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Autore: Atharaxis    23/07/2010    1 recensioni
Un bacio sporco, proibito, può far nascere qualcosa che è sempre stato sopito? Possono due anime inquiete, insieme, trovare la loro pace?
Alla ShinRa, esiste ancora l'amore?
Genere: Erotico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Rufus Shinra, Tseng
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: FFVII
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Quando sentii squillare il cercapersone, stavo camminando distrattamente per il corridoio. Mi ero già allargato la cravatta, un paio di bottoni slacciati… Ero pronto per togliermi la divisa e finalmente non sentirmi più chiamare capo. Non lo sopportavo al di fuori dell’orario di lavoro, anche se ammetto di esserne sempre stato lusingato: difficilmente riuscivo a trattenere un leggero sorriso di soddisfazione. Del resto, ho sempre dato tutto me stesso per arrivare fin qui… Fedeltà all’azienda. Obbedienza. Responsabilità. E mai lasciarsi andare. Un Turk deve saper prendere le distanze da tutti quelli che vengono annoverati sotto il nome di sentimenti. Pietà, vendetta, tristezza, dolore… Amore. Ma quello per me non era mai stato un problema. Non fino a quella sera.

 

Un po’irritato mi frugai nella tasca: pensai che fosse Elena. Ultimamente stava diventando quasi insistente, con i suoi continui “casuali” cambi di turno, inviti a cena, piccoli favori… Non che non mi facesse piacere ricevere attenzioni ma avevo la vaga sensazione di aver guadagnato un certo ascendente su di lei solo da quando ero passato di grado. Sorrisi. Sapevo di essere un ottimo impiegato ma forse, se non ci fosse stato lui, avrei dovuto aspettare ancora chissà quanto. Dovrei ringraziarlo, pensai, ma mi sembrava di farlo abbastanza ricoprendo il mio ruolo in maniera impeccabile.

 

Ho bisogno di te”

Quella semplice frase già di per se mi lasciò stranito, ma fu niente rispetto a cosa mi provocò vedere chi l’aveva scritta. Smisi addirittura di camminare. Mi fermai e la rilessi paranoicamente. “Ho bisogno di te” risuonava nella mia mente, e ripetevo il suo nome sottovoce, chiedendomi come fosse possibile. Era lui.

Mi tranquillizzai rimanendo fermo e quasi mi diedi dello stupido per essermi agitato a quel punto per quelle quattro semplici parole: ero un suo sottoposto, senza dubbio aveva qualche affare urgente da commissionarmi. Aveva bisogno di me, certo. Ma c’era una cosa che non riuscivo a spiegarmi: quel “te” così terribilmente confidenziale ai miei occhi… Finché ero in servizio avevo sempre dato e preteso il lei, addirittura con lui usavo il voi. Improvvisamente ebbi l’impressione che non avesse bisogno del capo del dipartimento, ma di me, dell’uomo che c’era dentro quella divisa.

 

Scossi la testa.

 

Il turno è finito, non è necessaria tutta questa formalità da parte sua, continuavo a ripetermi. Mi risistemai giacca e cravatta, camminando deciso verso l’ascensore. Aveva bisogno di me, non potevo farlo aspettare, ma i pensieri si accavallavano talmente veloci e contraddittori nella mia testa che in qualche modo riuscivano a rallentarmi il passo.

E’ il presidente, non deve di certo chiedermi il permesso per darmi del tu. Eppure la cosa, se da una parte mi lusingava, dall’altra mi infastidiva come non mai: il mio turno era finito ma il suo no. Non poteva rivolgersi a me in questo modo, la sentivo come una mancanza di rispetto, quando in fondo comprendevo benissimo l’assurdità del mio astio: lui mi aveva nominato responsabile e lui avrebbe potuto degradarmi con altrettanta facilità. Ma in fondo era giovane, da pochi mesi soltanto a capo di un’azienda così importante, e se lui aveva aiutato me anch’io l’avevo sempre sostenuto, rispettato fin dal primo momento… Avevo fatto il mio dovere…

Erano solo scuse che stavo faticosamente accampando per dare una spiegazione razionale a ciò che sentivo, quando in realtà era tutto così chiaro, pensandoci adesso: ero irritato semplicemente perché quel tu mi aveva aperto la possibilità di essere considerato più di un semplice dipendente da lui, e avevo paura che la mia fosse soltanto un’illusione.

