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Autore: Frances    14/09/2010    7 recensioni
Quando realizzò di aver appena fatto entrare in casa, insieme, entrambe le persone che non riusciva a sopportare neppure singolarmente e di essersi cacciato da solo in quella che con grande probabilità sarebbe diventata la peggiore serata della sua vita, Arthur Kirkland deglutì appena, lasciandosi sfuggire un sospiro strozzato.
[ FrUk // USUK - Quando il caso unisce tre persone che non si sopportano e riesce addirittura, inspiegabilmente, a farle andare (quasi) d’accordo.]
Genere: Commedia, Fluff | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: America/Alfred F. Jones, Francia/Francis Bonnefoy, Inghilterra/Arthur Kirkland
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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synchronicity

Quando il campanello di casa sua suonò per la prima volta, Arthur Kirkland si trovava nel bel mezzo di una complessa ricerca filosofica che lo aveva impegnato per più o meno un mese e mezzo e che si avviava faticosamente alla conclusione. Si trattava di un’analisi dell’irrazionale che sarebbe poi stata la tematica principale di alcune sue lezioni in classe; lo aveva tormentato fino a fargli vedere fatine e fantasmi volteggiare nel buio ogni volta che aveva chiuso gli occhi durante le sue innumerevoli notti insonni. Si era rivelata così complessa che spesso si era ritrovato a sbottare di frustrazione nel bel mezzo del silenzio in biblioteca, o cedere a terribili crisi di nervi nel momento in cui, leggendo e rileggendo i brani di riflessioni filosofiche famose, non era riuscito a trovare ciò che gli serviva. Molti gli avevano detto sorridendo che con il carattere irascibile ed impaziente che si ritrovava era il filosofo meno credibile che fosse mai esistito (cosa che lo aveva fatto arrabbiare ulteriormente).

Ma lui in fin dei conti non aveva studiato per farsi dire dagli altri cosa doveva fare, né tanto meno per dare credito ai loro commenti lasciandosi andare pubblicamente a scoppi d’ira – si limitava a fare il suo lavoro di insegnante nel migliore dei modi, godendosi quella cattedra che si era guadagnato con tanta fatica e dedizione.

Alzandosi dalla scrivania con una bassa serie di imprecazioni, poggiò attentamente la penna stilografica e abbandonò il blocco note pasticciato di appunti tra libri e fotocopie.

Oltre la porta, sui bassi gradini che rialzavano l’ingresso dal livello della strada, gli occhi azzurri e limpidi di Alfred F. Jones lo guardarono attraverso le lenti degli occhiali, sbattendo le palpebre. Aveva addosso una felpa con il cappuccio e dei jeans larghi strappati sul ginocchio, una borsa dall’aria pesante a tracolla e delle cuffie ingombranti che gli circondavano la testa come un’aureola di plastica lucida; lasciò scivolare queste ultime sul collo con un gesto disinvolto un attimo prima di dire allegramente:

« Hey!» Come se formule più adatte come Buon pomeriggio o Buonasera non riuscissero a trovare posto nel suo già limitato vocabolario americano.

Arthur lo squadrò, indeciso se sentirsi sorpreso da quella visita o piuttosto seccato. Una cosa era certa, era appena stato interrotto in un flusso di coscienza che lo aveva quasi condotto alla fine della sua ricerca – e questo non lo metteva sicuramente di buon umore.

« Hey.» Rispose al saluto con poco entusiasmo. « Cosa c’è?»

Alfred si strinse nelle spalle, regalandogli un sorriso tranquillo:

« Niente. Ho voglia di cenare con te.» Sollevò una mano mostrandogli due buste gonfie fino a scoppiare su cui spiccava la M arrotondata di McDonald’s. « Ho portato da mangiare.»

Arthur squadrò le confezioni, trattenendo appena il respiro quando lo raggiunse l’effluvio di olio vecchio fritto troppe volte oltre il limite di ciò che veniva comunemente definito sano:

« Immagino che siano hamburger.» Constatò, poco convinto. Ebbe la risposta che cercava ancora prima che Alfred aprisse bocca, dalla luce deliziata e felice che gli illuminò il viso un attimo prima di annunciare:

« Certo che si.»

Arthur incrociò le braccia sul petto, chiudendo gli occhi e sancendo con tono critico:

« Allora dubito che lì dentro ci sia davvero qualcosa da mangiare

Alfred assunse un’espressione contrariata, abbassando le buste lungo il fianco; sembrava che quell’insinuazione lo avesse colpito nell’intimo, ferendolo come un’offesa rivolta direttamente a lui.

