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Autore: Angeline Farewell    25/08/2010    3 recensioni
Pearl Jam.
[...]Eddie gli aveva fatto un cenno di saluto abbassando gli occhi sulle scarpe, non aveva nemmeno tentato di darsi un tono. Stone scosse la testa con un mezzo sorriso e gli si avvicinò invitandolo a sedersi sull’asfalto davanti al cancello d’ingresso, tanto per stare più comodi. Tentò anche di imbastire una conversazione di un qualche tipo, ma con Eddie non era tanto facile. Per lui almeno: Jeff gli aveva detto al contrario che il cantante era un gran chiacchierone, se ingranava poteva andare avanti a parlare per ore dimenticando persino di respirare. Ma con il bassista Eddie sembrava aver sentito un’intesa particolare da subito, probabilmente doveva solo dargli un po’ di tempo per sciogliersi. Anche sul palco.
Avevano già fatto qualche serata insieme, la prima dopo appena una settimana dall’arrivo del cantante a Seattle: a Mike era quasi preso un colpo, ma un po’ tutti avevano fissato Stone come se fosse impazzito. Solo Eddie era stato zitto e non aveva fatto nemmeno un’obiezione.
All’inizio aveva pensato quello fosse un punto a suo favore, aveva fegato ad accettare di mostrarsi così presto ad un pubblico sconosciuto che poteva risultare persino ostile visti i trascorsi e la dipartita recente di Andy. Ma dovevano pur cominciare, rimandare sarebbe stato inutile.
Eddie su quel palco all’Off Ramp gli aveva fatto ancora più tenerezza, però. Era più grande di Stone di quasi due anni, persino più prestante, ma gli faceva tenerezza comunque.
La prima cosa che aveva notato di lui quella sera era stata l’immobilità quasi totale. L’asta del microfono - regolata all’altezza minima, ma che lo sovrastava comunque di un paio di centimetri - quasi non la sfiorava neppure: cantava e basta. Guardava un punto imprecisato sopra le teste del pubblico con quei suoi incredibili occhi in cui il grigio e l’azzurro si fondevano per regalarti solo la pienezza del vuoto ancestrale della tristezza, e cantava.
Quella bella immagine non era del chitarrista però.
Era stato Jeff a suggerirgliela quella notte stessa dopo il concerto, mentre lo riaccompagnava a casa con il suo scassatissimo pick-up: era in quei momenti che Stone realizzava quanto era costato al bassista dover abbandonare i suoi studi e quel sogno di dipingere la vita con l’acido degli acrilici. [...]
Genere: Generale, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Niente pioggia.

Per il secondo giorno consecutivo il cielo era rimasto muto e asciutto, non una sola goccia di pioggia aveva lasciato quelle nuvole sempre più simili a spugne senza colore. Seattle rimaneva sospesa in una luce senza luce, un biancore latteo che velava i contorni dei palazzi e smorzava il verde di solito brillante dei parchi.

Tutto sembrava fermo come in una foto d’epoca, sfumata.

Come in una fastidiosa replica del giorno precedente, Eddie si era svegliato con la spiacevole sensazione di trovarsi nel posto sbagliato e non era un buon segno. Si era srotolato dalle lenzuola sentendosi sgradevolmente appiccicaticcio benché avesse dormito in mutande, e i capelli gli si erano tutti incollati al viso ed alla schiena facendolo sentire una sorta di Cugino It.

Doveva farsi una doccia, urgeva.

Eddie non immaginava ci fosse già qualcuno che lo aspettava dabbasso mentre s’incastrava nel microscopico gabbiotto della doccia tentando di lavarsi senza morire soffocato dai suoi stessi capelli.

“La tua chitarra è scordata, lo sapevi?”

In quel preciso istante Eddie Vedder, quasi ventisei anni da compiere il 23 dicembre, aveva rischiato d’allungare la nutrita scia di morti bianche della musica e di farlo in un modo al contempo umiliante ed originalissimo: stava per prendergli un infarto.

“Mike! Cazzo mi hai fatto prendere un colpo! Aspetta che diventiamo famosi prima di farmi la pelle, ora come ora non diventerei un mito per nessuno!”

