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Autore: Angeline Farewell    25/08/2010    2 recensioni
Pearl Jam.
[...]Eddie gli aveva fatto un cenno di saluto abbassando gli occhi sulle scarpe, non aveva nemmeno tentato di darsi un tono. Stone scosse la testa con un mezzo sorriso e gli si avvicinò invitandolo a sedersi sull’asfalto davanti al cancello d’ingresso, tanto per stare più comodi. Tentò anche di imbastire una conversazione di un qualche tipo, ma con Eddie non era tanto facile. Per lui almeno: Jeff gli aveva detto al contrario che il cantante era un gran chiacchierone, se ingranava poteva andare avanti a parlare per ore dimenticando persino di respirare. Ma con il bassista Eddie sembrava aver sentito un’intesa particolare da subito, probabilmente doveva solo dargli un po’ di tempo per sciogliersi. Anche sul palco.
Avevano già fatto qualche serata insieme, la prima dopo appena una settimana dall’arrivo del cantante a Seattle: a Mike era quasi preso un colpo, ma un po’ tutti avevano fissato Stone come se fosse impazzito. Solo Eddie era stato zitto e non aveva fatto nemmeno un’obiezione.
All’inizio aveva pensato quello fosse un punto a suo favore, aveva fegato ad accettare di mostrarsi così presto ad un pubblico sconosciuto che poteva risultare persino ostile visti i trascorsi e la dipartita recente di Andy. Ma dovevano pur cominciare, rimandare sarebbe stato inutile.
Eddie su quel palco all’Off Ramp gli aveva fatto ancora più tenerezza, però. Era più grande di Stone di quasi due anni, persino più prestante, ma gli faceva tenerezza comunque.
La prima cosa che aveva notato di lui quella sera era stata l’immobilità quasi totale. L’asta del microfono - regolata all’altezza minima, ma che lo sovrastava comunque di un paio di centimetri - quasi non la sfiorava neppure: cantava e basta. Guardava un punto imprecisato sopra le teste del pubblico con quei suoi incredibili occhi in cui il grigio e l’azzurro si fondevano per regalarti solo la pienezza del vuoto ancestrale della tristezza, e cantava.
Quella bella immagine non era del chitarrista però.
Era stato Jeff a suggerirgliela quella notte stessa dopo il concerto, mentre lo riaccompagnava a casa con il suo scassatissimo pick-up: era in quei momenti che Stone realizzava quanto era costato al bassista dover abbandonare i suoi studi e quel sogno di dipingere la vita con l’acido degli acrilici. [...]
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Quella mattina si era svegliato con un raggio di sole a solleticargli il naso e per un lunghissimo istante aveva perso la percezione del tempo e dello spazio: sole?

Eddie era tornato a Seattle da meno di una settimana, Halloween era passato da poco e da allora non aveva mai smesso di piovere.

Avrebbe dovuto capirlo da quel particolare che la giornata sarebbe scivolata giù storta, perché a Seattle non è quasi mai il sole a darti il buongiorno. A meno che non voglia farti dispetto facendoti pagare la colossale sbornia della sera prima.

Non era nello stato psico-fisico migliore, insomma, per la telefonata che, chissà perché, aveva deciso di fare prima di pranzo. È che a volte ne sentiva la nostalgia: a quasi ventisei anni non dovrebbe probabilmente più succedere, ma Karen gli mancava spesso. Anche se non riusciva a decidere fosse stata una buona madre o meno.

Forse non stava comunque a lui decidere, però.

“No mamma, non credo di poter tornare a Chicago per Natale. Lo so che ho saltato anche il Ringraziamento, ma non ho tempo. No mamma, non sto inventando scuse, e lo so che il bastardo non ci sarà, non è lui il problema e lo chiamo bastardo quanto mi pare.”

Non era solo lui il problema, almeno.