« Ma ho scelto anche quello con il filetto di pesce impanato e le patatine fritte. E anche l’insalata. Pensavo ti sarebbe piaciuto.»

Per due secondi, la mente di Arthur vacillò tra la tenerezza per quella premura ed il desiderio di evitare in ogni modo che Alfred entrasse in casa sua; fu questa sottile incertezza a farlo esitare – tentò di guadagnare tempo studiando la stella bianca che decorava le cuffie di quella grossa minaccia americana, cercando di ignorare la sua espressione da cane bastonato:

« Mmh.» Dopo una rapida analisi della situazione, realizzò che la sua necessità primaria fosse allontanare quegli hamburger e decise di mentire. « Ad ogni modo ho già cenato.»

« Ah.» Gli occhi di Alfred vagarono verso il basso e poi tornarono sicuri a fissarsi in quelli dell’altro, dopo neppure un secondo e mezzo. « Tanto ho appena deciso che mi farai entrare lo stesso.»

« No, a casa mia decido io chi entra.» Arthur lo disse con fermezza e severità, sollevando il mento nel tentativo di apparire più autorevole verso quel ragazzo che lo superava in altezza di una buona spanna.

Alfred gli rispose con un sorriso genuino e tranquillo, ignorandolo deliberatamente mentre gli poggiava una mano sulla testa per scompigliargli i capelli:

« Con permesso!» Lo spinse all’interno, muovendo passi rapidi sugli scalini e poi sul tappeto dell’anticamera, chiudendo il portone con un piede. « E’ bello sapere che tu apprezzi sempre e comunque la mia compagnia!*»

Nonostante i suoi tentativi di riaprire la porta e di spingere Alfred di nuovo in strada, il giovane americano riuscì facilmente ad averla vinta: gli si aggrappò alle spalle, prendendolo da dietro e poggiando con aria allegra il mento sulla sua testa spettinata. E mentre si lasciava condurre in cucina, senza rinunciare a tentativi energici di divincolarsi, Arthur Kirkland pensò che in fin dei conti poteva sforzarsi di sopportare quella visita, rimandando il lavoro al giorno dopo. Per un breve istante mentre si vedeva costretto ad apparecchiare sul suo tavolo tondo, osò addirittura convincersi che quella serata si sarebbe conclusa rapidamente ed in maniera indolore – avrebbe mangiato con Alfred e poi avrebbe rifiutato qualsiasi sua proposta di vedere un film dell’orrore e poi dormire assieme (dalla borsa pesante che aveva con sé sembrava proprio che quelle fossero le sue intenzioni), chiamando un taxi e spingendocelo dentro a forza pur di levarselo di torno.

Ne fu convinto e se ne sentì rincuorato, perché in fin dei conti poteva sopportare Alfred con facilità, se ci metteva tutto il suo impegno (lo riprese con tono irritato dopo averlo colto in flagrante nella sua ricerca nel freezer di coppette di gelato, lo sgridò quando si sedette e per protesta mise entrambi i piedi sul tavolo, si arrabbiò molto quando gli chiese se avesse almeno una bottiglia di Coca Cola dopo aver inspiegabilmente giocato con i piatti di ceramica rischiando di farli cadere per terra).

Ma stava per sedersi a tavola, con Alfred che sfilava dalle buste il suo panino a base di pesce e la propria mezza dozzina di hamburger, quando il campanello di casa sua suonò di nuovo.

Lo fece più di una volta, componendo un motivetto irritante che fece girare Arthur su sé stesso, con gli occhi spalancati e le terminazioni nervose in allarme.

Ebbe un sospetto terribile.

Quando aprì la porta, e stavolta lo fece con un gesto nervoso e decisamente seccato, Arthur fu investito da un forte e denso profumo di cioccolato fondente.

« Bon soir!» Francis Bonnefoy fece la sua teatrale ed elegante apparizione avvolto in un impermeabile blu scuro lungo fino alle ginocchia; aveva i capelli legati che gli ricadevano sulla spalla, sfiorandogli il collo in onde morbide. Lo salutò con un sorriso, mostrando la fila di denti bianchi e dritti – Arthur a quella vista ebbe l’impulso folle di spaccarglieli tutti con un pugno in bocca. Ma non fece in tempo a mandare il corretto segnale ai muscoli delle braccia, perché l’inaspettato francese fece un passo sugli scalini piazzandogli sotto il naso un ampio pacco rettangolare, accuratamente avvolto in quella che sembrava una costosa carta da regalo avorio. Arthur fissò con diffidenza il fiocco dorato che si ergeva sulla scatola ed i perfetti riccioli del nastrino sottile che ricadevano oltre gli spigoli: gli sembrava quasi di vedere – con vero e sincero disappunto, se non addirittura sdegno – le mani di Francis che premevano con disinvoltura il nastro sulle lame della forbice, ripiegando delicatamente i lembi di carta. Una pura e fine dimostrazione di impegno e dedizione nella ricerca del bello che Arthur Kirkland onorò con un piatto:

« Cosa ci fai qui?»

