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Autore: becky    06/09/2010    4 recensioni
La notte in cui venne al mondo pioveva. Il cielo sembrava volesse riversare sulla terra tutta la sua forza e il suo rancore. Il bambino venne alla luce poche ora prima dell’alba, mentre il castello era avvolto dal più tombale dei silenzi. Il conte Mihawk lo osservò con attenzione, mentre una delle balie glielo metteva davanti. Annuì un paio di volte, alternando lo sguardo dal figlio al cielo violaceo che ancora grondava pioggia. Infine abbozzò un sorriso, mentre un nuovo tuono rompeva l’aria fredda del maniero. Suo figlio era nato sotto i migliori auspici.
Scritta per il contest "Gli altri di One Piece" di AkaneMikael. MIhawk Centric
Genere: Generale, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Drakul Mihawk
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Unendo il nome (Drakul), il fatto che vada in giro in una bara, che porti un crocefisso al collo e che abbia delle mostruose occhiaie, non può che venir fuori una cosa: il Conte Dracula. Quindi sì, lo dichiaro esplicitamente, mi sono ispirata a Dracula (cosa che,secondo me, ha chiaramento fatto anche Oda-sensei). Per il resto questa storia è composta da tre momenti chiave della vita di questo personaggio: l’infanzia, la sua giovinezza da pirata, il suo incontro con la nuova generazione.

I personaggi non mi appartengono, sono tutti di Oda!

Arrivata seconda al contest “Gli altri di One Piece” di AkaneMikael!

 

 

 

Sul piedistallo dorato

(da dove gli uomini sono solo formiche)

 

 

- PARTE PRIMA-

 

La notte in cui venne al mondo pioveva. Il cielo sembrava volesse riversare sulla terra tutta la sua forza e il suo rancore. La notte buia veniva rischiarata da lampi occasionali e scossa da tuoni di inumana potenza, che per qualche istante riuscivano a coprire le urla di dolore della donna.

Lady Willhelmina era stata educata rigidamente e non aveva mai gridato prima di allora. Aveva imparato a stringere i denti e a mostrare sempre la consueta maschera di fredda indifferenza, ma quella notte non riusciva a smettere di urlare come una pazza. Come una donna qualunque che stesse partorendo.

Il bambino venne alla luce poche ora prima dell’alba, mentre il castello era avvolto dal più tombale dei silenzi. La madre gli lanciò un’occhiata veloce, per assicurarsi che fosse in buona salute e privo di malformazioni. Il conte Mihawk, invece, lo osservò con maggiore attenzione, mentre una delle balie glielo metteva davanti. Annuì un paio di volte, alternando lo sguardo dal figlio al cielo violaceo che ancora grondava pioggia. Infine abbozzò un sorriso, mentre un nuovo tuono rompeva l’aria fredda del maniero. Suo figlio era nato sotto i migliori auspici.

 

L’isola in cui Drakul Mihawk era nato era una piccola isola autunnale del mare del Nord. Ogni giorno, affacciandosi dalla finestra della propria camera, Drakul scorgeva sempre lo stesso paesaggio: un’immensa distesa di colline adornate da alberi dalle foglie gialle e rosse, un cielo grigio e nuvoloso costantemente in procinto di piovere, pallidi raggi di sole che scalfivano la terra brulla e i rossi tetti del villaggio.

Dalla propria finestra riusciva a vederli chiaramente, i tetti delle case. Il castello si trovava su un rilievo e dominava l’intera area, come monito per gli abitanti. La nobiltà li osservava dall’alto e aveva potere di vita e di morte su tutti loro.

Drakul aveva imparato presto a conoscere il castello. Era immenso agli occhi di un bambino, ma dopo poco aveva perso ogni attrattiva. Era grigio, freddo e inospitale. Drakul dubitava che fosse mai stato attraente, in passato. Le pareti di pietra erano ricoperte da arazzi oscuri e obsoleti, i lampadari erano pendenti e, sebbene  in perfetto stato, lanciavano cupe ombre nei corridoi. Perfino la mobilia, di estremo lusso, era tenebrosa e di legno scuro. Tutto, in quell’imponente castello dai contorni desolati, trasudava morte.