Il chitarrista si era allungato ulteriormente sul letto sfatto con noncuranza mentre ancora trafficava con le corde della chitarra. Aveva pizzicato qualche nota prima di sorridere tra sé e finalmente decidere che poteva prestare attenzione al cantante, che se ne stava ancora impalato sulla porta del bagno, i capelli grondanti e un asciugamano stretto intorno ai fianchi.

“Ma stai ancora così? Guarda che abbiamo un sacco di cose da fare oggi, per questo sono passato a prenderti. E comunque dovresti chiudere la porta a chiave, sai?”

“Non avete le prove con Cornell oggi? Non voglio starvi tra i piedi se…”

“Sei del gruppo anche tu e i nostri amici sono i tuoi amici. Vedrai che Chris ti piacerà, anche gli altri sono a posto. E poi anche loro sono curiosi di conoscerti.”

“E perché?”

“Oh andiamo, lo sai che il mese scorso al Ramp c’era pure Susan Silver e, se non ti hanno avvertito, oltre ad essere la donna di Chris è anche la manager dei Soundgarden e degli Alice, un pezzo grosso insomma. E sembra tu abbia fatto colpo.”

“Non lo sapevo fosse la donna di Cornell…”

“Ora lo sai. Quindi muoviti a vestirti che ci stanno aspettando alla Galleria.”

“…”

“…”

“…”

“Allora?”

“I miei vestiti sono nella valigia sotto il letto. E tu ci sei sopra.”

Mike lo aveva visto inspiegabilmente arrossire e distogliere lo sguardo mentre quel suo vocione cavernoso diventava sempre più flebile: e poi dicevano quello strano fosse lui.

Si era sollevato dal letto con un’alzata di spalle portando con sé l’acustica di Eddie e si era seduto sul pavimento rivolto alla finestra per evitare di metterlo ulteriormente a disagio; e aveva cominciato ad accarezzare le corde con delicatezza estrema richiamando le lacrime sbiadite dalla foschia di un Angelo londinese. La malinconia del blues gli si addiceva, lo vestiva come un guanto usurato, esattamente come riusciva ad indossare la maschera orribile dei Kiss. La musica gli si addiceva tutta, se avesse potuto l’avrebbe bevuta, liscia e senza ghiaccio, o l’avrebbe sciolta fino a farsela scorrere direttamente nelle vene fino al cuore e al cervello.  Pum.

Angie non doveva essere infelice ed anche Eddie doveva saperlo, perché aveva cominciato a mormorare piano le parole di quel lamento triste a tempo con le note. Mike non era riuscito a fare a meno di sorridere ascoltandolo cantare, la lingua di Eddie stava mutando senza nemmeno accorgersene lo spirito di Jagger, sulle sue labbra il pianto funebre del blues diventava il vagito altrettanto doloroso della nascita: ancora non lo sapevano, ma Eddie avrebbe convinto una generazione intera a fare bandiera di un canto di morte facendo credere a tutti stesse intonando la rinascita, avrebbe raccontato un suicidio come una favola al contrario, di lotta e di sopravvivenza fino alla fine.1

Ma Eddie era un ragazzo strano, era un ragazzo triste che non ci aveva proprio mai pensato a farsi sconfiggere dalla storia - soprattutto dalla propria.

Il luogo d’incontro si trovava verso la periferia opposta di Seattle, purtroppo parecchio distante dall’oceano ed anche dal canale. E Mike non era esattamente quello che si sarebbe detto un buon guidatore, almeno per i parametri di Eddie: andava troppo veloce, persino per qualcuno che aveva fretta; ed Eddie odiava la velocità quando non poteva controllarla.

Erano arrivati alla Galleria – che era effettivamente una galleria d’arte: le prove le avrebbero tenute nel piano interrato, tra tele invendute o ancora da esporre e cataste di bottiglie vuote – un po’ in ritardo, ma nessuno si era scomposto. Eddie aveva salutato tutti con un mezzo sorriso ed un cenno prima di defilarsi silenziosamente verso un angolo della sala, abbastanza vicino da ascoltare i discorsi degli altri, ma non tanto da dovervi per forza partecipare. Gli unici membri dei Soundgarden presenti erano Cornell e Cameron, il batterista, ma prima di allora gli era capitato di intravederli solo di sfuggita in qualche club o after-party, non ci aveva mai parlato; non li conosceva.

