-{Alice
Human Sacrifice.
Prompt 000: ///.
(3409 parole)
Apparentemente
era una giornata normale.
“Apparentemente”,
parola molto bizzarra, invero. Se si inizia con un “apparentemente” significa
che le cose, in realtà, non stanno così.
Erano
mesi che si parlava di quella gita scolastica fuoriporta ad Akihabara, ma
all’ultimo l’intero Host Club s’era tirato indietro, provocando proteste accese
tra le ragazze che solo Tamaki ebbe il potere di placare. Ad essere sinceri non
gli ci volle neanche molto: gli bastò un sorriso e la rassicurazione che
sarebbero mancati alla gita per preparare una sorpresa per loro, ma neanche lo
stesso Tamaki aveva idea del perché non partecipassero a quella gita, anzi… lui
ci teneva! Non era mai stato ad Akihabara.
Erano
stati Renge e Kyouya a decidere per tutti e se le motivazioni della ragazza
rimanevano del tutto ignote, secondo il giovane quella era un’occasione
irripetibile per gestire gli affari del Club senza quell’orda di ragazzine
infoiate tra i piedi.
Gli unici
a darsi da fare furono Mori-senpai e Haruhi decidendo di dare una pulita
generale all’aula di musica e Kyouya mettendo apposto il Database del Club e i
vari “documenti”.
I gemelli
si limitarono a tormentare Tamaki, mentre Honey-senpai leggeva.
Mitsukuni non stava mangiando.
Mitsukuni non stava mangiando dolci.
Si
limitava a leggere uno dei libricini che Renge aveva lasciato sul tavolo.
Il
piccolo sbadigliò e posò ciò che stava sfogliando per afferrare un secondo
libro ed iniziare a leggerlo ad alta voce.
«“In qualche luogo ci fu un sogno, chi lo sognò era ignoto. Era un sogno davvero piccolino. Esso pensò: -Non voglio svanire nel
nulla in questo modo, come posso convincere la gente a guardarmi?-”»
Senza un apparente motivo,
l’espressione di Takashi si fece cupa e prese a spazzare con più forza il
pavimento. Solo Haruhi se ne accorse e gli sorrise, strizzandogli
l’occhio.
La ragazza sparì per diversi
secondi, durante i quali Mitsukuni continuò imperterrito a leggere con
entusiasmo la storiella.
«“Il piccolo sogno continuò a pensare e pensare, e alla fine ebbe
un'idea: -Se la gente continuasse a vagare in me, potrei renderla il mio mondo!-”…»
«Honey-senpai, ti va una fetta di
torta?» lo interruppe Haruhi, mettendogli davanti un piattino con una bella
fetta di torta alla melassa. Gli occhi del piccolo s’illuminarono. «Itadakimasu!»,
si limitò ad esclamare, esaltato.
«Va tutto bene?» domandò Fujioka a
bassa voce, una volta avvicinatasi a Mori-senpai. Lui si limitò a mormorare un “grazie”.
Apparentemente era una giornata
normale.
Apparentemente.
[La prima Alice era la Guerriera di Picche.
Lei coraggiosamente vagava per il Paese delle Meraviglie,
brandendo la sua spada.
Distrusse tutto ciò che trovò sul suo cammino,
creando un suo sentiero rosso di sangue.]
Takashi lanciò una breve occhiata
a Mitsukuni che ora dormicchiava tranquillamente, poi mormorò sottovoce
qualcosa riguardante l’andare a restituire dei libri alla biblioteca
scolastica.
Sembrò aver perso l’udito quando
Tamaki gli fece notare che tutti erano ad Akihabara e di conseguenza in
biblioteca a ritirargli i libri non ci sarebbe stato nessuno.
Uscì dall’aula di musica ed iniziò
a camminare con passo lento, quasi strascicato. Dopotutto non aveva fretta.
Era solo una normale giornata in
cui la scuola era totalmente deserta e in cui Mitsukuni aveva iniziato a
leggere una stupida storiella; inquietante da far schifo, sì, ma solo una
stupida storiella.
Sentì un fruscio dietro di lui e
senza riflettere afferrò la scopa che i “domestici” dovevano aver dimenticato
in corridoio. Si voltò di scatto, affondando… peccato che non ci fu nulla su
cui affondare.
