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Autore: _Syn    08/08/2010    11 recensioni
8059 - Ten Years later ma Pre-Future!Arc - Scritta per la bingo_italia community.
“Crede di essere l’unico a soffrire, che sia colpa sua. Un pugno gli farebbe solo piacere.” replicò Yamamoto. “E assecondarlo sarebbe come dirgli di suicidarsi.”
Anche se lo sapeva. Hayato aspettava solo lui, aspettava che abbandonasse quell’atteggiamento da bravo ragazzo, sempre pronto a perdonare e sorridere, e lo pestasse a sangue. Lo sapeva che lo stava aspettando. L’umiliazione che aveva dovuto sopportare era diventata una valanga, ora ne esigeva altra, perché sentiva di meritarla.
Dannato idiota...
“E allora cosa dobbiamo fare? Lasciarlo lì?” Ryohei batté un pugno sul tavolo, facendolo tremare. La tazza di tè che Fuuta aveva poggiato lì si rovesciò e rivoli d’ambra macchiarono la tovaglia, scivolando via, come scuse silenziose, come lamenti bagnati, come sussurri caldi. Quando la prima goccia toccò il pavimento, Yamamoto si alzò in piedi.
“Gli parlerò.”
Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Hayato Gokudera, Ryohei Sasagawa, Takeshi Yamamoto
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Autrice: AlexielFay
Fandom: Katekyo Hitman Reborn
Personaggi: Gokudera Hayato, Yamamoto Takeshi, Ryohei Sasagawa
Pairing: 8059 [YamamotoxGokudera]
Genere: Introspettivo, Angst, Triste
Rating: Arancione
Avvertimenti: OneShot, Shounen-ai, Missing moment, Spoiler Future!Arc

Prompt: Addio

Link alla community: http://community.livejournal.com/bingo_italia/
Link alla tessera
: http://alexiel-fay.livejournal.com/20132.html



Goodbye for now




E’ ancora chiuso lì dentro?”

Da tre giorni, ormai.”

C’era il profumo del tempo che stagnava immobile tra le pareti e scivolava per inerzia lungo i visi grigi. Tutto sembrava più vecchio nonostante quella sensazione di totale stasi, tutto sembrava sul punto di collassare sotto il peso dei pochi secondi che avevano mandato ogni cosa all’inferno, senza possibilità di ritorno.

Yamamoto Takeshi, gli occhi bassi, stringeva ancora la katana, come se da un momento all’altro avesse dovuto usarla. Non aveva cercato di negare niente a se stesso, né la colpa, né l’evidenza. Forse la sua presa era così ferrea, ancora, solo perché era l’unica cosa a cui sentiva di doversi aggrappare per non cadere. Erano tutti fin troppo deboli, in quel momento, per potersi aggrappare l’uno all’altro. Erano tutti caduti in un torrente di oppressione e dolore, affogando nella debolezza del momento. Nessuno voleva chiedere aiuto a nessuno. Il tempo dell’egoismo si era ingiallito insieme alle foglie cadute. La tristezza di quell’autunno aveva seccato ogni richiesta di aiuto, eppure Takeshi sentiva che tutto era sbagliato. Sentiva che lui, ora non più insieme a loro, non avrebbe voluto tutto quello.

Dobbiamo parlargli! Prenderlo a pugni, se serve.” la voce di Ryohei suonò risoluta, come sempre, ma c’era qualcosa di diverso. Un tremore che si notò solo nel silenzio del dolore che li accomunava. Era una nota stonata, che vibrava e rendeva sbagliata ogni cosa. Perché non avrebbe dovuto essere così. Non avrebbero dovuto essere lì, seduti in una stanza vuota e misera, nella consapevolezza che...

Crede di essere l’unico a soffrire, che sia colpa sua. Un pugno gli farebbe solo piacere.” replicò Yamamoto. “E assecondarlo sarebbe come dirgli di suicidarsi.”

Anche se lo sapeva. Hayato aspettava solo lui, aspettava che abbandonasse quell’atteggiamento da bravo ragazzo, sempre pronto a perdonare e sorridere, e lo pestasse a sangue. Lo sapeva che lo stava aspettando. L’umiliazione che aveva dovuto sopportare era diventata una valanga, ora ne esigeva altra, perché sentiva di meritarla.

Dannato idiota...

E allora cosa dobbiamo fare? Lasciarlo lì?” Ryohei batté un pugno sul tavolo, facendolo tremare. La tazza di tè che Fuuta aveva poggiato lì si rovesciò e rivoli d’ambra macchiarono la tovaglia, scivolando via, come scuse silenziose, come lamenti bagnati, come sussurri caldi. Quando la prima goccia toccò il pavimento, Yamamoto si alzò in piedi.

Gli parlerò.”