Chris Cornell era esattamente come Eddie l’aveva visto sulle cover degli LP, un ragazzo altissimo – o almeno, staccava chiunque in sala di almeno una spanna – con lunghissimi capelli neri e gli occhi verdi, la pelle lattea; sembrava l’incarnazione della città, ne fondeva in sé lo spettro di sfumature e colori, persino quella sua bellissima voce, che ricordava di aver ascoltato per la prima volta in Flower appena un paio d’anni prima, sembrava rispecchiare il vento del nordovest, un range vocale potente, che toccava le scale superiori senza apparenti difficoltà.

Eddie non riusciva a non concentrarsi sulle voci dei due sconosciuti mentre fingeva di scribacchiare sul suo blocco appunti, gettando di tanto in tanto qualche occhiata al gruppo che provava e suonava quel ricordo postumo di Andrew Wood.

Gli avevano detto Wood e Cornell fossero stati molto amici, avessero addirittura diviso casa; non l’ero, però, perché Cornell era un’anomalia per Seattle: in una città in cui il narcotico era l’unica via di fuga da quella realtà soffocante e uggiosa, lui pretendeva di rimanere lucido fino in fondo, e ci aveva provato a spiegarlo ad Andy.

In realtà né Eddie né gli altri potevano immaginare cosa fosse davvero quel tributo in musica, nessuno di loro poteva immaginare quel che si agitava nel cuore di Chris mentre scriveva quelle canzoni. Ed era senso di colpa.

Aveva voluto bene a quel biondo idiota come ad un fratellino minore, aveva cercato di proteggerlo come tale, ma aveva fallito, gli aveva probabilmente dato la spinta finale verso l’oblio proprio quando Andy si era finalmente deciso a ripulirsi. In pochi lo sapevano, ma, proprio alla vigilia delle registrazioni del primo album degli allora Mother Love Bone, Andy aveva deciso di darci un taglio, di tornare a casa dai suoi genitori, di farsi aiutare a disintossicarsi del tutto: aveva ventiquattro anni e si sentiva ancora troppo figlio per non desiderare la sicurezza del nido in un momento come quello.

Era stato proprio Cornell a convincerlo a rimanere, a continuare le registrazioni.

Puoi venire a stare da me, non puoi mollare proprio adesso che avete una possibilità vera, io sono pulito, ci penserò io a tenerti lontano dalle cattive compagnie.

Invece non aveva considerato che l’essere il leader di un gruppo già affermato e di successo l’avrebbe tenuto lontano da casa anche per settimane; così aveva finito per diventare il demone della distruzione per il proprio migliore amico.

Era quel senso di colpa che gli riempiva la voce di passione mentre cantava, era per quell’unico motivo che aveva deciso di non cantare quei testi con il suo gruppo ma di chiedere ai vecchi compagni di Andy di dividere il calice con lui. E se Jeff – pur ignaro dei veri sentimenti di Chris – si sentiva egualmente in colpa nei confronti di Andy, Stone era quello più arrabbiato, l’unico a poter creare la cornice giusta per quei testi.

Erano nati così i Temple of the Dog, per motivi sbagliatissimi, per quello sapevano fin dall’inizio che non ci sarebbe stato seguito per quell’unico album ed avevano deciso di coinvolgere più gente possibile persino nelle prove, che fosse Kevin Wood, Mike, o un ragazzo californiano totalmente estraneo.

Eddie si era limitato a stare in disparte per giorni dopo quella prima prova, senza accorgersi di essere oggetto delle curiosità di tutti i presenti, Cornell compreso: l’avevano già sentito cantare, sia Chris che Matt erano stati tra i primi ad ascoltare la cassetta che Jeff aveva ricevuto da San Diego qualche tempo prima ed erano stati tra coloro che avevano dato il benestare per quel nuovo acquisto. Non lasciatevelo scappare, questo materiale è ottimo.

