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Autore: mslestrange    16/07/2010    3 recensioni
Eccolo là. Nell’angolo più nascosto del parco, in fondo, sul muretto; un po’ bevendo, un po’ fumando. Il movimento è sempre lo stesso, su, giù, su, giù. La lattina di birra stretta da una mano pallida, sporca, unghie nere - calli dappertutto - arriva alle labbra, le bagna, le screpola. Alza gli occhi, una goccia che gli scende dalla bocca, mi vede. Il mio è un sorriso timido, accennato, cerco di non farmi vedere. Il suo è attraverso gli occhi.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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The corner

 
Eccolo là. Nell’angolo più nascosto del parco, in fondo, sul muretto; un po’ bevendo, un po’ fumando.  Il movimento è sempre lo stesso, su, giù, su, giù. La lattina di birra stretta da una mano pallida, sporca, unghie nere - calli dappertutto  - arriva alle labbra, le bagna, le screpola. Alza gli occhi, una goccia che gli scende dalla bocca, mi vede. Il mio è un sorriso timido, accennato, cerco di non farmi vedere. Il suo è attraverso gli occhi. Muove impercettibilmente la testa, per salutarmi. Abbasso frettolosamente lo sguardo, lui è già tornato a fissare il nulla.
 
Un telefonino canta una melodia commerciale, l’unico fattore  che insaporisce l’atmosfera. Lui quasi ne è divertito, è il suo habitat, e sorride un sorriso che a me non ha saputo dedicare. Sorride con gli occhi abbassati: capisco che ormai ha accettato. Ha accettato quell’aria che lo circonda, quella lattina che tiene tra le mani, quella sigaretta che ora gli viene porta. Una mano tra i capelli sporchi, capelli castano ramato, amari, ispidi, disordinati, bagnati. Un tentativo inutile di aggiustarli. Le parole scambiate con i ragazzi accanto a lui sono poche, sconnesse, non c’è conversazione. Tutti a fissare il terriccio umido del parco, con quegli occhi blu surreale di lui, blu troppo acceso, blu troppo. Sono occhi che riflettono la malasanità del suo corpo, la troppa birra, troppa erba. Eppure lui è in silenzio, quasi non dando peso all’anormalità delle sue iridi, canticchia il motivetto.
 
Un giorno gli ho chiesto la sua età. Mi ha risposto quindici anni, non ho voluto crederci. Per tutta risposta mi ha allungato le mani sudice, nere, sporche di grasso, alzando le spalle. E, scuotendo la testa, si è riportato la lattina alle labbra, gli occhi sempre ridenti. Quell’aria di chi ride del proprio destino ormai segnato, futuro senza speranza, senza prospettive. Una vita da meccanico, arrivo a stento a fine mese, ubriacarsi la sera. Non ha scelta, ma lui ne è consapevole. E gli va bene così. Sono rimasta a fissare quel naso adunco, una piccola gobba verso il mezzo, una punta spigolosa. Che eppure ho sempre considerato elegante, puro, dolce.
 
La sigaretta arriva, lui appoggia la lattina sul muretto, la abbandona per qualche attimo. Ora le sue labbra non sono più bagnate, sono bruciate dal fumo che gli penetra tra i denti; e stringendoli, lui gli fa percorrere la gola, gliela fa bruciare, fino ai polmoni. Respira piano, mentre le nuvolette grigie escono con ordine dalle labbra, sente il fuoco che scoppietta dentro di lui, ci ha fatto l’abitudine. Gli occhi si riaprono, e penso che quello sembra proprio uno sguardo, macché uno, è il primo, di un bambino appena nato; che si appronta ad osservare il mondo per la prima volta, a sbattere le ciglia finissime, meravigliato. Quello è il suo sguardo, di chi si guarda intorno stupefatto, cercando di cogliere la luce fra i rami.
 