Se fosse stato un giorno come un altro, avrebbe trovato Hayato seduto alla scrivania, impegnato a lavorare, gli occhiali sul naso e l’espressione concentrata. C’erano volte in cui non lo sentiva neanche arrivare e allora Yamamoto ne approfittava, sorprendendolo alle spalle e sorridendo prima di sfiorargli un orecchio con la punta del naso, in una carezza, e poi con le labbra, in un bacio leggero. Era divertente osservare la reazione scombinata di Hayato e poi schivare il colpo che arrivava, come sempre, violento e a caso. Diventava troppo nervoso quando gli si avvicinava in quel modo, perciò ogni proposito di ucciderlo svaniva e si ritrovava semplicemente a fissarlo con gli occhi luccicanti di imbarazzo e le guance rosse. Ce ne voleva sempre di tempo prima che lo lasciasse avvicinarsi ancora. Ma cedeva, alla fine, perché neanche lui poteva controllare i suoi desideri e, nel momento in cui venivano a coincidere con quelli del compagno, era inevitabile assecondarlo.

Yamamoto fermò la memoria, richiuse quei ricordi sereni e, più avanti, eccitanti, e si richiuse la porta alle spalle. Gokudera non era alla scrivania, non stava lavorando e non portava gli occhiali. Era semplicemente seduto su una sedia, la giacca nera poggiata allo schienale e i gomiti sulle ginocchia. Con le mani si teneva la testa e le dita attraversavano come aratri i capelli chiari. Non lo apostrofò in alcun modo, ma dopo qualche secondo sospirò e alzò il capo. Yamamoto capì subito i suoi occhi, lo stato in cui erano. Ad alcuni, a quelli che non lo conoscevano, sarebbe sembrato che stesse cercando in tutti i modi di trattenere le lacrime, definendo il perché di quella patina lucida. Ma Yamamoto riuscì a vedere anche le tracce rosse, capendo che il pianto c’era già stato.

Restò ancora in silenzio, zittito prima ancora di parlare dallo sguardo di Hayato. Il silenzio aveva qualcosa di innaturale; non era né imbarazzato né lieve e piacevole come quello che calava nelle giornate estive, quando la calura diventava talmente insopportabile che entrambi crollavano sul pavimento, magari con un ventilatore accanto e una ciotola di ciliegie dall’altro lato. Era un silenzio che si stava spezzando, che sorreggeva a malapena i loro respiri trattenuti e le parole in attesa di essere pronunciate o urlate. Schiacciava loro i polmoni e si piantava sulle orecchie come tappi incandescenti. Entrambi avevano bisogno di sentire la voce l’uno dell’altro. Così tanto che sarebbe bastato anche solo un respiro sulle labbra a mandare via quella sensazione.

Hayato si alzò, senza dire una parola. Chiedergli come stava sarebbe stato stupido. Chiedergli come avrebbe voluto affrontare la cosa sarebbe stato un suicidio.

Abbiamo bisogno di te.” disse semplicemente Takeshi. Vide Hayato stringere un pugno e notò la terra che sporcava la camicia bianca. Doveva essere stato da qualche parte e non doveva essere stato un momento da ricordare o a cui assistere. Eppure, Takeshi sentiva che avrebbe volentieri assistito al suo inferno, mille e più volte, pur di poterlo avere vicino e condividere la sofferenza. Se prima era difficile avvicinarsi a lui e sfiorarlo, ora era quasi impossibile.

Come ne avete avuto quando...” la voce gli si spezzò. Non era neanche pronto ad ammettere la realtà, non era neanche pronto a ferire se stesso con la colpa che credeva di avere. L’immagine del corpo del Decimo che crollava, gli occhi spalancati per un attimo e le labbra dischiuse in un ultimo respiro o forse in una parola che loro non avevano potuto sentire, lo assillava a ogni ora.

Non è stata colpa tua, Gokudera.” replicò Yamamoto, calmo. “Il nemico era più forte di noi.”

L’altro si limitò a guardarlo con un’espressione indecifrabile, che avrebbe fatto retrocedere chiunque, ma non lui. Yamamoto conosceva ogni angolo del suo volto, ogni lato in ombra, ogni lembo di pelle. I suoi occhi avrebbe potuto riconoscerli anche voltato. Gli bastava che Hayato lo guardasse e lui sapeva che era lì e anche senza voltarsi poteva dire che espressione avesse. Non era magia, era solo che lui era stato il primo a vederlo piangere davvero. Era stato il primo a stringerlo tra le braccia mentre gli si aggrappava alle spalle e sospirava di piacere solo per lui. Era stato il primo per tante cose.

Perché sei qui?” tagliò corto Gokudera. Sapeva bene che non avrebbe parlato, che non gli avrebbe confidato nulla e che piuttosto si sarebbe impiccato, ma il dolore l’avrebbe tenuto per sé.

