Salve!
Finalmente mi decido
a pubblicare questa creaturina su EFP! L'ho scritta l'anno scorso e finita ad inizio anno - manca solo l'epilogo che ancora non ho
buttato giù, ma prima o poi verrà fuori! Spero sia di vostro gradimento, sono
molto affezionata a questa storia. :) Non vi chiedo
clemenza ma voglio sincerità, è un lavoro che ho portato avanti in due anni e
ci ho messo l'anima, per qualsiasi cosa, discrepanza, orrore, schifezza... beh,
fatemelo sapere.
Durante la
pubblicazione de La Vita Nova (titolo che ho
gentilmente preso in concessione dal Sommo Poeta Dante!) continuerò a scriverne
un'altra (senza pubblicarla, per ora), sempre sul nostro Fantasmone preferito (oltre finire le altre mille
mila fanfiction che ho attualmente in corso su questo
sito), un po' più contorta di questa e che mi sta facendo dannare et
deliziare... Spero di finirla prima della fine del mondo! XD
Prima di augurarvi
buona lettura vorrei ringraziare chi conosce già questa cosa, chi mi ha
supportato per mesi e chi sta ancora aspettando l'epilogo... Voi
sapete! :P
Ci si legge la
settimana prossima, con il primo vero capitolo!
Saluti,
Marta.
La Vita Nova.
Prologo.
La caccia alle
streghe era finita da tempo, ma le superstizioni sono
sempre state dure a morire.
Nella tradizione
popolare le donne con occhi verdi e capelli rossi erano considerate spesso e
volentieri delle streghe. Donne capaci di ammaliare, di incantare con un solo
sguardo, di creare strani intrugli magici che potevano guarire così come
uccidere.
E con quello
sguardo ammaliatore, l’espressione di chi la sapeva lunga e quel colore del
diavolo che le infiammava il volto, neanche lei era esonerata da quelle stupide
credenze. Non passava giorno in cui non ricevesse occhiate scettiche e
superstiziose, di persone che temevano anche solo incrociare il suo vivido
sguardo per paura che si vendicasse con qualche fattura od
incantesimo; le madri non volevano che i propri figli si avvicinassero a lei,
mentre si esibiva nei suoi piccoli spettacoli di strada per racimolare qualche
soldo e campare come poteva. Chi avrebbe mai voluto avere a che fare con una
figlia del diavolo, se non altri suoi pari? Però, com’erano curiosi quegli
individui che andavano da lei per comprare i suoi medicinali di erbe balsamiche
ed esotiche e a farsi leggere il futuro, sempre scettici quando si trattava di
una lettura buia ed oscura, e contenti quando invece
gli si prospettava davanti prosperità e felicità. Gli si poteva raccontare di
tutto e loro vi avrebbero creduto.
Proprio come ancora
credevano alle streghe ed ai fantasmi.
Ma
lei non si curava di quello che la gente comune pensava sul suo conto. Non
l’aveva mai fatto, ne era sua intenzione iniziare a farsi problemi proprio ora,
finché nessuno la obbligava a difendersi. Era nata e cresciuta tra gli zingari,
senza una casa fissa, senza l’affetto dei genitori, arrestati e condannati a
morte per un’infondata accusa di omicidio, ma tra le cure della sua unica
parente che conosceva, la nonna, e in compagnia dei suoi “fratelli”, o così si
chiamavano tra di loro gli altri nomadi. Non aveva una città natale, né un
compleanno da festeggiare; non aveva un cognome o un riconoscimento familiare, ma solo un soprannome
datole dalla sua comunità e che era tutto un programma; non aveva un futuro, ma
poteva solo sognarlo; né aveva la speranza di riscattarsi da una vita che ormai
le andava stretta ma che doveva tenersi per poter sopravvivere.
«Maman, perché
quella signora ha i capelli di quel colore?»
La giovane zingara
alzò lo sguardo smeraldino sul bel bimbo che la guardava curiosa, indicandola
con un dito e strattonando la mamma per una manica dell’abito, cercando di
ottenere la sua attenzione. Gli sorrise dolcemente,
senza malizia alcuna. Non era sua intenzione spaventare i bambini che
manifestavano tutta quella curiosità nei suoi confronti, ma era ovvio che
quella sua espressione veniva sempre mal interpretata
dalle madri.
«Vieni, piccolo mio, allontanati. Non guardare mai negli occhi le
donne come lei, ricordalo.»
«Perché, Maman?»
«Perché quella è
una strega!»
Una strega...
Quella parolina magica che sentiva quando ancora era
piccola, quanto timore metteva addosso a chi la pronunciava! Sempre un sottile
sussurro che volava via nell’aria insieme al vento, provocando brividi di
timore ed apprensione. Che sciocchezze.