«Eppure…»
Una lieve risata schernitrice lo
fece voltare di nuovo, questa volta, però, mantenne solo la posizione di
guardia, constatando che non c’era nuovamente nessuno.
Fendette l’aria. Perché smettere?
Dopotutto lui era un guerriero! Lo
era sempre stato, e aveva affrontato mille battaglie, più che altro tra sé e sé,
ma pur sempre battaglie.
La sua testa si riempì di suoni,
fruscii, sogghigni, pianti e a lui non rimase altro che bloccarsi la testa tra
le mani- come se ciò avesse potuto fermare il rumore stesso- e intimarsi di
stare calmo.
Provò a inspirare ed espirare
profondamente diverse volte, prima di arrendersi al fatto che a nulla sarebbe
servito.
Chiuse gli occhi, scuotendo la
testa, ma nelle sue palpebre parvero scoppiare dei fuochi d’artificio.
Riaprì gli occhi, chiuderli s’era
rivelato un gesto enormemente stupido ed inutile.
Un ghigno s’impadronì del suo viso
e ricominciò a fendere l’aria, combattendo contro nemici inesistenti.
Fendenti e affondi si susseguirono
senza sosta, come se non riuscisse più a fermarsi, come se avesse perso ogni
volontà, mentre il rumore non accennava a smettere.
[Questa Alice fu condotta nel cuore della foresta
e imprigionata come una peccatrice;
se non fosse stato per la sua via di sangue,
la sua vita sarebbe stata dimenticata.]
Il suo respiro si fece affannoso, ma non si fermò, nella speranza che il rumore
gettasse le armi per primo, mettendo fine a quella assurda e pittoresca battaglia.
I suoni parvero allontanarsi e
lui, come ipnotizzato da suo stesso disagio, li seguì come un sonnambulo, fino
ad arrivare all’apice del rumore.
Il frastuono lo aveva portato in
un’aula che riconobbe come il laboratorio di chimica, e lì ricominciò a combattere
il Nulla, finché non si accorse della piccola nota stonata che ad un primo
esame sembrava di poco conto.
Si avvicinò alla porta che s’era
chiusa da sola, governata da un vento inesistente. Provando a riaprirla scoprì
che era stata chiusa a chiave.
Qualcuno aveva avuto la brillante idea d’imprigionarlo.
La cosa peggiore era che il rumore
al posto di diminuire non faceva che aumentare a dismisura.
Urlò, colpì la porta col manico di
scopa, non riuscendo neanche a scalfirne il legno, ed urlò ancora, per scoprire
che il frastuono nella sua testa non era altro che la sua stessa voce.
Fece silenzio.
L’aula di musica era troppo
lontana, era impensabile che qualcuno l’avesse sentito strepitare. Per quanto
tempo sarebbe rimasto rinchiuso?
Chi –cosa- l’aveva imprigionato?
Decise che la cosa non
gl’importava.
Prima o poi qualcuno l’avrebbe
trovato e allora sarebbe stato libero di uscire e continuare la sua lotta
contro chi l’aveva confinato lì.
E se, come per il fatto del rumore, fosse semplicemente tutta colpa
sua?
Non prese neanche in
considerazione quell’ipotesi, si limitò a sedersi a gambe incrociate sul
pavimento, attendendo in guardia che qualcuno –salvatore o colpevole- lo
trovasse.
[La seconda Alice era il Fante di Quadri.
Lui dolcemente cantava una canzone per il Paese delle Meraviglie;
provò a superare il limite del suono,
creando così un mondo pazzo.]
Tamaki raggiunse un compromesso
con i due gemelli: Loro l’avrebbero lasciato in pace se lui avesse suonato il
pianoforte.
Con un sospiro sollevò l’asse di
legno laccato che custodiva gelosamente i tasti dello strumento.
Provava un brivido ogni volta che
li sfiorava, in quei momenti erano solo lui e la sua musica a tenergli
compagnia, ad impedirgli di perdersi nei meandri della sua stessa mente;
perdersi tra tristi pensieri, ricordi fuggevoli e cose non dette.
Un sorriso mesto gli rovinò le
labbra; si maledisse e maledì pure il pianoforte. Forse era per quel motivo che
non riusciva a far altro che mostrare la faccia di un Tamaki allegro e
frizzante, nascondendo il se stesso che soffriva come un cane: perché
utilizzava le note per proteggersi da quei pensieri, per impedire che la sua
anima affrontasse quei discorsi che voleva tenere segregati in un piccolo e
buio angolo.