Il dolore cominciava a pulsargli più forte nelle tempie, quasi non riusciva a tenere gli occhi aperti e quel sole maledetto non lo aiutava. Inserì per sicurezza un altro quarto di dollaro nel telefono pubblico reprimendo un moto di stizza, perché non aveva alcuna voglia di continuare quella conversazione, ma allo stesso tempo voleva continuare a sentire la voce di sua madre e magari riuscire finalmente a spiegarle perchè capitava tanto di rado a Chicago. Ma ogni volta gli mancava il coraggio di scomodare la verità. Cosa avrebbe dovuto dirle, che non sopportava il modo in cui tutti lo guardavano? Che non sopportava il modo in cui lei lo guardava? Che ne aveva le tasche piene delle vecchie zie che aveva scoperto da tanto poco di avere che continuavano a toccarlo come fosse una reliquia e a raccontargli di quanto somiglia al suo povero papà, che bel ragazzo che era, che bel ragazzo che sei, hai proprio i suoi occhi, anche lui era tanto bravo a cantare, e suonava il pianoforte, hai ripreso sicuramente da lui, prendi un tortino di carne era il suo piatto preferito, ti piace il tortino?

No, il tortino gli faceva schifo anche solo guardarlo, era vegetariano da più di dieci anni, ma sembrava non interessasse a nessuno dei suoi nuovi parenti. Perché Edward era tanto ghiotto di manzo, avessi visto le grigliate che preparava!

Che fregatura il codice genetico, finisce per costringerti alla catena di un legame con un padre che nemmeno conosci ed allo stesso tempo spezza sul nascere quello che si sarebbe potuto instaurare con l’uomo che ti ha comunque regalato un cognome ed un posto nel mondo.

Balle.

Scosse la testa concentrandosi di nuovo sulla voce di sua madre, non voleva pensare all’avvocato, non voleva il suo nome e se n’era liberato appena ne aveva avuta la possibilità. Non voleva essere un Mueller, non voleva essere un Severson, non voleva nemmeno essere l’ennesimo Edward, tutto quello che voleva era essere solo Eddie.

Aveva riagganciato promettendo a Karen che lui e Beth si sarebbero fatti vedere non appena si fossero sistemate le cose a Seattle. Non prima dell’estate, insomma, ma questo a lei non l’aveva detto.

Aveva riagganciato piano appoggiandosi alla cornetta all’apparecchio alla cabina telefonica, come se sentisse un peso insostenibile gravargli sulle spalle; aveva abbandonato il letto da poco, ma già si sentiva stanco, e si sentiva solo.

Ad Eddie sarebbe piaciuto potersi ammantare dell’aura dell’eremita, dell’inaccessibile asceta, ma la verità era non riuscisse a stare da solo. Non davvero da solo, almeno. Aveva bisogno di sapere ci fosse qualcuno ad attenderlo, che pensasse a lui, una persona di cui poter ascoltare la voce e sentire il calore in ogni momento. Persone di cui potersi fidare. A San Diego aveva tantissimi amici, a San Diego conosceva tutti, dai musicisti scapestrati ai pescatori della baia fino ai surfisti di Trestles.

A Seattle non conosceva nessuno tranne i componenti del suo nuovo gruppo dal nome stupido –Mookie Blaylock? Quanto dovevano essere stati ubriachi per pensare fosse una buona idea il nome di un giocatore di basket?  - e poche settimane di frequentazione e qualche concerto insieme non bastavano a farne degli amici. A Seattle nemmeno il calore del sole gli risultava accogliente, persino quei pochi raggi sembravano corrosi dall’umidità.

Un giorno avrebbe amato quella città, l’avrebbe amata come si ama un rifugio, avrebbe amato il lussureggiante smeraldo che la circondava come un alone e quella grazia sfatta da vecchia regina del nord, sarebbe riuscito a sentire il caldo abbraccio di cui era capace, avrebbe tratto energia dal suo ventre ribollente di umori. Ma non allora, non in quel novembre d’inizio decade che sembrava prenderlo in giro scimmiottando la luce di quella California ch’era già Messico, facendogli montare la nostalgia persino di certi pomeriggi ad Encinitas1, nel giardino davanti casa a rincorrere il cane con un frisbee mentre cantava  I want you back(2) imitando il falsetto di un ragazzino poco più vecchio di lui, nella patetica parodia di una felice normalità da downtown tutta americana.

