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Autore: Bad A p p l e    05/08/2010    4 recensioni
Mitsukuni non stava mangiando dolci.
Si limitava a leggere uno dei libricini che Renge aveva lasciato sul tavolo.
Il piccolo sbadigliò e posò ciò che stava sfogliando per afferrare un secondo libro ed iniziare a leggerlo ad alta voce.
«“In qualche luogo ci fu un sogno, chi lo sognò era ignoto. Era un sogno davvero piccolino. Esso pensò: -Non voglio svanire nel nulla in questo modo, come posso convincere la gente a guardarmi?-”»
Genere: Drammatico, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: Contenuti forti
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Apparentemente era una giornata normale

 

 

 

-{Alice Human Sacrifice.

Prompt 000: ///.

(3409 parole)

 

Apparentemente era una giornata normale.

“Apparentemente”, parola molto bizzarra, invero. Se si inizia con un “apparentemente” significa che le cose, in realtà, non stanno così.

Erano mesi che si parlava di quella gita scolastica fuoriporta ad Akihabara, ma all’ultimo l’intero Host Club s’era tirato indietro, provocando proteste accese tra le ragazze che solo Tamaki ebbe il potere di placare. Ad essere sinceri non gli ci volle neanche molto: gli bastò un sorriso e la rassicurazione che sarebbero mancati alla gita per preparare una sorpresa per loro, ma neanche lo stesso Tamaki aveva idea del perché non partecipassero a quella gita, anzi… lui ci teneva! Non era mai stato ad Akihabara.

Erano stati Renge e Kyouya a decidere per tutti e se le motivazioni della ragazza rimanevano del tutto ignote, secondo il giovane quella era un’occasione irripetibile per gestire gli affari del Club senza quell’orda di ragazzine infoiate tra i piedi.

Gli unici a darsi da fare furono Mori-senpai e Haruhi decidendo di dare una pulita generale all’aula di musica e Kyouya mettendo apposto il Database del Club e i vari “documenti”.

I gemelli si limitarono a tormentare Tamaki, mentre Honey-senpai leggeva.

Mitsukuni non stava mangiando.

Mitsukuni non stava mangiando dolci.

Si limitava a leggere uno dei libricini che Renge aveva lasciato sul tavolo.

Il piccolo sbadigliò e posò ciò che stava sfogliando per afferrare un secondo libro ed iniziare a leggerlo ad alta voce.

«“In qualche luogo ci fu un sogno, chi lo sognò era ignoto. Era un sogno davvero piccolino. Esso pensò: -Non voglio svanire nel nulla in questo modo, come posso convincere la gente a guardarmi?-»

Senza un apparente motivo, l’espressione di Takashi si fece cupa e prese a spazzare con più forza il pavimento. Solo Haruhi se ne accorse e gli sorrise, strizzandogli l’occhio.

La ragazza sparì per diversi secondi, durante i quali Mitsukuni continuò imperterrito a leggere con entusiasmo la storiella.

«“Il piccolo sogno continuò a pensare e pensare, e alla fine ebbe un'idea: -Se la gente continuasse a vagare in me, potrei renderla il mio mondo!-”…»

«Honey-senpai, ti va una fetta di torta?» lo interruppe Haruhi, mettendogli davanti un piattino con una bella fetta di torta alla melassa. Gli occhi del piccolo s’illuminarono. «Itadakimasu!», si limitò ad esclamare, esaltato.

«Va tutto bene?» domandò Fujioka a bassa voce, una volta avvicinatasi a Mori-senpai. Lui si limitò a mormorare un “grazie”.

Apparentemente era una giornata normale.

Apparentemente.

 




[La prima Alice era la Guerriera di Picche.
Lei coraggiosamente vagava per il Paese delle Meraviglie,
brandendo la sua spada.
Distrusse tutto ciò che trovò sul suo cammino,
creando un suo sentiero rosso di sangue.]

 

Takashi lanciò una breve occhiata a Mitsukuni che ora dormicchiava tranquillamente, poi mormorò sottovoce qualcosa riguardante l’andare a restituire dei libri alla biblioteca scolastica.

Sembrò aver perso l’udito quando Tamaki gli fece notare che tutti erano ad Akihabara e di conseguenza in biblioteca a ritirargli i libri non ci sarebbe stato nessuno.