Lui si abbandonava alla musica, permettendo
alle note di scivolargli addosso, di irradiarlo di quella luce che sapeva solo
di fittizio ed ingannevole.
Prese a pigiare tasti e
risuccesse.
Tutto svanì.
La collera che provava per se
stesso –per la sua debolezza-, la collera che provava per il pianoforte; tutto
divenne privo d’importanza.
Le uniche cose che realmente
contavano erano la perfetta esecuzione e il riempire di suoni il vuoto che lo
torturava di giorno in giorno.
Era la sua droga. La musica aveva
il potere di stregare Tamaki Suou più di come avrebbe potuto fare persino
Haruhi –più di quanto avrebbe potuto fare qualsiasi persona, infondo-. Le note
continuarono a susseguirsi, magnifiche e perfette… forse troppo magnifiche e
perfette per quel luogo.
Cominciò, dunque, a sentirsi
stretto, estraneo nella stessa dimensione che lui stesso aveva creato.
Perché la mancanza di pensieri rende folli.
Se non aveva nulla a cui pensare
–nessun rimpianto, nessun dispiacere, ma neanche alcun ricordo felice, alcuna
gioia- che senso aveva rimanere lì?
Sarebbe scappato?
Avrebbe fatto la scelta più
semplice, come sempre.
Un’ultima nota forte, sofferta, e
le sue dita smisero di sfiorare i tasti. Sorrise, di uno dei suoi sorrisi più
falsi, e annunciò che sarebbe andato a prendere una boccata d’aria.
[Questa Alice aveva un bel giardino di rose
scarlatte,
ma un giorno il Cappellaio Matto gli sparò.
Egli divenne rosso come il suoi fiori…
tutti lo amavano, e infine lui morì.]
Arrivò fino al cortile, prima di
rendersi conto che, nonostante avesse smesso da diversi minuti di suonare, i
suoi pensieri non sembravano essere tornati.
Si chiese se non fosse diventato
realmente pazzo, prima di realizzare che, anche se
avesse ammesso a se stesso una cosa del genere, non sarebbe cambiato nulla.
I suoi piedi si muovevano meccanicamente,
senza che la testa avesse controllo sulla meta.
Non riuscì a non sorridere, quando
vide dove lo stavano portando le sue gambe: il giardino di rose rosse della
scuola.
Il posto che lui solo riusciva ad
apprezzare pienamente tra tutti quelli che lo attraversavano ogni giorno.
Si sdraiò su una panca in marmo e
si rigirò tra le dita uno di quei magnifici fiori.
L’osservò in ogni minimo
particolare, in ogni sfaccettatura.
Solo in quel momento si rese conto
di che colore magnifico fosse il rosso. Esistevano migliaia di sfumature
annesse a quel colore, quelle stesse rose non erano altro che una gradazione…
…ma quale?
Tamaki venne colto subito da un
feroce dubbio.
In situazioni normali l’avrebbe
considerata una cosa di poco conto, ma in quel momento non aveva pensieri, in
quel momento era rinchiuso nella sua dimensione di follia.
E’ rosso scarlatto o rosso sangue?
Sorrise, riflettendo su
quell’enigma al momento tanto affascinante.
Il suo occhio cadde sul manto
erboso: a pochi centimetri dalla panca c’era una… pistola?
“Cosa ci fa una pistola nel giardino di una scuola?” si chiese, prima di giungere alla
conclusione che la cosa importava decisamente poco.
La cosa fondamentale era che
quello strumento capitava al momento giusto! Poteva dissipare ogni suo dubbio.
Si puntò con lentezza maestosa la
pistola alla tempia e premette il grilletto.
Sì, decisamente rosso sangue.
[La terza Alice era la fanciulla di fiori.
Era di bell'aspetto e amata, nel Paese delle Meraviglie.
Per tutte le persone da lei illuse
fu creato un paese bizzarro.]
Haruhi sbadigliò sonoramente e diede un’occhiata ad un armadio a cui non aveva
mai fatto caso prima. Lo aprì e non riuscì a trattenere una smorfia.
Polvere.