S’incamminò curvo lungo la 4th Ave superando un paio di caseggiati in via di demolizione mentre tentava di arrivare al capannone: non che il covo non meritasse di essere tirato giù, ovviamente, ma i proprietari non sembravano molto interessati alla riqualificazione in atto nella zona e questo a loro andava più che bene visto la miseria che chiedevano d’affitto.

Guardò l’orologio e poi il cielo, il cielo e poi di nuovo l’orologio: era passato da poco mezzogiorno, ma solo allora s’accorgeva non ci fosse una sola macchia azzurra sopra di lui. Il cielo era bianco, lattiginoso e opprimente, come una coperta non troppo pesante lasciava trasudare una luce molesta, non rassicurate.

Stava sudando ed era ancora quella pioggia che non si decideva a cadere.

In un piccolo snack bar qualcuno teneva gli amplificatori troppo alti e  About a girl  risuonava nei dintorni con il suo carico di fatalismo sporco e senza via d’uscita: Cobain aveva sapientemente e scientemente macchiato la  Michelle”  di Lennon ed in pochi se n’erano accorti, avevano solo mangiato quella sporcizia come piccoli topi avidi.

Scosse la testa pensando a quel ragazzetto biondo tutt’ossa che gli era capitato d’incrociare qualche volta all’Off Ramp, quando suonavano i Garden o gli Screaming Trees, sapeva di non essergli simpatico e non riusciva a capirne il motivo. Non avevano mai parlato, nessuno li aveva mai nemmeno presentati, Jeff gli aveva semplicemente detto lascia perdere quando gli aveva accennato di voler fare quella conoscenza e persino Stone e Mike – che di solito parlava bene di tutti in quanto non gli fregava davvero di nessuno – l’avevano dissuaso. Non era uno tutto giusto, quel Cobain e, soprattutto, non poteva vedere quel loro nuovo gruppo in blocco, perché Mark Arm aveva già deciso fossero una band di paraculi pronti a tagliarsi le palle per vendere. E Mark Arm era il piccolo dio alternativo che aveva cominciato a far muovere le acque grigie di Seattle, Cobain non era il solo a dargli credito sulla parola. Poco importava Arm dovesse il suo nome e la gloria indie dei Green River ai riffs dello stesso Gossard e al potente finger style di Ament: i River non esistevano più perché chi pensava di vivere con la musica era solo l’ennesimo leccaculo del sistema.

Pensare che a lui sarebbe bastato diventare come Ian MacKaye(3), l’Off Ramp in fondo somigliava un po’ ad un centro sociale, cupo e stretto com’era.

Sarebbe stata dura farsi un seguito serio con quelle premesse.

Sarebbe stata dura anche far dimenticare, o almeno mettere da parte, quell’altro biondino di cui non voleva prendere il posto. Rispettava il lavoro di Andrew Wood, gli piacevano le sue canzoni, sapeva che, se fosse sopravvissuto, sarebbe diventato una rock star anche più grande di quel grosso pallone gonfiato di Axl Rose.

Wood, per la Seattle dei clubs e dei vicoli, quella sporca e triviale, era una sorta di monumento e lo era diventato molto prima di bruciare come un’apparente nova senza futuro – ché invece i Mother Love Bone erano una supernova che avrebbe generato una luminosissima stella.

Eddie aveva chiesto di poter vedere le registrazioni dei concerti e ci era rimasto secco, perché sentire quella voce sul nastro non l’aveva preparato all’effettiva portata visiva di un ventiquattrenne che sembrava aver rubato il carisma di Marc Bolan. Wood era un pagliaccio che non aveva bisogno di trucco e belletti per creare la sua maschera migliore, quella che vestiva sul palco da che era un adolescente troppo alto e troppo etereo per il grigio del nord, quella che faceva accorrere sotto il palco donne e uomini in egual misura nonostante il suo viso non potesse proprio essere considerato bello né per un uomo né per una donna, quella che lo rendeva sfrontato senza ritegno, ed allora poteva presentarsi sul palco anche con l’ombelico scoperto come una star degli anni 70 - o una squillo che non avresti mai potuto avere. Non aveva l’irriverenza elegante di Ziggy, né i suoi tratti da geisha senza sesso, non era un pierrot triste, lui: era una Circe coperta di lustrini e piume con il pacco in evidenza, e sul palco esplodeva in un’orgia di vita.