Improvvisamente gli scappa una risata, e di riflesso mi cerca, silenziosamente mi chiede di venire. Io capisco, arrivo. Tutti mi salutano, chi alzando la bottiglia, chi con un bisbiglio. Io volgo lo sguardo a ciascuno, educata. E mi soffermo su di lui, sulla sua espressione incuriosita; mi porge la lattina. Io accetto, quasi incantata - è amara. Lui ride alla mia smorfia, scuotendo la testa, dice che non è roba per me.
Non so perché, ma ogni volta che lo dice mi sento come offesa, come se fosse lui quello che ha già capito tutto della vita, ed io la povera ingenua. L’altro ragazzo, quello biondo, attacca bottone, cominciamo a parlare. Ogni tanto lo sbircio, dietro alla chioma albina, vedo la sua espressione di chi non interviene mai nelle discussioni altrui, vedo la sua attenzione alle mie parole. Le palpebre sono delicatamente chinate gli occhi ormai stanchi, come se stanco non fosse anche il resto del suo corpo.
 
Mi hanno sempre detto che da lontano sembra un folletto, quanto è gracile. E’ sempre lui che salta nel nascondiglio fra gli alberi a prendere i sacchetti che tintinnano, ed agile torna soddisfatto. E’ lui che porge le bottiglie a tutti, ed ogni volta me ne offre una; e la sua espressione sembra dirmi di no, non prenderla, non accettare, salvati. Ma io sono sempre incantata da quegli occhi blu oceano, allungo la mano.
 
E’ vero, sembra un po’ un folletto. Le gambe sono sempre coperte da un paio di calzoni stinti da muratore, ma tutti riescono ad intuire la fragilità di quelle ossa; ai piedi sempre degli scarponcini da montagna. Una volta sono arrivata mentre si stava cambiando – non avevo idea del perché – e mi ha incantata, ancora. Era a torso nudo, di spalle; la carnagione albina, pallidissima, quasi bianca, splendeva come una torcia accesa. Riuscivo ad intravedere le ossa sporgere dalla pelle, eppure anche a cogliere la bellezza di quel fisico, quella purezza stessa del suo naso, l’eleganza. Appena mi aveva visto, gli era scappato un sorriso. Me lo ricordo, perché è uno dei pochi con i quali mi ha accolta. Aveva l’aria di chi si vergogna del proprio essere, eppure sorrideva quel sorriso amaro.
 
Una sera gli altri – quelli come me – hanno cominciato a giocare una partita a calcio – novità assoluta. Lui e i suoi amici non avevano conosciuto questo tipo di divertimento, l’avevano abbandonato da ormai troppo tempo. Dopo qualche minuto si sono alzati, quasi sognanti, e silenziosamente si sono avvicinati. Il gioco si è fermato per alcuni attimi, quelli come me avevano occhiate dure, diffidenti, quasi razziste per quella specie di ragazzi. Io giravo implorando, vi prego, lasciateli giocare, sono brave persone. Chi più convinto, chi meno, hanno ricominciato il gioco.
 
Fino a quel momento non l’avevo visto, allungavo il collo, cercavo lui.
 
Improvvisamente, un pallonetto mi si è avvicinato con una velocità sorprendente. Mi sono scansata, ma non ho sentito la palla toccare terra. Alzando gli occhi, ho visto lui di fianco a me, la gamba ancora flessa per il colpo. Il pallone era rimbalzato dall’altra parte del parco, io stupefatta, non riuscivo a credere che una forza del genere si potesse celare in delle ossa così gracili. Poi ho notato la lattina stretta nella mano. Ho capito che non sarebbe mai cambiato, mai.
 
Tira ancora un paio di volte la canna ormai quasi consumata, non mi chiede nemmeno se la voglio. L’ultima volta ho cominciato a strillare, ero quasi impazzita, l’ho rifiutata senza nemmeno pensarci. Lui sembra quasi sereno, dopo una di queste cose. Ormai ho smesso di domandarmi come faccia; è lui, semplicemente.
 