Il bambino conosceva ogni passaggio segreto del maniero, ogni scappatoia, ogni angolo. Si era reso conto di conoscere cose di cui nemmeno la servitù era a conoscenza. E se all’inizio quello gli aveva dato uno strano senso di potere, di ricchezza, dopo un paio d’anni era diventato un fattore trascurabile. Non prestava nemmeno più attenzione ai quadri degli antenati o alle armature collocate nei grandi saloni.

Era diventato rapidamente indifferente a tutto quello, proprio come i suoi genitori.

Drakul Mihawk detestava il Conte e la Contessa Mihawk. Fin da bambino non aveva mai potuto sopportare la loro boria, la loro palese insoddisfazione, la loro superficialità. Erano creature vuote, ragionava, prive di interessi, ambizioni, ideali. Vivevano cercando di mantenere quel titolo nobiliare il più a lungo possibile, ostentando la loro inquietante ricchezza. Ricchezza che derivava dal lavoro di altri, ovviamente.

Ma in tutta onestà, nemmeno questo importava al piccolo Drakul. Proprio come il castello, anche i suoi genitori avevano perso interesse ai suoi occhi dorati.

Lo stesso si poteva dire del Conte e della Contessa. Guardavano il figlio con occhi disattenti ma avidi. Vedevano in lui unicamente il loro erede, colui che un giorno sarebbe divenuto Conte al posto loro e che avrebbe posseduto tutti i loro beni. Nient’altro che un pezzo da esposizione, un piccolo e grazioso oggetto da mostrare in pubblico, di cui vantarsi e inorogorglirsi.

Gli avevano imposto una disciplina ferrea, proprio come l’avevano appresa loro stessi da bambini. Lo avevano educato secondo quello che la nobilità considerava il migliore dei modi, con il bastone e il disprezzo per gli altri. Gli avevano insegnato a guardare le persone dall’alto in basso, a non piegare mai il capo, a essere brutali e doppiogiochisti.

Fin da piccolo, Drakul era stato messo tra le braccia di estranei. C’erano state balie, tate e maestri a prendersi cura di lui. L’ultimo educatore, in ordine di tempo, era un vecchio accademico dai modi rigidi e dal sapere sconfinato, che lo teneva legato al guinzaglio dei propri doveri. Quell’uomo era colui che Drakul odiava maggiormente.

A dieci anni Drakul spendeva la giornata tra lo studio più severo e i suoi doveri di giovane Lord. Aveva imparato a cavalcare, ma l’equitazione lo annoiava a morte. Suonava il violino e il pianoforte, parlava sei lingue diverse, danzava il valzer e conosceva il proprio albero genealogico, da ambo le parti, a memoria. Eppure tutte quelle cose erano superflue per lui. Come se tenere una penna tra le dita, o accordare un pianoforte, fossero semplici azioni da compiere per sopravvivere. Niente di più che respirare o camminare.

 

Tutto cambiò un giorno di settembre. Settembre era un mese come un altro, su quell’isola. Non c’era alcuna differenza di temperatura o di vegetazione. Le foglie restavano scarlatte o dorate come negli altri undici mesi, il cielo prometteva pioggia, il vento tirava gelido per le vie del villaggio.

Ma quel giorno Drakul lo ricorda perchè ha visto il sole, la luce, per la prima volta.

Fu quel giorno di settembre che Drakul incontrò Keisuke Shinju, il nobile spadaccino dalla spada di perla.

Il Conte Mihawk sosteneva che un giovane nobile necessitasse di saper utilizzare qualsiasi arma, spada compresa. Forse aveva già fiutato l’aria che tirava o forse era davvero convinto che imparare l’arte della spada avrebbe potuto essergli utile, ma volle che il figlio apprendesse le nozioni basilare dal grande maestro.

Drakul aveva undici anni quando prese in mano, per la prima volta in vita sua, una spada.

Fu come se il mondo si illuminasse, in quel preciso istante. Le pareti di pietra scura, i mobili di legno antico, i corridoi deserti, le alte torri del castello, gli oscuri stendarti...tutto prese nuova forma attorno a lui. Iniziò a brillare. Brillare di luce malvagia, di ombre innaturali, ma pur sempre di qualcosa.

Da quel momento in poi, intimamente, decise che non avrebbe più lasciato andare la spada.

 

- Drakul, l’impugnatura va più stretta- lo corregge con fermezza Shinju – E tieni la guardia più alta!-. Il bambino ubbidisce silenziosamente, tentando alcuni affondi nel vuoto.