Francis batté le palpebre, senza sentirsi affatto ferito da quella mancanza di entusiasmo – era evidentemente più che abituato a quel genere di reazioni:

« Ti ho portato una torta» spiegò con gentilezza, un attimo prima di muovere un altro passo verso l’ingresso. « Fatta dalle mie mani apposta perché tu l’assaggi. Mi fai entrare, oui

E anche se la sua era evidentemente una domanda, si mosse senza attendere la tagliente risposta che gorgogliava nella gola di Arthur; il sorriso del francese divenne più profondo mentre si infilava tra il padrone di casa e la porta aperta, stampandogli un bacio lieve sulla fronte e scansandolo con un movimento fluido.

A quel punto, Arthur (o più precisamente il suo cervello confuso e rintronato dall’odore di cioccolato mescolato in maniera inopportuna con l’odore acre dell’olio fritto sulle patatine) andò momentaneamente in stand by. Ci mise almeno un minuto a rendersi conto della situazione, rimanendo fermo davanti all’ingresso aperto e vuoto a fissare gli scalini, il marciapiede e la strada su cui rotolavano silenziose le foglie secche dell’autunno, sospinte dal vento. Quando realizzò di aver appena fatto entrare in casa, insieme, entrambe le persone che non riusciva a sopportare neppure singolarmente e di essersi cacciato da solo in quella che con grande probabilità sarebbe diventata la peggiore serata della sua vita, deglutì appena, lasciandosi sfuggire un sospiro strozzato.

Si ricordò con un ritardo di oltre sessanta secondi del bruciore lasciato sulla fronte dal bacio di Francis; si rivolse a lui con le parole che erano diventate la risposta standard a quelle sue inopportune manifestazioni di…mah, affetto?, nonostante lo sentisse ormai distante, a vagare da qualche parte in casa sua:

« Stammi lontano!» Sbottò con voce alta e gracchiante, mentre chiudeva con frustrazione il portone di casa.

Li trovò in cucina, seguendo le risate assordanti di Alfred e le morbide esclamazioni in francese che scivolavano dalle labbra di Francis.

Li guardò, istupidito, mentre Alfred iniziava distrattamente a mangiare patatine e il francese si sfilava l’impermeabile, ripiegandolo con cura un attimo prima di spostare una sedia per accomodarsi con le gambe accavallate.

E rimanendo immobile sulla soglia della stanza, si chiese con impeto disperato perché? Perché insieme, nello stesso dannato posto, con lui, la stessa sera, alla stessa ora, con quell’assurda sincronia e precisione da orologio svizzero? Perché quell’improvvisa, inspiegabile e irrefrenabile necessità di cenare con lui?

PERCHE’ INSIEME?

Possibile che fosse successo per un maledettissimo caso?

Arthur Kirkland non aveva mai trovato il tempo necessario a per pensare all’amore. Era sempre vissuto nel suo universo di fogli e favole, nei suoi sogni ad occhi aperti, nelle notti insonni passate a leggere libri e a scrivere pagine e pagine che non avrebbe mai fatto leggere a nessuno. C’erano state delle ragazze, durante gli anni della scuola superiore, ma non si era mai trattato di storie serie – l’unico vero amore che avesse mai provato era rivolto alla letteratura. Per molti anni era andato fiero della propria refrattarietà all’amore, della propria capacità innata di essere integro e perfetto in qualsiasi cosa facesse, della propria superiorità intellettuale e degli sguardi ammirati che gli venivano rivolti, nascondendo il timore restio che gli altri provavano nell’avvicinarlo. Andava fiero del proprio essere solo, tranquillo, in pace con sé stesso, completamente padrone della propria vita.

Ne era andato fiero, davvero. Fino a che non erano arrivati quei due dementi, ed era catastroficamente finito a letto con entrambi.