La zingara scosse
la testa, riportando la sua attenzione sulla borsa sghemba che aveva poggiato
per terra con la speranza che qualche anima pia la riempisse di monete. Contò
solo qualche franco, che fece in fretta a nascondere in tasca, e ritirò i suoi
pochi averi dall’angolino di strada in cui stava sempre: un mazzo di tarocchi,
qualche fazzoletto colorato per giochi di illusionismo
e il suo tamburello per le danze. Faceva quella vita da sempre, ma in cuor suo
sperava di poter compiere il salto, anche nel vuoto, pur di ritirarsi dal mondo
della strada. Cosa non avrebbe dato pur di ottenere un lavoro normale come una
comune cittadina francese! Peccato, davvero peccato che ogni volta che avesse
provato a cercarne uno, anche solo come semplice domestica, l'avessero sempre rifiutata di netto, togliendo fuori la scusa
che non avevano bisogno di altro aiuto. Oh sì, erano spaventati da lei;
temevano che potesse compiere furti, che potesse
sparire con qualche bambino, che potesse sedurre con il suo sguardo il padrone
di casa, che potesse addirittura fare qualche incantesimo! Le donne come lei portavano sfortuna e brutti avvenimenti, dicevano.
Sciocchezze ed ancora sciocchezze.
Così doveva
continuare con i suoi spettacoletti agli angoli delle strade, con la vana
speranza di attirare l'attenzione dei passanti e di guadagnare un po'.
Anche volendo, la
giovane non passava inosservata, non solo per il suo particolare colore di
capelli e il luccichio sinistro dei suoi occhi, ma anche per la vivacità degli
abiti che indossava: viola, verdi, rossi, gialli... tutte tonalità allegre e
cangianti, di vestiti trovati tra l’immondizia o abbandonati senza cura dalle
domestiche delle dame di Parigi. L’ultimo “acquisto” che aveva fatto era un
corpetto smeraldino, come i suoi occhi, che nascondeva in parte una camicia
color panna, sboccata e larga, e una gonna che le ricadeva sulle gambe sgonfia,
di un blu scuro, con decorazioni e rifiniture gialle. Dove l’aveva trovato? Steso da settimane nella lavanderia a cielo aperto di una casa in
periferia. Quale spreco lasciarlo lì tra le intemperie, a rovinarsi al
freddo e al vento!
I suoi passi
cadenzati e lenti risuonavano sulle strade ciottolate e polverose della città, che
pian piano si stava ritirando nelle proprie abitazioni per cenare, chi con
sontuosi pasti, tra chiacchiere e risate, chi con un solo pezzo di pane andato
a male, nel silenzio e nella desolazione, come lei. Non abitava più nella
comunità dei suoi fratelli da un paio
d’anni, ormai. Non perché disdegnasse la loro compagnia, anzi: qualche tempo
prima passava spesso a trovarli per scambiare qualche chiacchiera e qualche
novità, ma non si tratteneva mai troppo. Si era resa conto che, per quanto la
rispettassero e provassero per lei un particolare affetto, avevano in ogni caso
scetticismo nei suoi confronti. Ebbene sì, anche quella che doveva essere la
sua famiglia aveva paura di lei. Buffo, no? Per non parlare delle complicazioni
di altra natura che erano sorte col tempo e che al solo ricordo le facevano
venire il voltastomaco. Era meglio perderle certe persone, piuttosto che
trovarle.
La sua momentanea
casa si trovava in periferia, in un mulino diroccato ed
abbandonato da tempo. Non era il massimo del confort, ma per lei rappresentava
già l’esempio migliore di abitazione. Aveva un cuscino di paglia coperto da
alcune lenzuola logore su cui dormire, un mobile sghembo di legno mangiato dai
tarli come tavolo e una latrina rudimentale per le sue esigenze. Meglio di così
come poteva andare?
A pochi passi
dall’allungare la mano sulla porta d’ingresso, la giovane si bloccò
immediatamente, capendo che qualcosa non andava. La soglia, infatti, era
socchiusa e lei non la lasciava mai aperta. Inoltre sentiva distintamente che
il suo gatto, un bel micio nero come la notte che le faceva sempre compagnia,
stava facendo le fusa, come se fosse coccolato.
C’era qualcuno lì
dentro, qualcuno che probabilmente non doveva esserci.
E lei non voleva
ospiti indesiderati.
Tirò fuori un coltello
da uno degli stivali e lo impugnò con decisione in mano. Chiunque fosse stato
nella sua abitazione non avrebbe fatto in tempo a vederla in viso, perché lo
avrebbe colpito prima ancora di poter fare qualcosa.
Era in quelle
occasioni che la vera strega che c’era in lei si mostrava in tutto il suo
splendore.
Quanto tempo era
passato dall’ultima volta in cui aveva avuto un tetto sicuro sopra la testa?
Giorni?
Settimane?
Mesi?