Te l’ho detto. Abbiamo bisogno di te.”

Io no.” pronunciò quelle due sillabe e sembrarono due proiettili sparati a distanza talmente ravvicinata che il cuore di Takeshi esplose in un lampo di dolore che si estese dal petto al resto del corpo in un secondo. In un secondo visse la morte e la discesa all’inferno.

Bugiardo.” disse comunque. Poteva anche essere una bugia quella che aveva detto, ma il modo in cui gli aveva sparato contro quel sentimento superava di gran lunga la distinzione tra verità e bugia. Andava a finire in un altro campo: non della compassione e neanche del lutto che non si può superare. Sfociava dove nessuno vuole essere aiutato, dove la salvezza brucia e non chiede aiuto. Sfociava nell’addio.

Pensala come vuoi.”

Vuoi andare via?” chiese Takeshi. Era quello che gli occhi di Gokudera dicevano.

Voglio finire quello che abbiamo iniziato.” uccidere Irie Shouichi. Vendicare Tsuna.

Avrebbe solo guadagnato un cuore nero e pieno di rancore se l’avesse fatto in quel modo. Avrebbe perso tutto ciò che aveva e probabilmente anche la vita. A quel punto, Yamamoto smise di chiedersi cosa era possibile fare quando si trattava di Gokudera.

Non andrai.”

Non dirmi cosa fare.”

Forse quella era l’unica mossa che l’avrebbe fermato ancora per un po’. Anche solo per picchiarlo, farlo sanguinare, vederlo al suolo ricoperto di umiliazione e ferite.

Tsuna non te lo perdonerebbe mai.” e nemmeno io. Ma non aggiunse quell’ultima frase, perché sapeva che i pensieri di Gokudera in quel momento erano rivolti solo a Tsuna. Ogni terminazione nervosa bruciava per lui e se stava in piedi era perché il dolore della perdita lo rendeva la bestia che c’era dentro di lui. “Infangherai la sua memoria in questo modo.”

Quelle parole ebbero l’effetto di una cannonata. Gokudera gli fu addosso in una frazione di secondo, affannato e rosso in viso. Era animato da una forza che si esauriva subito, esplodeva come un temporale estivo e durava giusto il tempo di amplificare ogni sensazione, anche il dolore, al massimo, per poi crollare. I loro visi di nuovo così vicini, separati da sentimenti innumerevoli, risvegliarono il passato. Quando Gokudera gli si era gettato contro, Yamamoto gli aveva avvolto un braccio intorno alla vita e aveva fermato il suo pugno con una mano. Era come se avesse fermato una delle sue palle da baseball con il guantone. Tutto questo senza mai smettere di guardarlo.

Gokudera...” sussurrò. Era fredda la sua schiena e la mano di Yamamoto aveva perso il calore che solitamente sentiva sulla pelle. Gli sembrava di andare a fuoco quelle volte.

Il Guardiano della Tempesta, gli occhi incastrati nello sguardo intenso e serio di Yamamoto, sentiva tremare il pugno nella mano di quest’ultimo. Sentiva il cuore battere e quello di Yamamoto soffrire in un rantolo soffocato, quasi inudibile. Quel modo in cui aveva affrontato tutto, con una calma distrutta solo raramente da sguardi increduli e pieni di dolore, era solo una maschera. Dentro, lui, si sentiva morire come chiunque altro. E mentre il cuore di Hayato continuava a battere furiosamente, urlando contro quello sofferente e debole dell’altro, un respiro smosse il silenzio.

Era ancora lì il sapore di Yamamoto, sulle sue labbra.

Abbiamo bisogno di te, Gokudera.” ripeté il Guardiano della Pioggia, allentando la presa sul pugno di Hayato. Questi, approfittando di quella debolezza, gli strinse il polso e con pochi passi rabbiosi raggiunse una parete e vi sbatté contro Yamamoto.

Non sei il Boss, non puoi parlare a nome di tutti.” urlò, sbattendo l’altra mano contro il muro, in corrispondenza del viso di Takeshi.

Sul volto di quest’ultimo passò ogni tipo di emozione, ogni emozione capace di prosciugare l’anima, ma furono le sue parole a costringere Gokudera a crollare definitivamente.

Ho bisogno di te.” perché anche un sorriso ha bisogno di essere guardato per risorgere.

Quattro parole a cui seguirono delle semplici mosse. La mano contro il muro che si spostava e afferrava la nuca di Yamamoto, urgente, e i visi che si scontravano in un bacio di disperazione. E poi, dove non c’era altro che l’oblio, l’unione della sofferenza e il silenzio frantumato. Senza saperlo, si stavano temporaneamente dicendo addio.

Quella era stata l’ultima volta che Yamamoto Takeshi aveva visto il Gokudera della propria epoca.

  
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