Conosceva Francis Bonnefoy fin dai tempi dell’università, quando lui si era trasferito in Inghilterra per studiare e si erano incontrati per puro e sfortunato caso alla cerimonia di inizio anno. Ed era stato ancora più angosciante scoprire di condividere con lui più o meno tre quarti dei corsi, dopo che in seguito alle prime ed elementari presentazioni Arthur lo aveva catalogato come la creatura più asfissiante e fastidiosamente melensa (e inoltre francese ben oltre i suoi limiti di sopportazione) che avesse mai incontrato. Francis amava la storia dell’arte, sapeva tenere con eleganza il pennello e la tavolozza, era capace di rimanere fermo ed immobile per lunghi minuti nel contemplare un dipinto di Van Gogh o una scultura di Canova; Arthur era legato al fascino dell’inchiostro e della pagina scritta, del frusciare dei libri stampati e dalla poesia insita nella lingua degli uomini. Anche se le loro aspirazioni erano diverse e si consideravano l’un l’altro l’unica vera piaga che infettava il mondo, erano riusciti a frequentare le lezioni seguendo la rigida legge della sopportazione. Qualche volta Francis si era offerto di studiare assieme, ma la sua natura straniera e la sua poco piacevole tendenza a toccare le cose altrui – cose di qualsiasi natura e genere – erano state le principali motivazioni che avevano spinto l’inglese a rifiutare.

Inoltre, Francis Bonnefoy profumava sempre di dolci. A volte aveva odore di crema pasticceria, trascinava dietro di sé l’aroma dei croissant appena sfornati, della marmellata e delle brioche calde. Sin da quando studiava all’università lavorava come aiuto pasticcere alla Maison Bertaux, la più popolare e antica patisserie francese di Londra. Oltre a farsi invidiare da almeno la metà degli studenti di arte del suo corso per la freschezza e la naturalezza con cui mescolava i colori ad olio sulla tela, si vantava di essere anche abbastanza bravo con gli impasti. Arthur non lo aveva mai ammesso apertamente, senza mai concedergli uno straccio di complimento, ma non c’era davvero modo di dargli torto.

E forse era stato a causa di quella sua abilità con i dolci che quella notte invernale era riuscito ad aprire una minuscola, pericolosissima falla nell’integerrimo contegno di Arthur, mettendo a dura prova non solo il suo Orgoglio Inglese, ma anche la sua illimitata stima di sé stesso. Francis quella notte emanava un forte odore di caramello. Bastava un semplice gesto, una mano tra i capelli ondulati, qualsiasi piccola variazione della sua postura sulla sedia perché il profumo di cremè caramel arrivasse ad Arthur forte e delizioso come se gli fosse stato appena servito un enorme vassoio traboccante di budini.

Quella notte Arthur Kirkland aveva fatto l’errore madornale di accettare l’invito di Francis a studiare assieme; Arthur non era un amante dei dolci, ma quella notte Francis Bonnefoy profumava dell’unico dessert di cui Arthur fosse mai andato pazzo. Ed era bastato davvero poco, un avanche ridicola che non avrebbe incastrato neppure la più ingenua e sprovveduta delle femminucce.

La mattina seguente, quando si era avvolto nella coperta desiderando ardentemente di morire, aveva rivisitato brevemente e con orrore i propri ricordi sbiaditi delle cinque o sei ore che erano appena passate. E la testa gli si era riempita di brevi e sommessi mormorii nella notte, della sensazione dolorosa di due ampie mani premute sulle sue cosce e della testiera di ferro battuto conficcata nella spina dorsale. E quel profumo mielato e quasi nauseante dell’unico dolce che lo avesse mai fatto impazzire, quell’odore che aveva annebbiato e saturato il suo mondo per una notte intera.

Inutile aggiungere che dopo quella che fu per lui la più umiliante delle disavventure, non ebbe mai più il coraggio di mangiare qualsiasi derivato della crema inglese.

L’incontro con Alfred era stato stupido e incredibilmente assurdo, ma data la persona in questione non avrebbe potuto aspettarsi niente di diverso. Lo aveva conosciuto durante quello stage negli Stati Uniti a cui aveva partecipato di malavoglia e che ricordava come il peggiore mese e mezzo della sua vita – quando ancora studiava con i suoi colleghi di corso per sostenere l’ultimo esame prima di diventare ufficialmente Bachelor of Arts.