La stessa vita che aveva consumato sulla punta di un ago, però.

Eddie non voleva essere il nuovo Love Child(4), non voleva essere  quello che ha preso il posto di Andy” ed in quei primi tempi a Seattle era stata anche la prima cosa che aveva ribadito con forza inaspettata: a lui non interessava prendere il suo posto, era stanco di prendere il posto di un altro, gli bastava camminare per la propria strada, con i propri vestiti addosso, al massimo sventolare una bandiera nera.

Sarebbe stato fighissimo.

Avrebbe riportato il punk dove meritava di essere, avrebbe lasciato libero il rock di scorrere come ai vecchi tempi, come se la Luna non si fosse mai addormentata e Hendrix stesse ancora suonando in mezzo al fango The Star-Spangled Banner(5)con la mano del diavolo sul cuore.

Gli venivano i brividi solo a pensarci.

“Eccoci a casa. E speriamo bene.”

“Che fai, parli da solo?”

Eddie aveva sussultato comicamente girandosi di scatto verso quella voce che l’aveva apostrofato tanto divertita. Stone lo guardava stando qualche passo dietro di lui, le mani affondate nelle tasche dei jeans e la chitarra in spalla; e quella sua espressione indecifrabile. Eddie era arrossito fino alla punta delle orecchie per essere stato riportato tanto bruscamente alla realtà da uno scomodo testimone: perché Stone era la persona più strana il cantante avesse mai incontrato, se non avesse avuto i capelli tanto lunghi, la sua compostezza avrebbe fatto pensare ad un nerd, poi però ti gelava con il suo umorismo tagliente che d’inglese aveva solo il cinismo a tratti feroce. E i suoi occhi ti fissavano sempre come se stesse per affondare quella sua lingua aguzza in un bersaglio troppo facile. Eddie aveva un po’ paura di diventare quel bersaglio, ma anche di perdere le staffe e menargli così, per una ragione che avrebbe poi capito solo lui.

Stone aveva soppesato il californiano per un po’, davvero divertito, perché quel ragazzo si ostinava a non voler entrare nell’ottica del clima del nord-ovest: era vestito troppo pesante per quella coda di estate di San Martino che a Seattle si trasformava solo in un limbo uggioso fatto di goccioline sospese a mezz’aria: ma se guardavi bene, potevi arrischiare la ricerca del tesoro ai piedi di un arcobaleno chimico.

Perché anche la musica era chimica in fondo, forse era quello il motivo per cui, in quel colpo di coda di un decennio strano e vacuo, anche Seattle poteva andar bene come palcoscenico: da Hendrix in poi, almeno, nessuno aveva più potuto ignorare quel nord dal clima infame e dai paesaggi suggestivi.

Ma Stone era anche uno che non sprecava una buona battuta per chi sapeva non l’avrebbe capita. O l’avrebbe capita male. Il ragazzo californiano gli andava a genio, ma gli dava l’idea di essere davvero troppo indifeso: era come uno di quei gattini randagi che tenta di graffiarti gli occhi per non lasciarti vedere quanto è invece inerme. Sostanzialmente innocuo.

Ancora non riusciva a credere – oramai più di un mese prima – si fosse presentato da loro con dei regali, piccoli collage e quadri fatti da lui, a tema musicale ovviamente. Molto belli anche, originali; Jeff, da illustratore mancato qual’era, li aveva adorati. Stone, che aveva una sorella più piccola che amava da morire, non aveva potuto far altro che sentire un moto di tenerezza per quel ragazzino troppo cresciuto che stava ingenuamente tentando di farsi accettare da degli sconosciuti. E per Jeff era stato lo stesso, l’aveva adottato nel momento stesso in cui aveva sentito quel demo, in fondo.

“Dobbiamo aspettare Jeff, è lui che ha le chiavi. Sono rimasto fuori anch’io, sto aspettando qua fuori come un fesso da quasi venti minuti.”