 

Paura. Qualcosa che non provavo da tempo. Non sapevo nemmeno più cosa fosse. Solo adesso mi rendo conto di quanto fossi riuscito a reprimere a tal punto le mie emozioni da dimenticarle. Non immaginavo che quella notte, dopo tanto tempo, sarebbero tornate prepotenti e violente a galla.

Anche questo mi infastidiva: come si permetteva, chi era lui per scatenare in me tutto questo?

 

Il presidente, il mio presidente.

 

Rufus.

 

 

   

 

 

Bussai, anche se con poca convinzione. Non senti risposta ma le porte si aprirono automaticamente. Quando entrai, sforzandomi con tutto me stesso di apparire impeccabile come al mio solito e di non lasciar trapelare in alcun modo quello che si era agitato in me fino a qualche secondo prima, era in piedi, le mani appoggiate sulla fredda vetrata del suo ufficio che dava sull’intera azienda. Reattori, macchinari, dipendenti… Un mondo intero ai suoi ordini, era questo ciò che vedevo, ma non avevo ancora capito che in realtà non era lui a possedere la Shinra ma l’azienda a possedere lui, ad occupare la sua mente, a cibarsi del suo tempo.

Sembrava non essersi accorto della mia presenza, così rimasi qualche istante in silenzio ad osservarlo: un ragazzo così giovane te lo immagineresti ovunque fuorché a capo della compagnia, pensavo. Ma nonostante l’inesperienza, aveva la stoffa del presidente: nessuno, compreso di cosa fosse capace, aveva osato mancargli di rispetto.

La sua mano scivolò sul vetro, quasi come se lo accarezzasse, e sentii chiaramente qualcosa che non era mai uscito dalle sue labbra, non in mia presenza.

 

Un profondo, languido sospiro.

 

In quel momento quasi mi vergognai di essere lì: era come se mi fossi intrufolato nel suo essere e lo avessi colto nella sua intimità, senza che avesse la possibilità di proteggersi dalla mia intrusione. Non avrei mai permesso che qualcuno mi cogliesse nei miei dubbi, nelle mie incertezze, nelle mie debolezze. Le nascondevo persino a me stesso e ad un tratto mi apparve chiaramente che dovesse averne anche lui, sebbene non le avessi mai seriamente considerate, sebbene a quanto pare fosse capace di nasconderle molto bene.

 

Sebbene fosse il presidente. Proprio perché era il presidente, in realtà.

 

Prima che potessi realizzare che lo stessi facendo, mi ero proteso verso di lui: avrei voluto poggiargli una mano sulla spalla, fargli sentire che non era solo in quella stanza… Ma forse non era questo ciò che voleva, e mi bloccai di nuovo.

Bastò il leggero rumore delle mie scarpe per rompere la muta atmosfera che ci avvolgeva: si voltò di scatto, col viso duro e contratto, così austero che quasi pensai che quel sospiro me lo fossi sognato. Non avrebbe potuto uscire da quelle labbra così serrate.

Mi vergognai ancora: cosa pensavo di fare? Consolarlo? Sono un suo dipendente, non ho il diritto di farlo. E soprattutto non me l’ha chiesto. Era così che la pensavo, era così che vivevo: non parlare se non sei stato interpellato, non agire di testa tua, non immischiarti negli affari altrui. Un ottimo impiegato, proprio perché quei precetti erano talmente miei da essere ormai gli stessi che regolavano la mia vita, oltre a rappresentare un semplice codice di comportamento.

 

Ma ero un uomo, oltre che un Turk. Soltanto che anche questo, l’avevo dimenticato.

 

  
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