Avevano affittato tutti insieme un appartamento nel cuore di Manhattan, a qualche isolato da Wall Strett, – una sistemazione che Arthur era riuscito a sopportare solo grazie alla dignitosa stanza singola che gli spettò per sorteggio ed alla decisione presa di comune accordo di dividere equamente il prezzo che dovevano al proprietario. L’argomento delle lezioni non lo entusiasmava, il professore che se ne occupava aveva la fastidiosa abitudine di ascoltare le domande degli studenti premendo la lingua contro i denti e la guancia; inoltre non aveva trovato un solo distributore di bevande che facesse un thé decente oltre a quel disgustoso caffé americano.

Malauguratamente costretto a dormire e vivere così a lungo nella città più frenetica e rumorosa del mondo, aveva trovato unico conforto nel momento della colazione: svegliandosi all’alba riusciva ad allontanarsi dagli altri, racimolando a forza il tempo necessario per sé stesso senza dover pensare a nessun’altro. Il cibo americano era per lo più grasso e nauseante, ma la colazione da Starbuck’s o in alcuni Delikatessen era diventata il suo momento speciale, il silenzio e la pace prima di ributtarsi nel rumore terribile di New York al mattino – i dolci ed il thè poco saporito non incontravano completamente il suo gusto, ma riusciva perlomeno a mandare giù qualcosa, storcendo il naso.

Di solito quando si chiudeva in sé stesso per sfuggire a qualcosa che detestava e doveva subire e sopportare nonostante la propria volontà, Arthur Kirkland diventava un uomo taciturno e cupo più del solito; quelle mattine gli era capitato molte volte di chiudersi nella lettura di Oscar Wilde, James Joyce e talvolta Kant e Nietszche, quando la frustrazione oltrepassava il limite del sopportabile.

O almeno, era riuscito a leggere fino al giorno in cui un enorme ragazzone con gli occhiali non si era seduto al suo stretto tavolino senza neppure chiedere il permesso, sbattendo il proprio vassoio di fronte al portatile aperto su cui Arthur prendeva appunti mano a mano che leggeva.

Alfred gli era piombato nella vita con impulsività ed un’invadenza senza pari: si era presentato ed aveva iniziato ad occupare con futili discorsi ad alta voce il suo sacrosanto silenzio mattutino, ovvero l’unica cosa che aveva permesso ad Arthur di non impazzire a New York durante le prime settimane. E avevano continuato a fare colazione assieme tutte le mattine, anche se Alfred sembrava solo in cerca di una persona da imbottire di stupidaggini e l’accento americano rendeva incomprensibili alcune parole elementari all’orecchio di Arthur. Poi si salutavano, e uno se ne andava mettendosi alle orecchie delle enormi cuffie mentre si avviava verso una scuola superiore che a detta sua odiava con tutto il cuore (per quanto Arthur avesse desiderato terribilmente di zittirlo e di poter leggere in santa pace, aveva ascoltato molti dei suoi soliloqui senza fine); l’altro si rituffava di malavoglia nella terribile scacchiera degli isolati di Manhattan.

E poi Arthur aveva fatto il secondo errore più fatale della sua vita, ovvero ubriacarsi con i suoi colleghi la notte prima di prendere l’aereo per l’Inghilterra. L’euforia per il ritorno imminente nella sua amata patria lo aveva esaltato fin troppo ed aveva esagerato con l’alcol.

E il giorno dopo, senza avere la più pallida idea di come e perché, si era risvegliato nel suo letto – e sarebbe stato tutto esattamente al proprio posto se tra quelle lenzuola non ci fosse stato nessun altro, e la testa di Arthur non rimbombasse come l’interno di un barile vuoto ad ogni movimento.

Non aveva mai capito il motivo per cui avesse accettato la compagnia di Alfred con così tanta facilità, nonostante i brontolii e le lamentele silenziose che si era ripetuto ogni volta che lo aveva visto avvicinarsi al suo tavolo, ogni maledetta mattina. Non sapeva neppure come e perché si fossero notati l’un l’altro o perché alla fine avessero iniziato a conoscersi in quello stupido locale di Starbuck’s dove facevano un caffé orribile – non sapeva neppure come avesse potuto accettare la trasformazione di quel posto, il suo santuario di silenzio, nel covo delle chiacchiere frivole.

Ad ogni modo, quella mattina si era svegliato nelle braccia di Alfred F. Jones, che non era altro che un moccioso di cinque anni più giovane – e il suo corpo gridava che era successo l’irreparabile, anche se la sua testa davvero non riusciva a ottenere le informazioni necessarie a spiegargli COME.