Eddie gli aveva fatto un cenno di saluto abbassando gli occhi sulle scarpe, non aveva nemmeno tentato di darsi un tono. Stone scosse la testa con un mezzo sorriso e gli si avvicinò invitandolo a sedersi sull’asfalto davanti al cancello d’ingresso, tanto per stare più comodi. Tentò anche di imbastire una conversazione di un qualche tipo, ma con Eddie non era tanto facile. Per lui almeno: Jeff gli aveva detto al contrario che il cantante era un gran chiacchierone, se ingranava poteva andare avanti a parlare per ore dimenticando persino di respirare. Ma con il bassista Eddie sembrava aver sentito un’intesa particolare da subito, probabilmente doveva solo dargli un po’ di tempo per sciogliersi.  Anche sul palco.

Avevano già fatto qualche serata insieme, la prima dopo appena una settimana dall’arrivo del cantante a Seattle: a Mike era quasi preso un colpo, ma un po’ tutti avevano fissato Stone come se fosse impazzito. Solo Eddie era stato zitto e non aveva fatto nemmeno un’obiezione.

All’inizio aveva pensato quello fosse un punto a suo favore, aveva fegato ad accettare di mostrarsi così presto ad un pubblico sconosciuto che poteva risultare persino ostile visti i trascorsi e la dipartita recente di Andy. Ma dovevano pur cominciare, rimandare sarebbe stato inutile.

Eddie su quel palco all’Off Ramp gli aveva fatto ancora più tenerezza, però. Era più grande di Stone di quasi due anni, persino più prestante, ma gli faceva tenerezza comunque.

La prima cosa che aveva notato di lui quella sera era stata l’immobilità quasi totale. L’asta del microfono - regolata all’altezza minima, ma che lo sovrastava comunque di un paio di centimetri - quasi non la sfiorava neppure: cantava e basta. Guardava un punto imprecisato sopra le teste del pubblico con quei suoi incredibili occhi in cui il grigio e l’azzurro si fondevano per regalarti solo la pienezza del vuoto ancestrale della tristezza, e cantava.

Quella bella immagine non era del chitarrista però.

Era stato Jeff a suggerirgliela quella notte stessa dopo il concerto, mentre lo riaccompagnava a casa con il suo scassatissimo pick-up: era in quei momenti che Stone realizzava quanto era costato al bassista dover abbandonare i suoi studi e quel sogno di dipingere la vita con l’acido degli acrilici.

“Ed, posso farti una domanda?”

“Certo…”

“Perché non ti muovi?”

“Eh? In che senso…?”

“Voglio dire… Sul palco. Ormai è un po’ che suoniamo insieme, durante le prove non sei mai così statico, ma non possiamo certo nasconderti il pubblico o suonare per sempre solo tra noi. Mi pare la gente ti abbia accolto bene, no? Quindi perché non riesci a scioglierti?”

Stranamente Ed non aveva abbassato lo sguardo, ma aveva fissato il chitarrista con un’espressione spaurita spalancando gli occhi come un ragazzino colto con le mani nel vaso di biscotti. Stone stava quasi per rimangiarsi la domanda un po’ pentito di essere stato tanto diretto – e forse aveva ragione Jeff quando gli diceva che non poteva fare lo schiacciasassi con chiunque -, ma Eddie si era ricomposto subito, con un sospiro che suonava quasi sollevato.

“E’ che ho visto Andy.” Gli aveva risposto a bruciapelo tornando a guardarsi le scarpe.

“Cosa? Che fai vedi la gente morta? Guarda che non ti fa bene bere tanto se…”

“No, non in quel senso! Voglio dire le registrazioni, i vostri concerti come Mother Love Bone. Le ho chieste a Jeff. La gente di qui sembrava proprio in fissa con il vostro vecchio gruppo.”

“Beh, sì, non ci possiamo lamentare. Quel cretino era bravo, ci sapeva fare con la gente.”

“Già. Ma io non sono Andrew Wood. Io non so stare sul palco come lui e non ci voglio nemmeno provare.”