L’avevano anche visto sul palco, però, e non sapevano cosa pensare, non riuscivano a sovrapporre i suoi testi all’atteggiamento che teneva in scena. Eddie Vedder aveva il sapore intrigante degli enigmi più complicati da sciogliere.  Nemmeno immaginavano lui non si sentisse affatto tale e non vedesse l’ora di unirsi alla festa: aveva semplicemente paura di occupare un posto che non gli spettava per l’ennesima volta.

Lo scantinato della Galleria era un po’ più fresco dell’esterno, le pareti non sembravano bere l’umidità di quel novembre stranamente asciutto come ogni altro palazzo di Seattle.

Chris aveva smesso di cantare ed aveva lasciato il microfono, scompigliandosi quei lunghissimi riccioli neri che finivano sempre per coprirgli il viso, con l’aria avvilita. Non andava.

Il demo continuava a girare in loop in consolle inascoltato ormai da tutti. Il cantante dei Saundgarden stava mostrando i suoi appunti agli altri sconsolato, quella strofa gli sembrava perfetta, ma non riusciva ad aggiungervi altro: serviva un bridge, serviva un ritornello, serviva assolutamente aggiungere qualcosa o avrebbero dovuto accantonarla e non voleva.

Immersi in quelle discussioni, nessuno – o quasi - aveva notato l’altro vocalist avvicinarsi al microfono. Eddie aveva quasi smesso di respirare pur di non far rumore, ma quella canzone gli piaceva troppo, quel brano era stupendo. Con circospezione si era avvicinato al microfono lasciato aperto ed aveva aspettato che la cassetta ritornasse al punto esatto che gli serviva, poi aveva cominciato: aveva aperto la bocca ed aveva cantato. Con gli occhi chiusi e le mani strette al bordo della felpa mentre il movimento del piede con cui dava il tempo gli faceva scivolare i capelli sul viso.

Cantò esattamente la stessa strofa che aveva poco prima sentito cantare a Cornell, ma a modo suo. La sua voce tanto più morbida e profonda di quella di Chris dava una consistenza diversa alle parole, le arrotondava, le ricopriva come di una sostanza vischiosa e sporca da cui ci si sentiva attratti inesorabilmente.

I suoi bassi coprivano le note profonde che l’intonazione naturalmente più acuta di Cornell non riusciva a raggiungere facilmente.

Eddie aveva guardato istintivamente verso Jeff e i suoi compagni di band come per chiedere silenziosamente un parere, ma lo sguardo di Stone l’aveva quasi gelato: era praticamente inespressivo, lo fissava senza guardarlo con gli occhi di vetro.

Eddie non sapeva che aveva appena fatto accendere una lampadina nella testa del chitarrista che aveva smesso di pensare a quella sessione di prove e di jam non appena l’aveva sentito intonare il secondo movimento. Stone era già lontano, Stone era già virtualmente su un nuovo spartito, su mille nuovi spartiti, perché in quel momento aveva realizzato di avere potenzialmente mano libera, di poter scrivere qualunque melodia, sicuro che Eddie l’avrebbe comunque cantata nel modo giusto. Stone in quel momento aveva perso ogni dubbio residuo sul cantante, proprio lui che era stato anche l’unico ad avere inizialmente delle resistenze.

Il cantante era tornato a fissarsi le scarpe pronto a tornare nel suo angolo quando si era sentito afferrare per le spalle da Cornell stesso.

“E’ perfetta, è così che deve essere, sei stato incredibile. Ragazzi! Abbiamo risolto, contenti?”. E gli aveva sorriso dandogli una pacca sulla spalla spingendolo finalmente verso il centro della stanza, verso il gruppo.

Quella di Cornell era stata una dichiarazione di stima incoraggiante, che obbligava Eddie ad ulteriori sessioni di prove certo, ma la cosa non gli pesava per niente, e stare in sala prove o in studio di registrazione con gli altri – insieme agli altri – l’aiutava a rilassarsi, a sentirsi accettato e, soprattutto, a dimenticare per qualche ora l’urticante umidità di quei giorni.