Si era illuso di poter mettere la parola fine a quella terrificante avventura americana non appena avesse rimesso piede nella sua adorata Inghilterra, nonostante Alfred gli avesse estorto il numero di cellulare un istante prima della partenza. Se ne era beatamente illuso per due o tre anni, finché Alfred non gli aveva fatto la sorpresa orribile di chiamarlo al telefono, informandolo del fatto che si era appena trasferito a Londra con sua madre per entrare all’università. Come se improvvisamente l’Inghilterra fosse diventata il luogo perfetto per i laureandi o qualcosa del genere, il ricettacolo di qualsiasi studente mediocre, americano o francese che fosse, solo per il semplice fatto che la presenza di tali individui potesse dare fastidio a lui.

Arthur Kirkland, in quella occasione in cui si sentì sperduto ogni oltre dire, rimase in silenzio con il telefono in mano, mentre la risata ebete di Alfred lo rintronava all’infinito. Rimase immobile e si chiese disperatamente perché.

Ad ogni modo, non era ancora minimamente riuscito a farsi un’idea di cosa Alfted studiasse di preciso. Gli chiedeva spesso delle ripetizioni di filosofia, ma Arthur sospettava che Alfred non avesse mai davvero ascoltato con serietà ciò che gli veniva spiegato. L’americano rispondeva sempre con mugolii poco coinvolti, non prendeva appunti, non aveva mai tirato fuori un singolo libro di filosofia dal suo mono-spalla Converse – si limitava a guardarlo mentre parlava, spesso coordinando a quegli sguardi fissi un sostenuto masticare; Arthur aveva solo intravisto qualche grosso e pesante volume di diritto, che inoltre a dirla tutta, sembrava fin troppo ben tenuto e perfetto perchè potesse venire il sospetto che quel ragazzo disordinato ed irruente lo avesse sfogliato più di una volta o due. Inoltre l’idea che qualcuno potesse affidare il proprio destino ad un avvocato di nome Alfred F. Jones (sempre che fosse davvero legge ciò che studiava) lo raccapricciava e inquietava come poche altre cose al mondo.

E nonostante i suoi seri dubbi sulla carriera universitaria di Alfred, non si era mai rifiutato di dargli ripetizioni di filosofia, senza tirarsi indietro neppure quando la serata si trasformava in un’occasione per cambiare argomento e mangiare assieme, o sorbirsi film dell’orrore da quattro soldi. Lo faceva per pura e semplice magnanimità, compassione e per il suo istinto di insegnante. Ovviamente.

E poi era tutto degenerato oltre ogni dire quando Francis e Alfred si erano incontrati: e la cosa più drammatica era che Arthur aveva cercato in tutti i modi possibili di evitare che accadesse.

Era successo per puro caso, mentre Arthur si illudeva che conversare con Alfred del pensiero di Schopehauer e Kierkegaard potesse davvero servirgli a qualcosa e stava seduto con lui su di una panchina a St. James Park. In fondo avrebbe dovuto capire che quell’uscita era stata una cattiva idea dal modo in cui Alfred aveva iniziato a lanciare le molliche del suo panino ai piccioni che tubavano attorno ai loro piedi.

Francis era passato davanti a loro con un blocchetto degli schizzi sotto braccio ed una matita infilata di traverso dietro l’orecchio, tra i capelli biondi – e nonostante Arthur avesse sentito la pelle d’oca pizzicargli la nuca lanciandogli avvertimenti frenetici, tutte le sue speranze che abbassare lo sguardo potesse bastare a passare inosservato si erano rivelate del tutto vane.

E quel pomeriggio che nelle intenzioni di Arthur doveva essere una seduta di ripetizioni all’aperto, in quelle di Alfred un’occasione per perdere tempo con una materia che non gli serviva e in quelle di Francis una ricerca di ispirazione, si era trasformato in un’allegra uscita a tre – e fu allegra, perché il più inglese di loro fu perlopiù ignorato nel suo scorbutico e teso rifiutarsi di partecipare a qualsiasi cosa (e costretto a prendervi parte in ogni caso).

La cosa più terrificante fu constatare come quei due idioti che teoricamente avrebbero dovuto odiarsi per il semplice fatto di essere andati a letto con lo stesso uomo, riuscissero ad andare d’accordo e accettarsi in maniera naturale e disarmante. Anzi, in quelle prime e lunghe ore che passarono insieme, fu probabilmente Arthur Kirkland a diventare il maledetto terzo incomodo, con il suo seccato e continuo tentativo di rovinare la festa.

C’erano però anche i rari momenti in cui quei due sembravano ricordarsi di essere rivali o qualcosa del genere: purtroppo per Arthur, l’istante in cui Francis tentò di imboccarlo con la forchetta che grondava panna montata fu uno di quelli. E non poteva che essere il meno opportuno, per il bene del suo stomaco.

