chi era, tesoro?” o quella che sarebbe seguita al suo tentativo di non raccontarle della gang, tradotta in un “guarda che sono stata giovane anch’io, so come funziona tra voi ragazzi”.

Ecco, meglio evitare.

La conversazione non durò a lungo, il tempo di farsi passare la comunicazione e dare un paio di disposizioni; stava per riagganciare, quando dall’altra parte sentì un: «Aoba, senti, ma questa cosa del gemellaggio con i Dollars è davvero un bene?» perplesso e intimidito al tempo stesso.

Non volle perderci dietro troppo tempo, seccato già dalla semplice domanda in sé: «A chi non sta bene se ne può anche andare. Ti saluto, ho da fare.» replicò bruscamente, chiudendo la chiamata e lanciando il cellulare sul materasso.

Si avvicinò alla porta, aprendola e uscendo dalla stanza, richiudendosela alle spalle.

Prese a scendere le scale, mentre il profumo della cena preparata da sua madre – quella sera era il suo turno – lo raggiungeva già lì a metà strada.

Sedette a tavola con lei, i piatti già serviti: augurò un «Buon appetito» ricambiato quasi subito dalla donna, fissando poi l’omelette che c’era nel piatto con abbondanti dosi di ketchup.

Senza contare le altresì abbondanti dimensioni dell’omelette.

Alzò lo sguardo su sua madre: «…Stiamo festeggiando qualcosa?» domandò perplesso, vedendola sorridere, probabilmente compiaciuta dal fatto che avesse notato subito il particolare – tra l’altro, era impossibile non notarlo visto che poco mancava che l’omelette fosse più grande della sua testa.

Ma questo evitò di dirglielo.

«Festeggiamo la tua entrata alla Raira.»

«…Mamma, ci vado da mesi alla Raira.» le fece notare, ancor più perplesso; ma il sorriso che in quel momento aveva sua madre, era quello che aveva imparato a riconoscere come l’espressione dell’allegria di quando otteneva qualcosa per cui aveva lavorato tanto, o sperato per lungo tempo.

«Quella ufficiale. Ma ultimamente ho notato che sembri più felice, Acchan. L’altro giorno, mentre andavo al lavoro ti ho visto con un compagno di scuola. Sembravi così contento, che mi sono detta: “oh, finalmente Acchan si è trovato un amico con cui esce e sorride in questo modo”. Perciò, festeggiamo!» concluse, con l’aria entusiasta di una bambina.

Facendo mente locale mentre parlava, pensò che l’unico a cui potesse riferirsi sua madre fosse Mikado e questo lo portò ad abbassare lo sguardo sull’omelette formato maxi, dedicandosi ad essa mentre qualcosa di pericolosamente simile ad un broncio scocciato si formava sul suo viso.

«Mamma, a sentire te sembra che tu mi stia immaginando con gli amichetti del bosco, come li chiamavi quando andavo all’asilo.» rimbeccò burbero, facendola ridere.

Un amico?

Si diede mentalmente del cretino; sarebbe finita male, se non stava attento.

Ryuugamine Mikado a quanto sembrava aveva persino la capacità di metterlo in mezzo a cose come quella, indipendentemente dalla sua abitudine a recitare la parte del ragazzo perfetto persino con sua madre.

 

 

Due parole dall’autrice

 

Allora, innanzitutto i disclaimer: i personaggi non sono miei, ma dei rispettivi autori, e non sono qui utilizzati per scopo di lucro.

Riguardo i personaggi, di Aoba si sa quel poco che le novel ci hanno fornito (di cui peraltro io ho letto solo tre capitoli in cui è presente, non so se ce ne fossero altri >_<); l’appuntamento a cui la mamma di Aoba fa riferimento è appunto accennato in uno di questi tre.

La mamma in questione, tra l’altro, ha una caratterizzazione completamente inventata, non avendone mai letto nulla, nemmeno una battuta striminzita; tra l’altro, ce la vedevo troppo a fare omelette giganti e a chiamarlo “Acchan” XD

 

Riguardo i pareri personali, non sono smaniosa per questa shot: era partita in un modo, è finita totalmente in un altro, e non sono nemmeno sicura che sia classificabile come “decente”; in ogni caso, a chi legge il giudizio, no?

 

Ringrazio chi ha commentato la Izaya/Kida (Kagome, kagome: ora chi c’è dietro?), ossia Sophie_, angelyuzu e Litachan <3

 

Concludo con la dedica di questa shot: senpai, a me fa un po’ cagare, ma spero che a te piaccia abbastanza ;__;”

   
 
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