Sembrava non venir aperto da
secoli, anche se era praticamente impossibile, ogni sera l’istituto veniva
pulito da cima a fondo senza tralasciare neanche l’angolo più nascosto.
Decise che il pensare a come fosse
possibile la presenza di tutta quella polvere non sarebbe servito a farla
sparire.
Con un sospiro uscì dall’aula di
musica, in cerca di un panno e dei prodotti per pulire. Si guardò bene attorno,
cercando di ricordare quando fosse stata l’ultima volta che aveva avuto quella
solitudine tutta per lei, l’ultima volta che aveva visto vuoti
quei larghi corridoi maestosi.
Ormai erano mesi che non provava
più il sapore della tranquillità, i suoi pomeriggi erano totalmente assorbiti
tra la frenesia dell’Host Club e lo studio.
Con un cupo sospiro si fece
scivolare contro la parete, i suoi pensieri erano arrivati alla nota dolente
della sua attuale vita.
Pensò a tutte quelle ragazzine che
stava prendendo in giro fingendosi un ragazzo. Se c’era una cosa che non
sopportava era far soffrire le persone, ma la verità prima o poi sarebbe venuta
a galla e delle lacrime sarebbero state inevitabili.
Neanche il pensiero che,
dopotutto, pure i suoi colleghi dell’Host Club imbrogliavano bellamente quelle
ragazzine riusciva a consolarla.
«Quand’è che ho cominciato a
fingere, per l’esattezza?» si domandò a bassa voce. «I sentimenti di quante persone
ho calpestato con la stessa flemma di quando vado a fare la spesa?».
Sospirò ancora, cercando di
scacciare via quei pensieri come se fossero delle mosche moleste. Non era stata
una sua scelta. Non aveva deciso lei di piazzare quel dannato vaso nel centro
di una stanza rendendo tremendamente semplice il farlo cadere. Lei non
c’entrava nulla.
«Però sono stata io ad illudere
tutta questa gente…»
[Quest'Alice ne fu la regina,
ma fu posseduta da un sogno distorto.
E in un corpo putrefatto
continuò a vagare per tutto il Paese.]
Haruhi si guardò attorno,
dopotutto quello era il suo mondo.
Sì, non c’era altro modo di vedere
le cose!
Piaceva alle ragazzine che stava
bellamente imbrogliando e –lo sapeva perfettamente, era palese- piaceva anche
all’intero Host Club!
Lei era la regina di quell’assurdo
mondo fatto di bugie ed imbrogli.
Improvvisamente si mise a ridere,
di una risata sguaiata, folle, non sua.
Se fino a quel momento era stata Haruhi Fujioka, in quell’istante s’era rotto
qualcosa.
Alcuni la chiamano sanità mentale.
«Sono la regina, sono la regina!»
Disse, senza smettere quell’assurda risata isterica.
«Non c’è nulla che mi possa
scalfire, sono la regina, la regina incontrastata», boccheggio, quasi soffocata
dalle risa.
Scivolò sul freddo pavimento, continuando
senza posa nella sua risata.
In quel momento non c’era nulla
–nulla!- di più esilarante della sua nuova presa di posizione.
In un barlume di lucidità si
chiese se ne valesse la pena, ma lei era la regina! Per lei tutto valeva la
pena!
Tutto era suo.
Tutto le apparteneva.
Solo la coscienza di se stessa
cominciò a scivolarle via velocemente, a ritmo delle sue risa incontrollate.
[Durante ciò due ragazzini attraversarono la
foresta
e bevvero il tè vicino ad un cespuglio di rose.
Il loro invito per il castello era
una carta di cuori.
La quarta Alice erano i gemelli di cuori.
Trascinati dalla loro curiosità nel Paese delle Meraviglie,
loro attraversarono diverse porte
e finalmente arrivarono.]
Hikaru e Kaoru si guardarono
attorno: nell’aula di musica rimanevano soltanto loro, Kyouya e Honey-senpai.
Gli altri mancavano ormai da
diversi minuti. I due fratelli si scambiarono una medesima occhiata quasi
preoccupata.
«Dobbiamo andare a cercarli?»
chiese Hikaru.
L’altro ebbe una smorfia. «Tamaki starà importunando Haruhi e Mori-senpai starà
cercando di “salvarla”. Nulla di allarmante» disse,
sorseggiando il suo Earl Grey.