Il chitarrista si era messo a ridere; dapprima piano, poi aveva proprio cominciato a sganasciarsi. Eddie non sapeva se doveva imitarlo – anche se non capiva il motivo di tanta ilarità: però non voleva passare per scemo, magari aveva detto qualcosa di divertente senza accorgersene.  – od offendersi a morte: pensava stessero facendo un discorso serio, vaffanculo.

Il chitarrista si era asciugato gli occhi cercando di trattenere gli ultimi sussulti d’ilarità ed aveva guardato Eddie con la sua solita espressione tanto ironica da risultare persino insultante.

“Guarda che lo so, lo sappiamo tutti che non sei come Andy, e ti assicuro che non è mai stato un problema. Se avessimo voluto un altro come lui tu non saresti qui adesso, perché saresti stato bocciato prima ancora che ti vedessimo in faccia: non siamo sordi, la tua voce non ha niente a che fare con quella di Andy e le tue canzoni sono talmente diverse da quelle che scriveva lui che è impossibile paragonarle. Mettiti bene in testa una cosa: noi non stiamo ricostruendo i Love Bone, quello è passato e tale rimarrà. Stiamo cercando di fare qualcosa di nuovo, quindi tu fa solo quello che ti senti di fare. Se preferisci stare immobile davanti al microfono, beh, fa’ pure. Ma non farlo solo perché hai paura qualcuno possa paragonarti ad Andy, perché l’hanno capito tutti che questa è un’altra storia. E poi diciamocelo, tu col rossetto faresti cagare.”

Ed Eddie l’aveva fissato a lungo negli occhi, poi gli aveva sorriso, forse per la prima volta da che si erano incontrati. Sembrava non volesse sentirsi dire altro.

“Sì, non credo il rossetto mi starebbe bene, ma chi lo sa, mai precludersi niente nella vita.”

“Oh, se vuoi c’è Mike che può darti un sacco di consigli, la sua vecchia band faceva glam rock(6), avresti dovuto vederlo con la cresta e gli spandex!”

“Mike? Dai, stai scherzando!”

Avevano continuato così per un po’, ridendo come stupidi di tutto e niente. Così li aveva trovati Jeff quando era finalmente arrivato, trafelatissimo con il basso a tracolla e lo skate sottobraccio.

“Finalmente!” Stone aveva apostrofato il bassista fintamente irritato, ma senza riuscire a stemperare il mezzo sorriso che gli aleggiava sulle labbra. In fondo era stato un bene avesse fatto tardi.

“Mi dispiace ragazzi, ma ho dovuto fare gli straordinari al ristorante oggi, non sono riuscito a venir via prima.”

“Oh andiamo Jeff, stai ancora lavorando lì? Perché non l’hai lasciato quel lavoro del cazzo?”

Il bassista aveva mentalmente contato fino a dieci per evitare d’incazzarsi. Non aveva voglia di litigare, era stanco e pure affamato dato che non aveva avuto tempo di mettere niente sotto i denti, aveva caldo ed anche un principio di mal di testa. Tutto quel che voleva era cominciare le prove e decidere il da farsi per la serata.

“Stone, non lo lascio il lavoro finchè non avremo il disco pronto e te l’ho detto mille volte, non importa se abbiamo già il contratto firmato. E ora alzate il culo che devo aprire il cancello.”

“Che palle che sei. Non avresti problemi di affitto se mi avessi dato retta e fossi venuto da me, sarebbe stato più comodo per tutti.”

“Ancora con questa storia? Cazzo Stone, non possiamo dividere casa io e te, ci scanneremmo ogni due minuti, già vorrei dartele adesso! E poi i soldi ci servono, abbiamo altre spese e la casa discografica ancora non copre un cazzo, quindi piantala di dare aria alla bocca che abbiamo altri problemi!”

Eddie era rimasto prudentemente in disparte assistendo a quel litigio piuttosto perplesso, senza riuscire a decidere se intervenire o meno. Non avrebbe saputo a favore di chi, comunque.

“Litigano di nuovo? Che palle.”