Shinju lo osserva da lontano, tra l’ammirato e l’intimorito. Nel corso della sua vita ha avuto centinaia di allievi, alcuni di essi estremamente dotati e promettenti. Ma nessuno, mai, era stato come lui. Drakul Mihawk III è uno di quelli che si chiamo prodigi. Sembra essere nato per tenere la spada in mano, e cosa ancora più inquientante, sembra che lui se ne renda perfettamente conto, nonostante la giovane età.

C’è qualcosa, negli occhi sottili e dorati di quel bambino, che lo fa tremare. “Eppure ha solo undici anni” si ripete l’uomo mentre Drakul taglia in due un manichino di legno senza la minima difficoltà.

- Shinju!- esclama una voce tonante e voltandosi il maestro vede il Conte sulla soglia. Con un piccolo inchino si presenta di fronte a lui. – Come procedono gli allenamenti di mio figlio?- domanda duramente il nobile osservando di striscio il bambino al centro della sala. Shinju prende un profondo respiro – Il signorino ha un talento innato. Di questo passo potrebbe diventare un grandissimo spadaccino-. Il conte sbarra gli occhi e sembra essere stato appena schiaffeggiato. – Mio figlio? Uno spadaccino?- sbotta sbiancando – Non diciamo empietà! Drakul sarà il ventiquattresimo Conte Mihawk. Si tolga dalla testa che il ragazzo diventi uno spadaccino. Deve solo sapersi difendere, se necessario-. – Certo mio signore- acconsente il maestro, ben conscio però che sarà impossibile strappare di mano la spada a quel bambino.

 

Il giovane Drakul superò le più rosee previsioni del proprio insegnante. In meno di sei mesi apprese tutto quello che Shinju poteva insegnargli. L’uomo non lo sfidò mai apertamente, per paura di constatare con i suoi stessi occhi che l’allievo aveva superato il maestro.

Ogni giorno lo osservava mentre si allenava, instancabile, e ogni giorno si allarmava sempre di più. Se inizialmente aveva pensato che Drakul fosse un prodigio, dopo qualche mese realizzò che il ragazzino era un genio della scherma. Il fioretto, la katana, la sciabola...riusciva ad utilizzare qualsiasi arma con una facilità innaturale. Eppure, nonostante gli bastasse una sola giornata per apprendere l’utilizzio di una nuova lama, Drakul continuava ad allenarsi senza sosta. Era già perfetto, al massimo livello che si potesse pretendere da un ragazzo, ma lui continuava ad allenarsi. Come se quella fosse stata la sua unica gioia di vivere.

Shinju era seriamente preoccupato dalla propria dicotomia di sentimenti. Da una parte era oscenamente orgoglioso del proprio pupillo. Dall’altra, però, ne era terrorizzato. Temeva di aver creato un mostro. Una volta divenuto adulto, Drakul Mihawk avrebbe potuto diventare un assassino a sangue freddo, un mostro, uno sterminatore. Una persona con i suoi occhi e le sue capacità poteva diventare qualsiasi cosa.

 

I suoi genitori non approvavano la sua passione per le spade, ne era consapevole, ma non gli importava. Aveva trasformato il proprio studio in una piccola Santa Barbara in cui amava raccogliere le spade più prezione e antiche che riusciva a reperire.

Durante il giorno, quando riusciva a ritagliarsi qualche minuto tra lo studio e gli allenamenti, sfogliava i numerosi volumi della biblioteca del maniero, in cerca di nuove spade da collezionare. Non era una di quelle persone che accatastava armi per poi chiuderle in una teca e ammirarle. Lui era uno spadaccino e le sapeva utilizzare tutte, nessuna esclusa, con professionalità e talento. Amava sentirne la consistenza diversa, osservarne la fattura pregevole mentre le sfoderava, sentirle sibilare quando sferrava un colpo.

Fu durante uno di quei pomeriggi trascorsi nella tetra biblioteca di famiglia che trovò quella che un giorno sarebbe divenuta la sua spada.

Gli comparve davanti improvvisamente, voltando pagina. Era la cosa più bella che avesse mai visto. Una spada enorme, magnifica, nera. La sola immagine su quel libro emanava forza e rispetto.

Giurò che avrebbe avuto quella spada e che ne sarebbe stato l’ultimo possessore.