Quando l’inglese decise di accettare e aprì la bocca per accogliere il boccone, corrugando le sopracciglia come se la cosa fosse umiliante e dolorosa come girare nudo tutt’intorno a Trafalgar Square, lo sguardo di Alfred dall’altra parte del tavolo si fece cupo e leggermente contrariato, mentre il suo moto mandibolare si interrompeva di colpo ed un grosso pezzo di hamburger veniva deglutito senza il minimo sforzo.

La panna di Francis era la cosa più dannatamente buona sulla faccia di quella maledetta terra ed il cioccolato era morbido, si scioglieva in bocca e lasciava un retrogusto leggermente amaro sulla lingua. Arthur avrebbe semplicemente voluto prendere quella fetta di torta che aveva cocciutamente rifiutato e mettersela in bocca tutta intera, mentre con l’altra mano ne tagliava un altro pezzo più grande. Ma il suo Orgoglio lo aiutò a masticare tranquillamente e a non fare nessuna di quelle cose. Anzi, quando Francis allontanò la forchetta e gli chiese gioiosamente se fosse buona, aggrappandosi al proprio stoico essere inglese Arthur riuscì a rispondere nel modo più opportuno:

« Fa schifo.» Suonò credibile e senza esitazioni; il francese sembrò non comprendere appieno il significato di quelle parole, perché sorrise come se fossero il migliore dei complimenti – ma durò un istante, perché subito dopo che ebbe posato la forchetta sul bordo del piattino, puntò il gomito sul tavolo e poggiò il mento su di una mano:

« Mon Dieu, il senso del gusto ti abbandona di giorno in giorno.» Gli rivolse un gesto disattento, mostrandogli una smorfia che lo derideva. « Certo, d’altronde cosa vuoi che sia questa raffinata e perfetta panna montata a mano in confronto all’impareggiabile e delizioso aroma di bruciato che impreziosisce i tuoi squisiti stones

Arthur ebbe un fremito ricordando i piccoli fallimenti di pasta annerita che erano emersi dal forno quando lo aveva lasciato riscaldare ad una temperature troppo alta e si era dimenticato di avere il timer rotto. Francis si era rifiutato categoricamente anche solo di avvicinarsi al piatto su cui erano accatastati, dopo averne addentato uno ed aver iniziato a fare strani e poco divertenti giochi di parole.

« Osa dire anche solo un’altra parola contro i miei biscotti e giuro che ti mando via a calci!» Lo minacciò l’inglese, avvampando, mentre afferrava la forchetta e gliela puntava come a volerlo infilzare. Alfred quasi soffocò mandando giù l’ultimo boccone del suo terzo panino. Si sentì probabilmente in dovere di intervenire, perché batté forte la mano sul tavolo, scoppiando forte a ridere:

« Non puoi dargli torto, Arthur, quei biscotti erano terribili.» Mosse una mano davanti al volto in un gesto divertito. « Facevano rivoltare lo stomaco e spaccavano i denti ad ogni morso!»

Arthur si voltò di scatto, paonazzo, con la posata sporca di cioccolato che trovava repentinamente un nuovo obiettivo:

« E mando via anche te, razza di moccioso sfrontato!» Ringhiò, sdegnato. « Non puoi dire una cosa del genere dopo averli spazzolati via tutti come fossero caramelle al miele!»

Alfred F. Jones aveva assaggiato i biscotti di sua spontanea volontà, nonostante il loro aspetto decisamente poco appetitoso, mangiandoli l’uno dopo l’altro senza fare un solo commento. Era stato talmente veloce che Arthur non aveva neppure fatto in tempo ad accorgersene, in quel breve intervallo di tempo nel quale Alfred era stato lasciato da solo in cucina. Gli scones erano semplicemente spariti, e quando Arthur era tornato con in mano qualche tomo su Hegel, aveva incontrato solo lo sguardo innocente di Alfred che lo aspettava.

E il vassoio vuoto. Era bastato quel semplice gesto perché il cuore di Arthur si riempisse repentinamente di un amore incondizionato nei confronti dello stomaco senza fondo di quello stupido americano, nella convinzione deliziosa e rincuorante che avesse mangiato quei biscotti perché gli erano piaciuti nonostante tutto.