Uscì dall’aula di musica ed iniziò a camminare con passo lento, quasi strascicato. Dopotutto non aveva fretta.

Era solo una normale giornata in cui la scuola era totalmente deserta e in cui Mitsukuni aveva iniziato a leggere una stupida storiella; inquietante da far schifo, sì, ma solo una stupida storiella.

Sentì un fruscio dietro di lui e senza riflettere afferrò la scopa che i “domestici” dovevano aver dimenticato in corridoio. Si voltò di scatto, affondando… peccato che non ci fu nulla su cui affondare.

«Eppure…»

Una lieve risata schernitrice lo fece voltare di nuovo, questa volta, però, mantenne solo la posizione di guardia, constatando che non c’era nuovamente nessuno.

Fendette l’aria. Perché smettere? Dopotutto lui era un guerriero! Lo era sempre stato, e aveva affrontato mille battaglie, più che altro tra sé e sé, ma pur sempre battaglie.

La sua testa si riempì di suoni, fruscii, sogghigni, pianti e a lui non rimase altro che bloccarsi la testa tra le mani- come se ciò avesse potuto fermare il rumore stesso- e intimarsi di stare calmo.

Provò a inspirare ed espirare profondamente diverse volte, prima di arrendersi al fatto che a nulla sarebbe servito.

Chiuse gli occhi, scuotendo la testa, ma nelle sue palpebre parvero scoppiare dei fuochi d’artificio.

Riaprì gli occhi, chiuderli s’era rivelato un gesto enormemente stupido ed inutile.

Un ghigno s’impadronì del suo viso e ricominciò a fendere l’aria, combattendo contro nemici inesistenti.

Fendenti e affondi si susseguirono senza sosta, come se non riuscisse più a fermarsi, come se avesse perso ogni volontà, mentre il rumore non accennava a smettere.

 


[Questa Alice fu condotta nel cuore della foresta
e imprigionata come una peccatrice;
se non fosse stato per la sua via di sangue,
la sua vita sarebbe stata dimenticata.]

 


Il suo respiro si fece affannoso, ma non si fermò, nella speranza che il rumore gettasse le armi per primo, mettendo fine a quella assurda e pittoresca battaglia.

I suoni parvero allontanarsi e lui, come ipnotizzato da suo stesso disagio, li seguì come un sonnambulo, fino ad arrivare all’apice del rumore.

Il frastuono lo aveva portato in un’aula che riconobbe come il laboratorio di chimica, e lì ricominciò a combattere il Nulla, finché non si accorse della piccola nota stonata che ad un primo esame sembrava di poco conto.

Si avvicinò alla porta che s’era chiusa da sola, governata da un vento inesistente. Provando a riaprirla scoprì che era stata chiusa a chiave.

Qualcuno aveva avuto la brillante idea d’imprigionarlo.

La cosa peggiore era che il rumore al posto di diminuire non faceva che aumentare a dismisura.

Urlò, colpì la porta col manico di scopa, non riuscendo neanche a scalfirne il legno, ed urlò ancora, per scoprire che il frastuono nella sua testa non era altro che la sua stessa voce.

Fece silenzio.

L’aula di musica era troppo lontana, era impensabile che qualcuno l’avesse sentito strepitare. Per quanto tempo sarebbe rimasto rinchiuso?
Chi –cosa- l’aveva imprigionato?

Decise che la cosa non gl’importava.

Prima o poi qualcuno l’avrebbe trovato e allora sarebbe stato libero di uscire e continuare la sua lotta contro chi l’aveva confinato lì.

E se, come per il fatto del rumore, fosse semplicemente tutta colpa sua?

Non prese neanche in considerazione quell’ipotesi, si limitò a sedersi a gambe incrociate sul pavimento, attendendo in guardia che qualcuno –salvatore o colpevole- lo trovasse.



[La seconda Alice era il Fante di Quadri.
Lui dolcemente cantava una canzone per il Paese delle Meraviglie;
provò a superare il limite del suono,
creando così un mondo pazzo.]


 

Tamaki raggiunse un compromesso con i due gemelli: Loro l’avrebbero lasciato in pace se lui avesse suonato il pianoforte.

Con un sospiro sollevò l’asse di legno laccato che custodiva gelosamente i tasti dello strumento.