Però non ci furono cambiamenti nella compostezza già notata da Stone di Eddie: sul palco continuava a sentirsi spaesato, nervoso. Non perdeva una nota e teneva gli occhi del pubblico incollati su di sé, ma quegli occhi cercava di evitarli il più possibile perdendosi piuttosto nel buio oltre i faretti d’illuminazione.

Confondendo il pubblico del Ramp dell’Hollywood del Tunnel. Di Seattle.

Perché il biondino con gli occhi grigi non saltava, non scuoteva la testa, non si dimenava, non urlava. Cantava e basta.

Il biondino con gli occhi grigi era bello, ma per una groupie quel dettaglio poteva anche passare in secondo piano se non si aveva anche la sfrontatezza di Axl Rose.

Al biondino si avvicinavano energumeni equivoci ed universitari in pausa studio a cui piacevano i suoi shorts cargo un po’ consunti, ma non gli chiedevano mai dove li avesse acquistati.

Eddie cantava e basta.

Anche quella sera Eddie si limitò a cantare, l’unica concessione che fece – e si fece – fu di non cercare Jeff,  non solo almeno, ma d’inaugurare il primo dei tanti assoli schiena contro schiena con Mike: scoprì che gli piaceva sentire le vertebre del chitarrista vibrare contro le sue insieme alle corde della chitarra, era una sensazione elettrizzante, quasi sessuale. Sembrava di entrare fisicamente in contatto con la musica.

“Che ne dici Kim, non sono per niente male, eh?”

Chris Cornell era appoggiato al bancone del bar del Ramp con una birra davanti a sé ed il suo chitarrista-filosofo-sciamano di fianco: Thayil era un concentrato di stereotipi tutto indiano, filosofo e buddista con una punta di trascendenza animista – o quello che era - che non guasta mai; un po’ il suo Maharishi Mahesh Yogi2, solo che gli costava significativamente meno. Insomma, per fortuna aveva preferito la chitarra elettrica al sitar, chitarra che sapeva maneggiare maledettamente bene.

“I ragazzi sono sempre stati grandiosi. E anche se è ancora un po’ timido, hanno fatto bene a scegliere quel californiano, ha un certo non so che… quell’aura particolare che lo circonda… Non la vedi?”

Chris aveva contato fino a dieci per non sbottare a ridergli in faccia, o peggio ancora, cedere e dargli ragione sulla fiducia, ma quest’ultima opzione l’avrebbe poi costretto ad ubriacarsi di brutto per tentare di reggere l’inevitabile lezioncina sulle filosofie orientali, le discipline di controllo dell’aura e pure sul relativismo culturale che stava così brutalmente spogliando le tradizioni millenarie del sapere dei popoli orientali per piegarle alla moda. Cominciare a fare yoga per sfuggire alle paranoie pseudo-intellettuali del suo chitarrista era fuori discussione, che poi sarebbe finito pure lui nel novero dei modaioli che praticano gli antichi insegnamenti solo per fare i fighetti.

Santa pazienza.

“Certo, quello che hai detto tu. Hanno finito, vado a salutare!”

Chris non sapeva se quel Vedder fosse circonfuso di luce come sosteneva Kim, quelle puttanate esoteriche non lo interessavano – anche se si guardava bene dal metterla in quei termini con l’amico -, ma era certo gli piacesse e, sebbene non ne fosse cosciente per primo, quel ragazzo aveva i numeri ed il carisma per stare al centro del palco.

Eddie era sudato fradicio, la maglietta gli si era completamente incollata addosso, così come i capelli; nell’ambiente era impregnato ovunque lo sgradevole odore di sudore misto a polvere smossa ed al terriccio umido che fungeva da pavimento per il locale. Il soffitto basso – e l’inevitabile ulteriore vicinanza dei faretti – non aiutava a liberarsi dalla leggera claustrofobia che la struttura ispirava fin dall’esterno: l’acustica del Ramp era praticamente perfetta, ma sembrava di suonare in una bara circondata dai mille lumini della Statale.

Avrebbe voluto cantare ancora, avere qualche altra canzone da poter offrire, ma giù dal palco si sentiva meglio, qualche entusiasta della prima ora - già pronto a giurare la propria fedeltà imperitura di fan a quel nuovo gruppo - si era addirittura avvicinato senza ricevere in cambio solo silenzi imbarazzati, ma autentica gratitudine.