Mi chiede a che ora devo tornare a casa. Il cuore mi batte forte, sta parlando con me. Dico alle 10 e mezza, sono fiscali, i miei. Lui si scambia uno sguardo con l’amico biondo, buttano entrambi la testa all’indietro, come due bimbi al circo. Dice che loro possono anche non tornare a casa per due, tre giorni; nessuno li cerca. Il biondo si guarda intorno, accarezza il muretto: questa è la nostra casa. Non so cosa dire, non so più come stupirmi, oramai.
 
Il gelo mi sfiora la maglia, comincio a tremare. Mi stringo inutilmente nelle mie stesse braccia, fa troppo freddo. Non riesco a capire il suo sguardo, questa volta, fino a quando non mi dice, tieni, porgendomi la sua giubba da militare. No, grazie, davvero, non posso. E’ la prima volta che non allungo la mano a qualcosa che mi offre lui; ma questo, questo è troppo. Tieni, mi dice, la sigaretta fra le labbra. No, davvero, no. Insiste sul serio, non so cosa dire. Sconfitta, afferro il giubbotto e mi infilo le maniche, una, due.
 
Passiamo una mezz’ora così, io stretta nel suo profumo, la musica a palla.
 
Ricordo quando ha chiesto il mio nome. C’erano altre due come me, più carine, io ero insignificante. Appena l’ho sillabato, ho visto i suoi occhi accendersi, come due lampadine; e ho pensato, sì, quello è proprio un bambino, incuriosito da ogni cosa, ogni nome, ogni persona. Affamato di sapere.
 
Ho sempre pensato a quanta strada potrebbe fare, se non abitasse in un paesino così squallido, che lo soffoca senza scampo. Alla sua pelle così chiara su tutti i giornali, gli occhi blu, re del mondo. Eppure è lì, nell’angolo più nascosto del parco.
 
E’ ora, devo andare. Mi alzo, lo sguardo timido, insicuro, non so come salutare. Loro mi accolgono come se fossi appena arrivata, alzando la bottiglia, bisbigliando un ciao. Rispondo cercando di sforzare un sorriso, ho le labbra congelate. Piano, mi avvicino a lui. Faccio per sfilarmi la giubba di dosso quando lui mi prende la mano, un gesto rapido ma delicato. E sempre con gli occhi ridenti, strafottenti, mi sfiora la pelle con le labbra - quella linea sottile, sorriso amaro. Capisco che questa è la sua risposta, capisco quello che vuole. Sento un tremito percorrermi tutta la schiena; mi inchino impercettibilmente, sto tremando. Ed eccolo, è arrivato quel sorriso che spero che ogni sera mi dedichi; sto tremando.
 
Senza far rumore, giro le spalle, comincio a camminare verso quelli come me.
 
Guardo per l’ultima volta l’angolo più nascosto del parco - lui, in fondo, sul muretto; un po’ bevendo, un po’ fumando.
 
 
 
 
 
Spazio autrice
Ho scritto questa storia appena tornata dall’Irlanda, subito, di getto. Questa intera figura è stata ispirata da un ragazzo che ho incontrato davvero; davvero c’era il parco, l’angolo, i suoi occhi blu. Non ho mai avuto un rapporto del genere con lui, però. C’erano i sorrisi, c’ero io che allungavo la mano per prendere la lattina, io che lo guardavo di nascosto. Ho sentito il bisogno di scrivere su di lui, su questo ragazzo senza futuro che invece si merita. Solo pensare a lui, a come si butta via, mi fa stare male. 
Spero che un giorno, non so, la sua famiglia riesca ad uscire da quella morsa orribile che è la crisi e dargli la possibilità di cominciare una vera nuova vita.
Quasi tutte le immagini sono state ispirate alla realtà, volevo davvero rendere  questa shot più reale possibile. Spero piaccia, e di aver trasmesso quello che avrei voluto.
  
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