 

Quando il giovane Drakul e i suoi genitori litigavano, nessuno alzava mai la voce. Non c’erano mai state grida o pianti isterici, tra loro. Tutto si giocava tra occhiate di puro gelo e sibili seccati.

Anche quella sera, una sera apparentemente come tante altre, nessuno gridò nè manifestò apertamente il proprio disappunto.

Il Conte Mihawk rimproverò blandamente il proprio erede di trascorrere troppe ore a tirare di scherma, anzichè occuparle negli affari di famiglia. Drakul si limitò a sospirare e serrare le labbra. Il padre gli ordinò di mangiare tutto ciò che aveva ancora nel piatto, praticamente intonso, e come mille altre volte il ragazzino si alzò elegantemente in piedi dirigendosi verso la porta. La contessa provò a fermarlo scandendo una sola volta il suo nome, quel nome nefasto e macabro, ma lui non si fermò. Augurò freddamente la buona notte ai suoi genitori e nella più totale indifferenza varcò la soglia. Non fece neppure in tempo a chiudersi la porta di mogano alle spalle che udì qualcosa di insolito provenire dalla sala da pranzo. Un tonfo, un bicchiere rotto e poi, dopo qualche secondo, le grida di una domestica.

Drakul rimase per un attimo immobile, la mano ancora stretta sulla maniglia. Fu più per curiosità che per preoccupazione che l’aprì e vide i propri genitori riversi a terra, con la bava alla bocca e le vesti sporche di vino. “Avvelenati” fu il suo primo, pratico, pensiero. Restò fermo ad osservare i cadaveri dei due genitori senza batter ciglio, più immobile di una statua di marmo.

Nulla, non provava nulla. Nè odio, nè paura, nè risentimento, nè dolore. Solo il nulla.

I momenti che seguirono furono confusi e caotici. Ancora oggi Drakul ricorda poco nitidamente cosa accadde. Rammenta le urla della popolazione alle porte del castello che chiedeva vendetta, le loro torce che brillavano nel freddo della notte, e i domestici impazziti che correvano in ogni dove. Tra loro doveva esserci sicuramente il traditore che aveva avvelenato i Conti, ma Drakul non se ne preoccupò nemmeno per un istante. Rimase semplicemente fermo sulla soglia, gli occhi fissi sui volti freddi e deformati dalla morte di sua madre e suo padre.

Qualcuno, improvvisamente, lo afferrò per un braccio e lo costrinse a voltarsi. Era Shinju, il volto teso e spaventato. – Dobbiamo fuggire- gridava nella frenesia del momento – I ribelli sono alla porte, tra poco le sfonderanno. Dovete nascondervi o andare il più lontano possibile-. Ma Drakul non rispose. Se ne stava lì, vuoto e privo di emozioni. I suoi genitori erano morti davanti ai suoi occhi e lui non riusciva a provare niente. Nemmeno sorpresa.

Shinju decise che doveva trascinarlo a forza via da lì. Lo spinse fuori dalla sala e poi giù per le scale, mentre la popolazione oppressa appiccava il fuoco ad un’intera ala del maniero.

- Dove stiamo andando?- domandò infine Drakul appena furono all’aria aperta. – Via, lontano- rispose frettolosamente il maestro – C’è una barca al molo del castello. È pronta a salpare-. – Lasciamo quest’isola?- domandò Drakul ancora tredicenne, stupito. Non era mai uscito da quell’isola, in tutta la sua vita.

Solo una volta raggiunto di corsa il molo Shinju lasciò prendere fiato al ragazzo. Si fermarono sulla banchina ad osservare l’antico e nobile maniero che ardeva desolato.

Fu allora che Drakul realizzò di essere diventato lui stesso il Conte Mihawk. Era l’ultimo erede della sua casata, il padrone di quell’isola.

L’indomani, quando la notte di furore e passione si fosse esaurita, avrebbe potuto rivendicare il proprio titolo, chiamare le forze dell’ordine e il governo mondiale per riappropiarsi di ciò che gli apparteneva per diritto di nascita. Avrebbe potuto mettere a ferro e fuoco il paese e far ricostruire l’ala del castello danneggiata. Avrebbe potuto terminare i propri studi con successo, arricchirsi, sposare una bella fanciulla cresciuta con la sua stessa educazione e mettere al mondo nuovi piccoli governatori del mondo. Avrebbe potuto vivere e invecchiare come avevano fatto i suoi antenati prima di lui, e nessuno si sarebbe ricordato di quella notte, se non come una leggenda.