Neanche
lo ricordava. Perché non voleva
ricordare. Niente di tutto ciò che era stata la sua vita
valeva la pena di essere ricordato. Né quando la propria madre, inorridita
dalla sua creatura, l’aveva abbandonato in mano agli zingari; né il giorno del
suo primo omicidio, la sua folle ed agognata vendetta
sul suo aguzzino che lo picchiava e lo derideva davanti a decine di persone; né
quella ragazza mossa da pietà che lo aveva aiutato a scappare e gli aveva
trovato rifugio sotto quel teatro maledetto. Lo stesso teatro che aveva dato
inizio e fine a tutto. Era cresciuto nascosto alla società, nascosto alla vita,
come un reietto, emarginato solo per uno scherzo beffardo della natura. E lui,
come a farsi beffe di questo, era diventato un uomo, un uomo
geniale a dirla tutta. E lui ne era consapevole, certo: aveva costruito il suo
piccolo regno dal nulla, gli aveva dato vita, e aveva
dato vita anche al teatro stesso. Perché lui componeva, componeva musica che
dir sublime era poco, canzoni superbe ed ammaliatrici
che incantavano chiunque le ascoltasse.
Ma
lui non esisteva, lui per la società era un fantasma.
Poi era arrivata
lei, piccola e graziosa nel suo completino da ballerina, ma con una voce che
prometteva già tante speranze. E lui era diventato un angelo, il suo angelo. L’aveva confortata, ingannata forse, ma era grazie a
lui che la sua piccola musa era diventata ciò per cui ora era amata: una
cantante bravissima e sopraffina. Ma lei era anche troppo ingenua per capire quale sentimento lo spingesse ad insegnarle tutto
il suo sapere, a renderla la regina delle sue opere, a starle costantemente
dietro per proteggerla. E lui era totalmente accecato dalla passione e
dall’amore che provava per lei per rendersi conto che non gli era mai appartenuta, non come desiderava. Aveva ucciso, aveva
spaventato, gettato ulteriore fango sul suo nome, rischiato
di rovinarle l’esistenza solo perché non accettava che lei amasse un giovane
amico d’infanzia, bello e popolare, e non lui, un emarginato sfigurato che
viveva all’oscuro da tutti.
Quanto tempo era
passato da quel giorno? Non lo ricordava, ma sentiva che era troppo poco,
insufficiente per sbiadire il dolore che ancora provava forte e vivido, ogni
istante, come se fosse accaduto solo pochi attimi prima.
Aveva lasciato
l’Opera, la sua unica vera casa, per l’ignoto. Non poteva più restare lì; per
quanto sicuri fossero quei sotterranei con tutte le trappole che vi aveva disseminato, era stato tradito dall’unica persona al
mondo che aveva la sua piena fiducia e il suo piccolo mondo era stato profanato
e gettato al vento, con odio, con risentimento. Non avrebbe potuto continuare a
vivere lì, non con il dolore dei ricordi, sempre vivi ogni qualvolta spostasse
lo sguardo in ogni angolo, non con il timore di essere stanato in qualunque
momento ed essere condannato a morte.
Ma
perché rimaneva ancora così attaccato alla vita? Aveva per caso qualche ragione per cui valesse la pena continuare a nascondersi per
tenersi stretta l’unica cosa che odiava con tutto se stesso?
I fantasmi
continuano a vagare per il mondo dei vivi finché non risolvono le loro
questioni in sospeso...
Forse anche lui ne
aveva una? Non lo sapeva, non voleva saperlo.
Chiuso tra quelle
quattro mura sghembe, piene di spifferi, il tanto temuto Fantasma dell’Opera
sospirò, abbassando lo sguardo sul gattino nero che gli si era accovacciato
sulle gambe, per niente intimorito, anzi. Faceva anche le fusa ad ogni sua carezza!
«Non ti faccio
paura?», gli chiese, sarcastico, mentre il micio, dopo averlo guardato con i
suoi occhioni gialli, si rotolava sulla schiena, reclamando altre coccole.
Osservò l’ambiente
intorno a sé e si rese conto che quel posto era abitato. Una povera anima come
lui, forse, povera ed isolata dalla società perché
diversa. Non voleva disturbare chiunque fosse il padrone di quel vecchio
mulino, ma era l’unico posto che aveva trovato dopo giorni e giorni
di vagabondaggio per quelle campagne. Era stanco di girovagare nella speranza
di trovare riposo e alloggio, stanco di dover rubare il cibo perché non poteva
permettersi di spendere tutti i suoi soldi in un’accogliente locanda, temendo di
destare curiosità e di essere riconosciuto. A confronto, preferiva mille volte
la vita sotto il teatro, che quella. Lì, almeno, aveva un’identità, aveva una casa, aveva uno scopo, aveva le sue cose, la sua
musica.
Ora l’unica cosa
che poteva fare era trascinare se stesso affinché non
morisse prima del tempo.
Continua...