Provava un brivido ogni volta che li sfiorava, in quei momenti erano solo lui e la sua musica a tenergli compagnia, ad impedirgli di perdersi nei meandri della sua stessa mente; perdersi tra tristi pensieri, ricordi fuggevoli e cose non dette.

Un sorriso mesto gli rovinò le labbra; si maledisse e maledì pure il pianoforte. Forse era per quel motivo che non riusciva a far altro che mostrare la faccia di un Tamaki allegro e frizzante, nascondendo il se stesso che soffriva come un cane: perché utilizzava le note per proteggersi da quei pensieri, per impedire che la sua anima affrontasse quei discorsi che voleva tenere segregati in un piccolo e buio angolo.

Lui si abbandonava alla musica, permettendo alle note di scivolargli addosso, di irradiarlo di quella luce che sapeva solo di fittizio ed ingannevole.

Prese a pigiare tasti e risuccesse.

Tutto svanì.

La collera che provava per se stesso –per la sua debolezza-, la collera che provava per il pianoforte; tutto divenne privo d’importanza.

Le uniche cose che realmente contavano erano la perfetta esecuzione e il riempire di suoni il vuoto che lo torturava di giorno in giorno.

Era la sua droga. La musica aveva il potere di stregare Tamaki Suou più di come avrebbe potuto fare persino Haruhi –più di quanto avrebbe potuto fare qualsiasi persona, infondo-. Le note continuarono a susseguirsi, magnifiche e perfette… forse troppo magnifiche e perfette per quel luogo.

Cominciò, dunque, a sentirsi stretto, estraneo nella stessa dimensione che lui stesso aveva creato.

Perché la mancanza di pensieri rende folli.

Se non aveva nulla a cui pensare –nessun rimpianto, nessun dispiacere, ma neanche alcun ricordo felice, alcuna gioia- che senso aveva rimanere lì?

Sarebbe scappato?

Avrebbe fatto la scelta più semplice, come sempre.

Un’ultima nota forte, sofferta, e le sue dita smisero di sfiorare i tasti. Sorrise, di uno dei suoi sorrisi più falsi, e annunciò che sarebbe andato a prendere una boccata d’aria.


[Questa Alice aveva un bel giardino di rose scarlatte,
ma un giorno il Cappellaio Matto gli sparò.
Egli divenne rosso come il suoi fiori…
tutti lo amavano, e infine lui morì.]


Arrivò fino al cortile, prima di rendersi conto che, nonostante avesse smesso da diversi minuti di suonare, i suoi pensieri non sembravano essere tornati.

Si chiese se non fosse diventato realmente pazzo, prima di realizzare che, anche se avesse ammesso a se stesso una cosa del genere, non sarebbe cambiato nulla.

I suoi piedi si muovevano meccanicamente, senza che la testa avesse controllo sulla meta.

Non riuscì a non sorridere, quando vide dove lo stavano portando le sue gambe: il giardino di rose rosse della scuola.

Il posto che lui solo riusciva ad apprezzare pienamente tra tutti quelli che lo attraversavano ogni giorno.

Si sdraiò su una panca in marmo e si rigirò tra le dita uno di quei magnifici fiori.

L’osservò in ogni minimo particolare, in ogni sfaccettatura.

Solo in quel momento si rese conto di che colore magnifico fosse il rosso. Esistevano migliaia di sfumature annesse a quel colore, quelle stesse rose non erano altro che una gradazione…

…ma quale?

Tamaki venne colto subito da un feroce dubbio.

In situazioni normali l’avrebbe considerata una cosa di poco conto, ma in quel momento non aveva pensieri, in quel momento era rinchiuso nella sua dimensione di follia.

E’ rosso scarlatto o rosso sangue?

Sorrise, riflettendo su quell’enigma al momento tanto affascinante.

Il suo occhio cadde sul manto erboso: a pochi centimetri dalla panca c’era una… pistola?

“Cosa ci fa una pistola nel giardino di una scuola?” si chiese, prima di giungere alla conclusione che la cosa importava decisamente poco.

La cosa fondamentale era che quello strumento capitava al momento giusto! Poteva dissipare ogni suo dubbio.

Si puntò con lentezza maestosa la pistola alla tempia e premette il grilletto.

Sì, decisamente rosso sangue.