Eddie non riusciva a capire perché non riuscisse a sciogliersi, aveva pensato il problema fosse il possibile paragone con Wood, ma aveva ricevuto più di una rassicurazione al riguardo, a ripensarci a mente fredda era vero: lui e Wood non avevano proprio nulla in comune, a partire dal timbro vocale.

E quindi cosa?

Quello con Jeff, Stone, Mike e Dave non era il suo battesimo del fuoco, era già stato davanti ad un pubblico, aveva già cantato su un palco, a San Diego aveva addirittura registrato un piccolo EP con la sua vecchia band3, avevano persino un piccolo ma fedele seguito. Pure a scuola aveva recitato tutti gli anni nel musical di fine anno!

Cos’era quell’ansia che lo prendeva lì a Seattle, allora? Perché aveva paura di quel pubblico e dei loro occhi?

Forse era tutta colpa della pioggia sempre sospesa a mezz’aria in quella città grigia e verde in cui la vita pareva saper esplodere solo in sprazzi di luce acida.

“Ehilà, Eddie!”

Cornell gli si stava avvicinando facendosi largo tra la piccola folla dei frequentatori del Ramp già piuttosto alticci. Aveva salutato un po’ di gente, nel mentre, qualche ragazza gli aveva ammiccato invitante, debitamente ripagata con una furtiva palpata di chiappe. Con tutta probabilità Susan non c’era quella sera.

“Siete stati davvero forti stasera! Vieni, ti offro una birra. Ma dove sono gli altri?”

Gli altri erano semplicemente già inseriti in una rete di conoscenze amicizie incontri che dopo ogni concerto vedeva Eddie sempre un po’ defilato: quella sera, poi, Pandora si era presa una piccola pausa dai suoi studi per volare a Seattle dal Montana, e aveva preteso Jeff tutto per sé dopo il concerto, quindi chissà dove si erano imboscati.

Era solo insomma.

Cornell si era appoggiato di nuovo al bancone del bar facendo cenno all’allampanato biondino che serviva da bere di portare due birre che comunque non riuscirono a bere visto il viavai continuo di gente che si fermava a salutarli – sì, entrambi – e a fare i complimenti a Eddie per lo spettacolo.

Chris sembrava soddisfatto dell’accoglienza che il popolo di Seattle stava riservando all’altro cantante, nemmeno si sentisse il padrone di casa desideroso di fare bella figura. E un po’ era anche vero, ma la realtà era Cornell fosse semplicemente un ragazzo naturalmente accogliente, felice i suoi amici riuscissero ad avere successo nonostante quello che era loro capitato, ed era un altro drogato di musica che cercava nuove sonorità e nuovi stimoli dietro ogni angolo. Aveva sentito da subito una naturale connessione con quel ragazzetto californiano con gli occhi che sembravano ghiaccio e la voce ch’era invece pura lava.

“Vieni con me, qui c’è troppo casino, non si riesce nemmeno a parlare.”

Cornell l’aveva portato verso uno degli angoli estremi del palco in fondo alla sala, vicino alle strumentazioni ormai spente e ai faretti ancora puntati verso il pubblico che pian piano sciamava verso l’uscita o il bancone del bar: i neonati Blaylock non avevano ovviamente roadies per aiutarli con la strumentazione, quindi avrebbero risolto per conto loro dopo la chiusura del locale.

In quell’angolo un po’ defilato, però, Eddie aveva cominciato a sentirsi nuovamente a disagio.

Chris sorseggiava tranquillo la sua birra mentre gli parlava, la sua voce era piacevole e suadente, persino troppo per qualcuno che conosceva da tanto poco.