«Forse hai ragione», accondiscese
il gemello, mordicchiandosi, però, il labbro.
Quei tre mancavano da tanto tempo.
Si diede dello stupido nel sentire la loro “mancanza”, dopotutto loro erano
sempre stati soli, quei tre non facevano alcuna differenza.
Erano sempre e solo stati lui e
Kaoru, nessun intruso, nessun legame. Neanche i loro genitori erano riusciti a
farsi strada in quella fitta foresta che avevano creato solo per loro.
“Loro”
Quattro lettere che racchiudevano
un mondo.
Il mondo di Hikaru e Kaoru.
Il mondo a cui a nessuno era
concesso entrare.
Il Loro mondo.
Hikaru sospirò. Quello era quanto
si sarebbe potuto dire anche solo l’anno prima, ma ormai, sì, c’erano degli
intrusi.
Il concetto di “loro” s’era ormai
allargato, e parte di quel concetto era “disperso” per la scuola da troppo
tempo.
«Fai quello che vuoi, io vado a
cercarli,» annunciò, usando un tono un po’ troppo
brusco. Forse gli dava fastidio quella considerazione tutta nuova che aveva
fatto.
Uscì dall’aula, tutto sommato
felice di sentire i passi del gemello dietro di lui.
Cominciarono a chiamare a gran
voce i tre colleghi dell’Host Club, controllando tutte le aule dei corridoi che
setacciavano.
Dopo meno di cinque minuti di
ricerca, Kaoru indicò al gemello un punto in fondo al corridoio del secondo
piano.
Entrambi sgranarono gli occhi.
Quella accasciata contro il muro, col viso nascosto tra le mani e la schiena
tremolante era senza ombra di dubbio Haruhi. Le andarono vicino, ma solo Hikaru
ebbe il “coraggio” di posarle una mano sulla spalla e domandarle se fosse
successo qualcosa.
Come risvegliata da uno stato di
trance per entrarne in uno di pazzia, la ragazza alzò lo sguardo vacuo per poi
scoppiare a ridere, mormorando parole di cui i gemelli capirono solo “regina”.
[La sorellona era testarda,
il fratellino era intelligente,
ma loro andarono troppi vicini alla prima Alice.
Non si risvegliarono mai più da quel sogno consumato,
e giacquero per l'eternità nel Paese delle Meraviglie.
]
I due si
scambiarono un medesimo sguardo preoccupato. Non era da lei comportarsi così,
anzi, non era da nessuno.
«Troppo
stress?» propose Hikaru.
L’altro
scosse la testa, Haruhi non era una che si lasciava avvolgere dallo stress in
quel modo, era troppo forte per quello.
«Portiamola
nell’aula di musica e poi andiamo a cercare gli altri. Se è stato Lord a
ridurla in questo stato, è la volta buona che lo picchio»
annunciò, infervorato.
Fecero per
prenderla in braccio, ma la ragazza si divincolò come una furia, mandando a
monte ogni loro tentativo.
«Senti»
esordì Kaoru. «Prima cerchiamo Tamaki-senpai e Mori-senpai, così potranno darci
una mano».
Il
gemello annuì e ripartirono alla ricerca.
Poco distante
c’era una porta che sembrava non volerne sapere di aprirsi. Era l’aula di
chimica.
Non
potevano sapere che era l’aula dov’era imprigionato Mori-senpai, ma neanche lui
faceva molto per farlo capire.
Non aveva
fatto il minimo rumore nell’alzarsi e avvicinare l’orecchio alla porta. Takashi
sentì le due voci perfettamente conosciute e tutto gli fu chiaro:
Gli
appassionati di scherzi? I gemelli.
Quelli
che non capivano mai dove stava il limite? I gemelli.
Quelli a
cui non importava nulla della tranquillità altrui? I gemelli.
La
soluzione era così semplice che pure un bambino delle elementari ci sarebbe
potuto arrivare: ad imprigionarlo in quell’aula vuota erano stati Hikaru e
Kaoru.
Proprio
quest’ultimo notò sul pavimento una chiave argentea e, senza riflettere, la
utilizzò per aprire la porta.
Takashi,
dopo aver compreso che i colpevoli non potevano che essere quei due, aveva
afferrato il bastone e, senza pensarci due volte, una volta aperta la porta li
colpì.