[La terza Alice era la fanciulla di fiori.
Era di bell'aspetto e amata, nel Paese delle Meraviglie.
Per tutte le persone da lei illuse
fu creato un paese bizzarro.]


Haruhi sbadigliò sonoramente e diede un’occhiata ad un armadio a cui non aveva mai fatto caso prima. Lo aprì e non riuscì a trattenere una smorfia.

Polvere.

Sembrava non venir aperto da secoli, anche se era praticamente impossibile, ogni sera l’istituto veniva pulito da cima a fondo senza tralasciare neanche l’angolo più nascosto.

Decise che il pensare a come fosse possibile la presenza di tutta quella polvere non sarebbe servito a farla sparire.

Con un sospiro uscì dall’aula di musica, in cerca di un panno e dei prodotti per pulire. Si guardò bene attorno, cercando di ricordare quando fosse stata l’ultima volta che aveva avuto quella solitudine tutta per lei, l’ultima volta che aveva visto vuoti quei larghi corridoi maestosi.

Ormai erano mesi che non provava più il sapore della tranquillità, i suoi pomeriggi erano totalmente assorbiti tra la frenesia dell’Host Club e lo studio.

Con un cupo sospiro si fece scivolare contro la parete, i suoi pensieri erano arrivati alla nota dolente della sua attuale vita.

Pensò a tutte quelle ragazzine che stava prendendo in giro fingendosi un ragazzo. Se c’era una cosa che non sopportava era far soffrire le persone, ma la verità prima o poi sarebbe venuta a galla e delle lacrime sarebbero state inevitabili.

Neanche il pensiero che, dopotutto, pure i suoi colleghi dell’Host Club imbrogliavano bellamente quelle ragazzine riusciva a consolarla.

«Quand’è che ho cominciato a fingere, per l’esattezza?» si domandò a bassa voce. «I sentimenti di quante persone ho calpestato con la stessa flemma di quando vado a fare la spesa?».

Sospirò ancora, cercando di scacciare via quei pensieri come se fossero delle mosche moleste. Non era stata una sua scelta. Non aveva deciso lei di piazzare quel dannato vaso nel centro di una stanza rendendo tremendamente semplice il farlo cadere. Lei non c’entrava nulla.

«Però sono stata io ad illudere tutta questa gente…»


[Quest'Alice ne fu la regina,
ma fu posseduta da un sogno distorto.
E in un corpo putrefatto
continuò a vagare per tutto il Paese.]

Haruhi si guardò attorno, dopotutto quello era il suo mondo.

Sì, non c’era altro modo di vedere le cose!

Piaceva alle ragazzine che stava bellamente imbrogliando e –lo sapeva perfettamente, era palese- piaceva anche all’intero Host Club!

Lei era la regina di quell’assurdo mondo fatto di bugie ed imbrogli.

Improvvisamente si mise a ridere, di una risata sguaiata, folle, non sua. Se fino a quel momento era stata Haruhi Fujioka, in quell’istante s’era rotto qualcosa.

Alcuni la chiamano sanità mentale.

«Sono la regina, sono la regina!» Disse, senza smettere quell’assurda risata isterica.

«Non c’è nulla che mi possa scalfire, sono la regina, la regina incontrastata», boccheggio, quasi soffocata dalle risa.

Scivolò sul freddo pavimento, continuando senza posa nella sua risata.

In quel momento non c’era nulla –nulla!- di più esilarante della sua nuova presa di posizione.

In un barlume di lucidità si chiese se ne valesse la pena, ma lei era la regina! Per lei tutto valeva la pena!

Tutto era suo.

Tutto le apparteneva.

Solo la coscienza di se stessa cominciò a scivolarle via velocemente, a ritmo delle sue risa incontrollate.

 


[Durante ciò due ragazzini attraversarono la foresta
e bevvero il tè vicino ad un cespuglio di rose.
Il loro invito per il castello era
una carta di cuori.

La quarta Alice erano i gemelli di cuori.
Trascinati dalla loro curiosità nel Paese delle Meraviglie,
loro attraversarono diverse porte
e finalmente arrivarono.]


Hikaru e Kaoru si guardarono attorno: nell’aula di musica rimanevano soltanto loro, Kyouya e Honey-senpai.

Gli altri mancavano ormai da diversi minuti. I due fratelli si scambiarono una medesima occhiata quasi preoccupata.