Drakul aveva visto tutto quello, osservando il proprio castello prendere fuoco. Era perfettamente consapevole di quello a cui stava voltando le spalle, salendo su quella piccola barca di fortuna. Ed era altrettanto consapevole che non avrebbe mai rimpiato nulla di tutto quello.

 

 

 

 

 

 

- PARTE SECONDA -

 

Il giovane conte Drakul Mihawk era divenuto pirata e cacciatore di taglie un po’ per caso e un po’ per necessità. Avrebbe anche potuto dilapidare quel che restava del suo patrimonio di famiglia e vivere dignitosamente, nell’agio e nel lusso, ma lui preferì investirlo. Investirlo nella pirateria, per l’esattezza.

Era un pirata anomalo, Drakul Mihawk. Non era uno di quei briganti che solcavano il mare in cerca di avventure da raccontare nelle taverne o di quelli fieri di essere pirati e fuorilegge. Al contrario, Drakul non andava affatto fiero di essere un criminale.

 

Drakul non ricorda con esattezza la ragione per cui quel giorno di tanti anni fa’ si trovava su quell’isoletta sperduta del Grande Blu. Non sa nemmeno perchè entrò in quella taverna. Era poco più di una baracca, totalmente in legno scuro, all’ombra di grandi palme lussureggianti. Forse aveva sete, o fame, quando vi mise piede per la prima volta.

Appena varcata la soglia il frastuono e i canti osceni di un gruppo di pirati gli violentarono l’udito. Fu sul punto di girare i tacchi e trovare un altro posto per rifocillarsi, ma qualcosa gli diceva di restare. Il suo istinto raramente falliva, perciò prese un profondo respiro e si diresse al bancone, dove ordinò una semplice birra scura.

- Ancora una volta siamo riusciti a fuggire alla marina! Fanculo la marina e fanculo le taglie sulla nostra testa!- urlò una voce gioviale facendo esplodere un applauso nell’intera locanda. Mihawk bevve un lungo sorso di birra e sollevò lo sguardo. Pirati con una taglia sulla testa...potevano fare al caso suo. Detestava lavorare in pubblico, ma se la taglia era consistente, avrebbe anche potuto fare un’eccezione. Li avrebbe stesi in pochi attimi e avrebbe intascato una bella somma di denaro.

Sogghignò soddisfatto e si voltò sullo sgabello, per guardare chi fosse l’incauto pirata che aveva parlato. Quando lo vide, gli bastarono pochi secondi per comprendere che non sarebbe affatto andata in quel modo. Quello non era certamente il genere di pirata che si lascia sopraffarre in pochi secondi.

Doveva avere all’incirca la sua stessa età, ma un atteggiamento e una postura completamente differenti dai suoi. Se ne stava seduto comodamente su una sedia, i piedi scalzi appoggiati al tavolo, la camicia sbottonata e un ridicolo cappello di paglia a coprirgli il volto  e i capelli rosso fuoco.

C’era qualcosa però, nella sua voce e nel suo mezzo sorriso, a metterlo in soggezione. E a fargli alzare la guardia. Lo osservò con maggiore attenzione e notò la spada che portava al fianco. Doveva essere uno spadaccino come lui a giudicare da quanto la lama fosse consumata. Eppure la teneva legata al fianco, sempre, pronta ad essere utilizzata in qualsiasi momento.

Drakul su sentì percorrere da mille brividi freddi, e se ne compiacque. Erano anni che non sentiva quel velo di eccitazione e di paura impradonirsi di lui. Per un uomo attento, scrupoloso e poco istintivo come lui, trovare un avversario che fosse in grado di fargli desiderare il combattimento era cosa rara. Rara ma gradita.

Ingollò l’ultimo sorso di birra, lasciò qualche moneta sul bancone e si alzò il bavero della camicia. Si diresse a passo lento e cadenzato verso lo sconosciuto e gli si parò davanti mettendolo in ombra.

- Ehi, straniero!- esclamò divertito e vagamente ubriaco il rosso – Vuoi unirti a noi? Ci facciamo una birra?-.