Un’improvvisa
soddisfazione si fece strada in lui: finalmente aveva colpito un bersaglio
reale, come se ciò scongiurasse la sua pazzia.
La
soddisfazione, però, durò ben poco. Il rumore all’interno della sua testa non
era sparito.
Accresceva.
Accresceva
senza sosta, senza riguardo, senza inibizioni, senza scrupoli… un po’ com’era
stato lui nell’aggredire due persone solo per dei semplici sospetti.
* * * * * * * * * * * * * *
Una lunga
risata si propagò nell’aria, ma era ben diversa dalle altre che Takashi aveva
“sentito”. Era viva, decisamente allegra e fiera.
Renge
fece il suo ingresso nell’aula, armata della sua fedele telecamera.
«Ottima
interpretazione, decisamente ottima interpretazione» disse, iniziando un
monologo delirante.
Mori-senpai
non si scompose, ormai aveva capito da tempo che quella ragazza era fatta così
e basta.
I due
gemelli si alzarono dal pavimento.
«Certo
che per un attimo ho creduto che ci avresti colpito sul serio» borbottò Kaoru,
mentre l’altro annuiva.
Tamaki li
raggiunse, osservando disgustato la vernice rossa che gl’imbrattava metà testa
e la parte superiore della giacca azzurra dell’Ouran. «Ma voi due non dovevate
passare pure per il cortile, fingervi terrorizzati alla vista del mio magnifico
corpo senza vita e tentare di chiamare la polizia per poi notare che non c’era
campo nell’intera area della scuola?» domandò ai due Hitachiin.
«Scusa,
ci siamo dimenticati… dopotutto Renge ci ha spiegato tutto solo dopo che
Honey-senpai aveva letto l’inizio del Drama» si
giustificò Hikaru, facendo una linguaccia.
Pure
Haruhi, con il viso stanco, si avvicinò al gruppetto. «Però… Honey-senpai ha
fatto la parte del Piccolo Sogno Mori-senpai la Prima Alice, Tamaki-senpai la Seconda,
io la Terza e Hikaru e Kaoru la Quarta… cos’ha fatto Kyouya-senpai?» S’informò
la ragazza, passandosi una mano tra i capelli e strofinandosi gli occhi.
Renge si
trattenne a stento dal ridere, «Non ditelo a nessuno» esordì a bassa voce. «Ma penso
che a Kyouya questo Drama faccia un pochino paura: ha
insistito per rimanere all’aula di musica a mettere in ordine i file del Club»
concluse.
Gli altri
si guardarono esterrefatti per qualche secondo, per poi scoppiare a ridere di
gusto.
L’ennesimo
spreco di energie per aumentare la cassa dell’Host Club e fare contente quelle
ragazzine urlanti ansiose di novità… e il “vero capo che regnava nell’ombra”
non s’era neanche degnato di partecipare.
Haruhi si
congedò dal gruppo, dicendo che doveva assolutamente andare a casa a studiare.
“E
questo, come minimo, vale metà del mio debito… sono distrutta” si ritrovò a
pensare con, però, un gran sorriso sulle labbra.
Scleri vari/Note autrice:
Fanfiction terza classificata
all’”Host Club Plot Bunny” indetto dalla Writers Arena.
Nata da psicosi varie, manie
suicide e il mio recente interesse per tutto ciò che è macabro.
Dedicata principalmente alla Nyay
(mi manchi tantissimo .__. Mi spiace di non poterci essere in questo periodo,
mi dispiace un sacco .__.), ma un pochino anche a Pellegrina-sama e a Mori-chan
(giusto per farmi perdonare il periodo nero, menefreghista, apatico a livelli
inimmaginabili et similia).
A dire la verità, nell’idea
iniziale la storia finiva male perché
non era previsto che fosse solamente una recita, nella storia originali tutti i
personaggi perdevano sul serio la ragione e tutto avrebbe dovuto concludersi nella solita spirale negative senza fine e senza uscita… ma
tutto ciò non sarebbe andato a braccetto col tema del contest, perciò… Teste
mobili *^*.
Ps: il “Teste
mobili” non c’entra una emerita mazza, ma ultimamente sono in fissa con
Fabri Fibra ù_u