Eddie non poteva fare a meno di tenergli gli occhi incollati addosso, probabilmente lo stava fissando con espressione ebete, ma non riusciva a preoccuparsene. Chris continuava a parlargli e a sorridergli, ogni tanto spostava una ciocca riccioluta che gli cadeva sugli occhi per appuntarla dietro un orecchio, il suo sguardo ed i movimenti ritmici della sua testa bruna ipnotizzavano Eddie che ormai li vedeva come al rallentatore, perso completamente dietro la malia diabolica che circondava l’altro: Eddie pensò che forse avrebbe dovuto dirglielo che si era piazzato proprio davanti ad uno di quei faretti alogeni scuri che avevano usato durante il concerto, e che, soprattutto, quel faretto lo rendeva una macchia nera aureolata con gli occhi e i denti fosforescenti.

 “Cavolo, la mia prima conversazione con Satana…”

Alla fine, ovviamente non gli aveva detto nulla temendo di metterlo in imbarazzo, ed era l’ultima cosa volesse. Anche perché, Chris, fatta eccezione dei suoi compagni di band e dei loro ‘familiari’, era stato l’unico a mostrargli sincera simpatia da che era tornato a Seattle. Era pur vero nessuno gli avesse esplicitamente mostrato avversione, non c’era stato aperto ostracismo nei suoi confronti, ma Eddie sapeva di non essere stato completamente accettato nel giro. La scena musicale di Seattle –l’aveva capito immediatamente – era chiusa e ripiegata su se stessa, una sorta di scombinata famiglia infelice che andava avanti su scambi matrimoniali ed incesti incrociati: tutti erano stati, anche solo per poco, in gruppo con qualcun altro. Tutt’altra cosa rispetto alla California.

Stone e Jeff erano un’eccezione dato che si erano incontrati, scoperti e mai più separati, e da più di sei anni dividevano spartiti, litigi e strumenti: i loro cambi di formazione li avevano sempre fatti in coppia nonostante qualche defaillance di brevissima durata e sempre per progetti collaterali a loro.  

Li avevano buttati fuori dal locale che erano quasi le due, Cornell e alcuni suoi amici – compreso lo sciamano-chitarrista che aveva comunque passato buona parte del tempo a discutere con Mike della metafisica della corda – li avevano aiutati a sbaraccare la strumentazione e si erano poi ritrovati a ridere e chiacchierare nel parcheggio semideserto del locale scambiandosi le ultime birre sottratte al bar.

Il cielo era completamente coperto come al solito, non si vedeva una sola stella, ed il freddo umido che funestava quei giorni entrava nelle ossa, ma solo Eddie sembrava sentirlo. Forse perché, al contrario degli altri, non aveva portato un’ulteriore giacca da mettere: ma proprio non ci riusciva, non ci arrivava ad entrare nell’ottica di un clima che ti costringe, a novembre, ad indossare una semplice camicia durante il giorno e tre strati di magliette felpe e cappotti di notte. Intanto moriva di freddo e nemmeno la birra o la canna che si stavano passando riuscivano a scaldarlo.

“Ed, ma che hai freddo?”

Stone aveva passato il mozzicone al cantante per l’ultimo giro e si era ritrovato di fianco una massa di capelli tremante che praticamente tentava di piegarsi su se stessa. Eddie aveva scosso il capo poco convinto, ma la mano che aveva accettato quell’ultimo tiro tremava vistosamente, cosa che Stone sembrò trovare molto divertente. Un po’ meno Jeff, che si stressava sempre troppo per qualsiasi cosa, soprattutto per l’apparente leggerezza di Stone che sembrava non riuscire a prendere sul serio nulla che non fosse segnato in note su uno spartito. Ma se il cantante si ammalava, come avrebbero fatto per le prove le registrazioni i concerti? Non c’era niente da ridere.

“Conviene tornare a casa, per stasera possiamo anche ritenerci soddisfatti. E poi sta scendendo un po’ d’umidità…”

“Un po’? Ma se è praticamente una settimana che respiriamo acqua, mi sento un pesce in una boccia!”

Eddie probabilmente non aveva molto senso dell’umorismo. Forse era persino un po’ suscettibile. Perché non gli sembrava di aver fatto nessuna battuta giustificasse lo scoppio d’ilarità improvvisa che aveva seguito le sue parole: da un po’ di tempo a quella parte un po’ troppa gente lo faceva sentire un comico involontario – per non dire un idiota – e la cosa non gli piaceva.