Ma Alfred gli fece l’occhiolino tirando in alto il pollice dal pugno chiuso:

« Gli eroi come me hanno il dovere di fare del bene alla gente!» Annunciò con voce stentorea e sicura. «Eliminare quelle schifezze avrebbe senza dubbio fatto un favore all’umanità intera!*»

Bastarono quelle poche parole senza senso perché l’ingenuo sogno inglese di essere stato apprezzato s’infrangesse, trasformando l’amore verso Alfred in puro e semplice istinto omicida.

« Ti odio!» Sbottò con la voce rotta, lanciando la forchetta sul tavolo con un gesto secco. « Idiota! Vi odio tutti e due! E la tua torta fa schifo! Fa schifo da morire!» Aggiunse, tremando, rivolgendosi al maledetto francese che rideva alla sua sinistra.

Senza dubbio sarebbe stato più credibile se dopo qualche istante la sua lingua non avesse reclamato un altro po’ di cioccolato, e Arthur non avesse preso compostamente il piattino con le dita per trascinarlo davanti a sé, conficcando con apparente disattenzione un altro pezzetto di torta.

…ma avrebbe mangiato solo quella.

Francis lo osservò in silenzio, con una sorta di strana e morbida soddisfazione negli occhi blu; quando aprì di nuovo bocca, la sua disgustosa erre moscia e il suo accento francese erano diventati ancora più pronunciati:

« La prossima volta ti porterò una teglia di zuppa inglese, oui

La risposta di Arthur fu immediata e secca, quasi strozzata:

« No.» Ebbe un guizzo nello sguardo mentre lanciava a Francis un’occhiataccia e poi tornava al suo piatto. «Niente crema inglese neppure tra cent’anni

E fu più o meno alla fine di quello scambio che Alfred fece raschiare violentemente la sedia sul pavimento, provocando un frastuono che stupì appena il francese e fece sobbalzare Arthur.

L’americano si sporse sulla tovaglia, lanciandosi sul ripiano con tale irruenza da far tintinnare i piatti e quasi rovesciare un bicchiere: in mano teneva un hamburger a tre strati appena frettolosamente scartato.

« Art!» Disse agitando il braccio teso, fino a che quasi il panino non arrivò a sfiorare il naso dell’inglese ed i lembi della sua felpa non finirono dritti nella panna montata e tra le fragole della fetta di torta. « Assaggia!»

La voglia di mettere in bocca quell’esplosione di grasso, ketchup e altre salse non meglio identificate era più o meno pari allo zero assoluto, mentre ancora sentiva il dolce pizzicargli il palato; ma bastò guardare l’espressione concentrata di Alfred e la sua speranza tenera perché il desiderio di panini untuosi di McDonald’s crescesse almeno di un buon trenta per cento.

Si tese per dare un morso, minuscolo, addentando il primo ed il secondo strato di pane morbido e carne – inutile sottolineare come l’espressione di Alfred divenne luminosa mentre lo osservava masticare lentamente.

« Scommetto che ti piace.» Commentò, pieno di entusiasmo, mentre si sporgeva ancora per offrirgli un altro pezzo. Arthur non ebbe il coraggio di rispondere mentre mordeva ancora e mandava giù il secondo boccone, sentendo in gola un miscuglio di sapori a dir poco vomitevole; mugolò solo qualcosa di incomprensibile mentre masticava, arricciando il naso in una smorfia.

Alfred sembrava molto soddisfatto di quel successo, e spostò la sedia per farsi più vicino, mentre Francis faceva lo stesso, come in una sorta di riflesso incondizionato. E Arthur continuò a mangiare fino a che il suo stomaco non iniziò a piangere e chiedere pietà, mentre il suo palato diventava a poco a poco sempre meno disposto a distinguere il cioccolato e la panna dalla maionese e il cetriolo.

Nota dell'autrice:
Si, sto scrivendo decisamente troppo. Dovrei smetterla. Soprattutto quando si tratta di roba pucci da vomito, perchè è ormai chiara la mia incapacità nel settore.
Cronache di una serata stupida farcita di anedotti di vita reale, compresse in due capitoli. E' stata scritta (ed il seguito verrà scritto) per Juju e Angi <3 a cui la regalo e_e spero che possano gradirla!

E chiunque abbia letto fin qui mi farà un grande regalo a lasciare la propria opinione in merito! ;D

*a causa della mia incapacità e della mia pigrizia che non mi permettono di gestire a dovere Nvu, gli asterischi censurano le stelline che inserisco spesso nella parlata di Alfred. Odio Nvu, e forse un giorno mi impegnerò e troverò il modo per lasciare intatte le battute di America.

   
 
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