Mihawk lo osservò con attenzione, notandone gli occhi scuri, vispi e acuti nonostante l’alcol nelle in corpo, e le vene in rilievo sulle braccia muscolose. Il cuore iniziò ad accellerare i battiti e l’adrenalina a scorrere nel sangue alla sola idea di un duello con quell’uomo impregnato da testa a piedi di Haki.

- Dici di avere una taglia sulla testa...a quanto ammonta?- domandò senza preamboli, come sempre chiaro e diretto. Il rosso sogghignò – Duecentocinquantamila, tesoro-.

- Andiamo fuori- disse semplicemente Drakul, sfiorando per nulla casualmente l’elsa della propria spada. Qualcosa simile ad un lampo passò negli occhi castani del rosso. Forse era compresione, o forse la stessa eccitazione che sentiva Drakul per aver riconosciuto a pelle qualcuno degno di essere sfidato e sconfitto.

Sotto gli sguardi perplessi e intimoriti dei suoi uomini si alzò in piedi e seguì Drakul fuori dalla locanda. Si erano diretti in una spiaggia isolata, in modo da non dover temere di fare del male a nessuno. Non era semplicemente una questione di soldi, ma di ambizione e orgoglio.

 

Quella fu la prima volta che Mihawk Occhi di Falco e Shanks il rosso si scontrarono. La prima di una lunga serie di sfide, di combattimenti, di duelli.

Non erano servite grandi parole, minacce o insulti. Aveva semplicemente sfoderato le spade e incrociato le lame, producendo un rumore metallico che si era propagato per tutto il Grande Blu.

Come tutte le volte successive, nemmeno allora si riuscì a decretare un vinto e un vincitore. Avevano combattuto a lungo, finchè non era stato il sole, insanguinato, a morire dietro l’orizzionte. A quel punto avevano piantato le spade a terra, rischiando di accasciarcisi sopra, e avevano sospirato.

Drakul aveva il viso contratto per lo sforzo, più pallido di un cadavere, gli occhi dorati che brillavano degli stessi colori del tramonto. Al contrario Shanks sorrideva beatamente, irritantemente, e ogni fibra del suo essere emanava soddisfazione e spossatezza.

Lontani da tutto e da tutti, su quella spiaggia minuscola, si erano arresi a sedersi uno di fianco all’altro, affondando mani e piedi nella sabbia calda.

- Ne vuoi un po’?- domandò cordiale il rosso porgendo all’altro spadaccino una fiaschetta di Rhum. Drakul gli scoccò un’occhiata seria, quasi d’avvertimento, ma alla fine l’afferrò e buttò giù una lunga sorsata. Non ringraziò, perchè era stato educato a non dire mai grazie, al Conte Mihawk era tutto dovuto, ma gliela restituì con un vago cenno della testa. Shanks ridacchiò e bevve a sua volta, compiaciuto.

- Combatti bene, sai?- esclamò all’improvviso il rosso, calandosi sugli occhi il cappello di paglia.

Drakul inarcò le sopracciglia scure, senza sapere cosa dire o rispondere.

- Penso che tu sia il miglior spadaccino del mondo- continuò sicuro di se Skanks – Adoro combattere contro di te. Dobbiamo rifarlo, qualche volta-.

Questa volta fu Mihawk a sorridere, trovandosi pienamente d’accordo.

E fu allora, seduto sulla sabbia ad osservare l’imbrunire, ricoperto di tagli e ferite, a corto di fiato, che Drakul si sentì per la prima volta fiero di essere un pirata. Se essere un pirata significava essere come Shanks, avere il suo stesso carisma e la sua leggerezza d’animo, allora andava veramente bene.

 

 

Drakul era un uomo pragmatico e sufficientemente intelligente da sapere che, per sopravvivere in quel mondo, bisognava evitare i guai. Per questa ragione, unicamente per questa ragione, aveva accettato di entrare nella flotta dei sette. Essere uno shibukai, un cane del governo, non era affatto motivo di orgoglio, ma Drakul era ormai superiore a tutto ciò. Non gli era mai interessato il giudizio degli altri, le occhiate di disprezzo e gli sputi ai suoi piedi. Fin da bambino gli abitanti del suo villaggio lo fissavano con astio e timore. Che cosa cambiava se a farlo era l’intera popolazione mondiale? Se erano pirati da quattro soldi perfino incapaci di tenere una spada tra le mani?