Per la seconda volta quel giorno, il cantante era stato colto di sorpresa alle spalle da un chitarrista. Mike non lo stava degnando di uno sguardo, comunque, si limitava a guardare Stone e Jeff che continuavano a discutere mentre si dirigevano verso l’interno del caseggiato. Solo quando i due erano scomparsi all’interno si era voltato verso Ed con un sorrisone allegrissimo sulle labbra.

“Ciao. Allora, che è successo stavolta, Stone ha fatto qualche altro cambiamento senza dirgli niente?”

“Stone fa cambiamenti senza consultare nessuno?”

“Solo alle canzoni, ma di solito mentre suoniamo: una delle canzoni sul demo che ti abbiamo mandato l’abbiamo rifatta almeno dieci volte, non era mai contento del risultato. Jeff stava per spaccargli il basso in testa. Vabbè, entriamo?”

“Sì…”

Mike si era incamminato verso l’interno a passo lento, ciondolante, facendo oscillare noncurante la chitarra; Eddie l’aveva seguito pensando a quanto quel gruppo fosse assortito male, erano talmente diversi l’uno dall’altro che se non fosse stato per la musica non si sarebbero probabilmente mai nemmeno parlati.

Sorrise a quel pensiero.

Avevano la musica in comune. Era più che sufficiente.

Krusen si unì al resto del gruppo solo dopo un’ora, ma era previsto, quindi nessuno si era preoccupato della sua assenza: la moglie del batterista era incinta, qualche concessione dovevano pur fargliela visto che era difficile le rimandassero a casa il marito prima dell’alba.

Ne avevano approfittato per limare un paio di canzoni praticamente già pronte per essere registrate – quando sarebbe stato il momento. Ma quanto ci mettevano a decidersi, alla Epic?  – e portarne avanti altre: Mike doveva aver vaticinato, perché Stone aveva davvero fatto dei cambiamenti stravolgendo completamente l’arrangiamento di una delle sue musiche, vanificando il lavoro di Eddie che, proprio su quel pezzo, aveva composto un testo nuovo.

E Jeff si era incazzato ancora.

“Questo è troppo, non puoi cambiare i pezzi a piacimento quando sono praticamente finiti, Cristo, c’è pure il testo!”

“Ma la base melodica era noiosa! Ho solo fatto un’apertura sul secondo do, non è niente di così complicato da ricordare o eseguire.”

“Non è questo il punto, Stone! È che ora si dovrà riadattare la metrica del testo, probabilmente dovrà essere riscritto e allora sarà altro tempo perso! Perché diavolo ti ostini a non avvertire nessuno e a fare tutto per conto tuo?”

“Oh andiamo, vi ho avvertiti, no? La modifica l’ho fatta appena sveglio, quella nota mi era risuonata in testa tutta la notte: sentila, senti quanto è più bella adesso.”

Era vero.

Ma sarebbe stato vero anche per i successivi settantanove cambiamenti cui quella canzone sarebbe stata sottoposta. Settantanove o forse più, è sempre difficile riuscire a tenere il conto con il sistema nervoso a pezzi: quella canzone sarebbe diventata una hit ed un inno, ma allora ancora non potevano immaginarlo, per loro sarebbe solo e sempre rimasta la prova della follia perfezionista di Stone Gossard(7).

“Va bene ragazzi, dateci un taglio, mi sto cagando addosso quindi si riprende più tardi.”

Mike non era mai stato un ragazzo che le mandava a dire, né che perdeva  tempo a cercare perifrasi: semplicemente si sciolse dall’abbraccio della sua Les Paul – che poggiò accuratamente sull’apposito supporto – e corse in bagno. Lasciando tutti lì interdetti.

“Uhm… era diventato giallo stavolta… Mi sa che gli ci vorrà più tempo del solito.”

Ma nessuno aveva riso alla mezza battuta di Jeff, nemmeno lui: sapevano tutti Mike stesse male per davvero, quel morbo8 che gli stava mangiando l’intestino e la giovinezza avrebbe preteso un po’ più d’attenzione, ma il chitarrista aveva solo ventitré anni e poca voglia di contenersi.

 Nessuno di loro aveva molta voglia di farlo, in realtà.

   
 
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