«Dobbiamo andare a cercarli?» chiese Hikaru.

L’altro ebbe una smorfia. «Tamaki starà importunando Haruhi e Mori-senpai starà cercando di “salvarla”. Nulla di allarmante» disse, sorseggiando il suo Earl Grey.

«Forse hai ragione», accondiscese il gemello, mordicchiandosi, però, il labbro.

Quei tre mancavano da tanto tempo. Si diede dello stupido nel sentire la loro “mancanza”, dopotutto loro erano sempre stati soli, quei tre non facevano alcuna differenza.

Erano sempre e solo stati lui e Kaoru, nessun intruso, nessun legame. Neanche i loro genitori erano riusciti a farsi strada in quella fitta foresta che avevano creato solo per loro.

“Loro”

Quattro lettere che racchiudevano un mondo.

Il mondo di Hikaru e Kaoru.

Il mondo a cui a nessuno era concesso entrare.

Il Loro mondo.

Hikaru sospirò. Quello era quanto si sarebbe potuto dire anche solo l’anno prima, ma ormai, sì, c’erano degli intrusi.

Il concetto di “loro” s’era ormai allargato, e parte di quel concetto era “disperso” per la scuola da troppo tempo.

«Fai quello che vuoi, io vado a cercarli,» annunciò, usando un tono un po’ troppo brusco. Forse gli dava fastidio quella considerazione tutta nuova che aveva fatto.

Uscì dall’aula, tutto sommato felice di sentire i passi del gemello dietro di lui.

Cominciarono a chiamare a gran voce i tre colleghi dell’Host Club, controllando tutte le aule dei corridoi che setacciavano.

Dopo meno di cinque minuti di ricerca, Kaoru indicò al gemello un punto in fondo al corridoio del secondo piano.

Entrambi sgranarono gli occhi. Quella accasciata contro il muro, col viso nascosto tra le mani e la schiena tremolante era senza ombra di dubbio Haruhi. Le andarono vicino, ma solo Hikaru ebbe il “coraggio” di posarle una mano sulla spalla e domandarle se fosse successo qualcosa.

Come risvegliata da uno stato di trance per entrarne in uno di pazzia, la ragazza alzò lo sguardo vacuo per poi scoppiare a ridere, mormorando parole di cui i gemelli capirono solo “regina”.

 

[La sorellona era testarda,
il fratellino era intelligente,
ma loro andarono troppi vicini alla prima Alice.

Non si risvegliarono mai più da quel sogno consumato,
e giacquero per l'eternità nel Paese delle Meraviglie.

 ]

 

I due si scambiarono un medesimo sguardo preoccupato. Non era da lei comportarsi così, anzi, non era da nessuno.

«Troppo stress?» propose Hikaru.

L’altro scosse la testa, Haruhi non era una che si lasciava avvolgere dallo stress in quel modo, era troppo forte per quello.

«Portiamola nell’aula di musica e poi andiamo a cercare gli altri. Se è stato Lord a ridurla in questo stato, è la volta buona che lo picchio» annunciò, infervorato.

Fecero per prenderla in braccio, ma la ragazza si divincolò come una furia, mandando a monte ogni loro tentativo.

«Senti» esordì Kaoru. «Prima cerchiamo Tamaki-senpai e Mori-senpai, così potranno darci una mano».

Il gemello annuì e ripartirono alla ricerca.

Poco distante c’era una porta che sembrava non volerne sapere di aprirsi. Era l’aula di chimica.

Non potevano sapere che era l’aula dov’era imprigionato Mori-senpai, ma neanche lui faceva molto per farlo capire.

Non aveva fatto il minimo rumore nell’alzarsi e avvicinare l’orecchio alla porta. Takashi sentì le due voci perfettamente conosciute e tutto gli fu chiaro:

Gli appassionati di scherzi? I gemelli.

Quelli che non capivano mai dove stava il limite? I gemelli.

Quelli a cui non importava nulla della tranquillità altrui? I gemelli.

La soluzione era così semplice che pure un bambino delle elementari ci sarebbe potuto arrivare: ad imprigionarlo in quell’aula vuota erano stati Hikaru e Kaoru.

Proprio quest’ultimo notò sul pavimento una chiave argentea e, senza riflettere, la utilizzò per aprire la porta.