Non aveva detto niente, come al solito. Ma desiderò tantissimo essere a San Diego per potersi sfogare sulla sua tavola da surf, persino qualche caduta avrebbe giovato al suo umore.

Alla fine si erano separati dirigendosi verso le proprie macchine, Mike avrebbe scortato Stone, Jeff sarebbe tornato – ovviamente – a casa con la sua ragazza, lo sciamano aveva seguito una rossa con poche tette ma un culo che parlava da solo desideroso di farci due chiacchiere, Cornell si era incaricato di recapitare a casa Eddie sano e salvo. Nemmeno fosse un pacco, fanculo a tutti quanti.

La statale scorreva veloce sotto le ruote del pick-up di Cornell, le poche porzioni d’asfalto rischiarate dall’illuminazione pubblica e dai fari della vettura erano le uniche cose visibili nella totale oscurità di quella notte senza luna e senza stelle.

Ed si era rannicchiato nel sedile passeggeri cercando di trarre più calore possibile dalla sua felpa sdrucita, ma senza successo. Quel freddo improvviso lo rendeva troppo lucido per i suoi gusti, e rimuginare non gli faceva bene, soprattutto se i pensieri avevano tutti il colore di quel paesaggio invisibile e la consistenza della nebbia.

Cornell guidava in silenzio ticchettando il volante con le dita a tempo con la musica che l’autoradio trasmetteva a bassissimo volume: la KZUU stava trasmettendo un pezzo degli Alice In Chains, i ragazzi della Wazzu4 avevano orecchio, lo si doveva ammettere. E non si stupì più di tanto nel sentire che anche Eddie seguiva la canzone mormorandola piano, evidentemente sovrappensiero.

Chris gli era andato dietro bisbigliando via via sempre più ad alta voce, finchè non si erano ritrovati entrambi a cantare a squarciagola Won't you come and save me, save me5 sulle battute finali insieme a Layne: Eddie era di nuovo a suo agio, ma non aveva meno freddo.

“Odio questa maledetta umidità, come diavolo fate a vivere con questa insopportabile pioggia… con questa pioggia che non vuole cadere?”

Cornell lo aveva guardato per un attimo confuso, come se credesse di non aver sentito bene le parole dell’altro, poi aveva sorriso con un sospiro paziente mentre riportava l’attenzione alla strada fortunatamente deserta.

“La pioggia fa parte di Seattle anche quando non c’è, ma non è così male. E forse, chissà, stavolta sta semplicemente aspettando qualcosa di nuovo su cui cadere, no?”

“…”

“Vuoi essere tu quel qualcosa, Ed?”

“Io voglio solo cantare le mie canzoni, le canzoni del gruppo.”

“Bene. E allora canta le vostre canzoni e piantala di aver paura del pubblico. Tu sei il cantante, Ed, e il cantante è il fuoco del palcoscenico. Quindi, cazzo, brucialo quel palco. Se la pioggia ti da tanto fastidio, allora sii fuoco e falla evaporare tutta fino all’ultima goccia.”

Quando Chris Cornell aveva lasciato il coetaneo Eddie Vedder sotto la pensione in cui quest’ultimo alloggiava, nemmeno immaginava cosa avesse innescato pronunciando quelle poche parole su una strada secondaria del quartiere industriale. Ed non era riuscito a prendere sonno quella notte – mattina – continuando a rimuginare quelle frasi in un crescendo di consapevolezza vergogna stupore determinazione. Soprattutto quell’ultima, che l’aveva sempre accompagnato nell’arco della sua vita e che doveva aver chissà come dimenticato a San Diego. A Eddie non interessava l’Olimpo e non voleva toccare il cielo. Lui quello stesso cielo voleva grattarlo via liberandosi di quella rabbia e di quel dolore che di notte gl’impedivano di dormire e respirare, voleva strappare quell’infinito vuoto che opprimeva con le sue promesse di libertà illusorie.

Lui, il gruppo, non sarebbe stato la pietra focaia, ma l’onda anomala che avrebbe investito Seattle, l’America, il mondo, chissenefrega:  avrebbe liberato l’energia cinetica imprigionata dentro di lui a tempo con le note.

Loro sarebbero diventati pioggia.

End.
   
 
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