La verità, però, era che da quando Shanks aveva perso il braccio ed era divenuto un Imperatore, non c’era più motivo per essere un vero pirata.

Improvvisamente, quando aveva visto il moncherino dell’amico e rivale di sempre, era finito tutto. Si era sentito vecchio, per la prima volta. Vecchio e sorpassato. Aveva circa trentanni, all’epoca, ma la sua giovinezza già gli sembrava un lontano ricordo.

Senza più Shanks con cui combattere, senza l’eccitazione e l’adrenalina che ciò gli procurava, Drakul si sentì svuotato e invecchiato. Cosa avrebbe fatto da quel momento in avanti?

Per questo era entrato nella flotta dei sette. Un po’ per noia, un po’ per gioco, un  po’ per non avere problemi con il governo. In fondo, lui odiava i problemi.

 

 

-         PARTE TERZA –

 

 

Il Conte Drakul Mihawk camminava da solo per i lunghi e deserti corridoi del castello. I suoi passi risuonavano tetri e desolati sul pavimento di marmo, riempiendo almeno per qualche istante quel luogo immenso.

Da qualche anno aveva preso possesso di quella dimora, in parte perchè gli ricordava il castello dal quale proveniva, in parte perchè uno come lui non avrebbe mai potuto vivere in un luogo meno regale e spettrale di quello. La sua solitudine, i suoi silenzi, i suoi cieli tempestosi e la nuda pietra delle torri si addicevano perfettamente al suo carattere schivo e altezzoso.

Quella notte, anzichè riposare nel suo nero ma sontuoso baldacchino, camminava avanti e indietro per i corridoi del maniero.

Rifletteva su quello che era accaduto qualche giorno prima, su come un incontro puramente casuale avesse potuto fargli nascere tante sensazioni contrastanti nel petto.

 

Avrebbe riconosciuto quel dannato cappello di paglia ovunque.

Quante volte lo aveva visto calato su quel volto gioviale e sorridente? Quante volte lo aveva fatto volare via sferzando l’aria con la sua spada? Quante volte era andato a riprenderlo per poi appoggiarlo sui capelli rossi di Shanks?

Ma quello che aveva incontrato presso i resti di una locanda nel mezzo del mare non era Shanks. Era un ragazzino, un moccioso alto e magrolino, con un’assurda cicatrice sotto l’occhio e un sorriso sproporzionato. Non era Shanks eppure aveva il suo adorato cappello di paglia. E per un attimo, un solo istante, aveva quasi creduto di rivedere lo Shanks di un tempo.

Poi aveva visto lo spadaccino. Quel ragazzo con tre spade lo aveva seriamente sopreso. Come spadaccino era poco più di una nullità, almeno dal suo punto di vista, ma aveva coraggio da vendere e un onore da difendere grande come il mare.

Se nel moccioso di gomma aveva rivisto Shanks, negli occhi neri e taglienti dello spadaccino coi capelli verdi aveva intravisto se stesso. Il Mihawk di un tempo, quello che ancora solcava i mari in cerca di avversari da sconfiggere e di spade da sottrarre. Il Mihawk che non si tirava indietro a nessuna sfida e che andava fiero di essere lo spadaccino migliore del mondo.

Dove era finito quel Mihawk? Era forse morto il giorno in cui il suo avversario prediletto aveva riposto definitivamente la lama nel fodero?

Drakul sorrise a malincuore, osservando il proprio riflesso in uno specchio di ottone. E si vergognò per essersi adagiato tanto sugli allori, per essersi estraniato dal mondo a tal punto da non riconoscersi più. Era invecchiato, ma non perchè non c’era più Shanks a combattere contro di lui. Era invecchiato perchè si era a sua volta arreso, alzandosi di propria volontà ad un livello irrangiungibile per chiunque.

Ma ora che in circolazione c’era quel Roronoa, le cose cambiavano. Forse, dopo tanti anni, c’era qualcuno che poteva fargli provare nuovamente il desiderio di battersi e di migliorarsi.

Al momento tutto quello che poteva fare, si disse ammirandosi nello specchio, era attendere. E nel frattempo provare a scendere dal piedistallo dorato su cui si era issato, troppo lontano dagli occhi del mondo per potersi definire davvero vivo.

 

  
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