Takashi, dopo aver compreso che i colpevoli non potevano che essere quei due, aveva afferrato il bastone e, senza pensarci due volte, una volta aperta la porta li colpì.

Un’improvvisa soddisfazione si fece strada in lui: finalmente aveva colpito un bersaglio reale, come se ciò scongiurasse la sua pazzia.

La soddisfazione, però, durò ben poco. Il rumore all’interno della sua testa non era sparito.

Accresceva.

Accresceva senza sosta, senza riguardo, senza inibizioni, senza scrupoli… un po’ com’era stato lui nell’aggredire due persone solo per dei semplici sospetti.

*       *       *       *       *       *       *       *       *       *       *       *       *       *

Una lunga risata si propagò nell’aria, ma era ben diversa dalle altre che Takashi aveva “sentito”. Era viva, decisamente allegra e fiera.

Renge fece il suo ingresso nell’aula, armata della sua fedele telecamera.

«Ottima interpretazione, decisamente ottima interpretazione» disse, iniziando un monologo delirante.

Mori-senpai non si scompose, ormai aveva capito da tempo che quella ragazza era fatta così e basta.

I due gemelli si alzarono dal pavimento.

«Certo che per un attimo ho creduto che ci avresti colpito sul serio» borbottò Kaoru, mentre l’altro annuiva.

Tamaki li raggiunse, osservando disgustato la vernice rossa che gl’imbrattava metà testa e la parte superiore della giacca azzurra dell’Ouran. «Ma voi due non dovevate passare pure per il cortile, fingervi terrorizzati alla vista del mio magnifico corpo senza vita e tentare di chiamare la polizia per poi notare che non c’era campo nell’intera area della scuola?» domandò ai due Hitachiin.

«Scusa, ci siamo dimenticati… dopotutto Renge ci ha spiegato tutto solo dopo che Honey-senpai aveva letto l’inizio del Drama» si giustificò Hikaru, facendo una linguaccia.

Pure Haruhi, con il viso stanco, si avvicinò al gruppetto. «Però… Honey-senpai ha fatto la parte del Piccolo Sogno Mori-senpai la Prima Alice, Tamaki-senpai la Seconda, io la Terza e Hikaru e Kaoru la Quarta… cos’ha fatto Kyouya-senpai?» S’informò la ragazza, passandosi una mano tra i capelli e strofinandosi gli occhi.

Renge si trattenne a stento dal ridere, «Non ditelo a nessuno» esordì a bassa voce. «Ma penso che a Kyouya questo Drama faccia un pochino paura: ha insistito per rimanere all’aula di musica a mettere in ordine i file del Club» concluse.

Gli altri si guardarono esterrefatti per qualche secondo, per poi scoppiare a ridere di gusto.

L’ennesimo spreco di energie per aumentare la cassa dell’Host Club e fare contente quelle ragazzine urlanti ansiose di novità… e il “vero capo che regnava nell’ombra” non s’era neanche degnato di partecipare.

Haruhi si congedò dal gruppo, dicendo che doveva assolutamente andare a casa a studiare.

“E questo, come minimo, vale metà del mio debito… sono distrutta” si ritrovò a pensare con, però, un gran sorriso sulle labbra.

 

 

 

Scleri vari/Note autrice:

Fanfiction terza classificata all’”Host Club Plot Bunny” indetto dalla Writers Arena.

Nata da psicosi varie, manie suicide e il mio recente interesse per tutto ciò che è macabro.

Dedicata principalmente alla Nyay (mi manchi tantissimo .__. Mi spiace di non poterci essere in questo periodo, mi dispiace un sacco .__.), ma un pochino anche a Pellegrina-sama e a Mori-chan (giusto per farmi perdonare il periodo nero, menefreghista, apatico a livelli inimmaginabili et similia).

A dire la verità, nell’idea iniziale la storia finiva male perché non era previsto che fosse solamente una recita, nella storia originali tutti i personaggi perdevano sul serio la ragione e tutto avrebbe dovuto concludersi nella solita spirale negative senza fine e senza uscita… ma tutto ciò non sarebbe andato a braccetto col tema del contest, perciò… Teste mobili *^*.

 

 

Ps: il “Teste mobili” non c’entra una emerita mazza, ma ultimamente sono in fissa con Fabri Fibra ù_u

 

 

 



   
 
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