15.
Cadde di schiena, e l'impatto fortissimo e bruciante le mozzò il respiro. Poi l'acqua l'abbracciò, cercò di entrarle
nel corpo da ogni parte: bocca, naso, orecchie. Annaspò furiosamente in preda al panico: nell'acqua la vertigine di
non avere nulla intorno era pari a quella di una caduta nel vuoto. In più l'acqua voleva afferrarla e trascinarla,
voleva entrarle dentro. Era nemica. Ed era gelida.
Un ricordo stupido le attraversò la mente come un lampo. Chiacchierando coi colleghi in redazione, le avevano detto
di fare caso al fatto che quando faceva la doccia con l'acqua, tratteneva sempre il fiato mentre si bagnava la
faccia. Era vero: Nadine aveva fatto la prova, scoprendo di non poter respirare mentre il sottile getto della doccia
le bagnava il viso, pena il terrore di affogare. Che spavento quando ci aveva provato! Aveva sentito l'acqua calda
accennare a salirle su per il naso, occludendolo. Aveva tossito, spaventata, e subito spostato la testa via da sotto
il getto.
Lì non poteva scappare. L'acqua si chiuse sopra di lei mentre i suoi polmoni erano contratti, senza aria a
sufficienza. Si dibatté ancora di più, ma vide l'acqua azzurra ispessirsi, diventare scura. Guardò lontano quanto
possibile: tutto era buio sotto ed era lì che stava cadendo. Forse è così la morte, pensò meravigliandosi che un angolo
del suo cervello allagato di panico riuscisse ancora a pensare. La morte è quando tutto si fa buio intorno.
Qualcosa le si strinse intorno. Qualcosa di forte, molto forte e grande le cinse il petto intorno al seno, le afferrò
una coscia proprio sotto l'inguine, poi ancora il ventre. Qualcosa la proiettò a velocità fantastica verso l'alto, verso
la luce, verso l'aria. L'acqua le premeva la pelle, le rombava nelle orecchie. Grazie a quella forza poderosa lei esplose
in superficie, prendendo una boccata d'aria disperatamente.
Spire. Si afferrò con le mani a ciò che la sosteneva fuori dall'acqua, all'affannosa ricerca di un appiglio. Erano i
tentacoli dell'alieno. Le avevano circondato il corpo, la stringevano con fermezza e delicatezza al tempo stesso, la
tenevano fuori dall'acqua dalle ginocchia in su, solide come il metallo. Nadine respirava e tossiva, riempendosi i
polmoni di aria. Stava soffrendo il freddo: anche se la presa del polpo alieno era tiepida, i vestiti fradici d'acqua
le stavano gelando le membra. L'acqua stessa era fredda, nonostante il sole. Nadine aveva ancora paura: di cadere in
acqua, di affogare, del suo salvatore. Esso cercava di assecondare i suoi movimenti, forse perché temeva di farle del
male. Così facendo però la intimoriva: era terrorizzata al pensiero che quello la lasciasse andare e ogni tentativo di
contorcersi per restare dritta otteneva il risultato opposto.
Rumore. Un rumore nuovo alle sue spalle. Nadine gridò e si contorse nuovamente, alterando ancora la sua
posizione. L'alieno non sembrava capire che lei non gradiva la posizione orizzontale. Non ne poteva più di vedere quel
cielo vuoto: la sgomentava. A dire il vero, non ne poteva più di quel posto: di quella massa d'acqua enorme e pericolosa,
di quel vento freddo che la toccava ovunque senza posa, di tutto quello spazio senza nemmeno una stanza dove andare a
rinchiudersi.
Il rumore si avvicinava sempre di più: sembrava un motore, unito allo sciabordare dell'acqua. Poi una voce umana
amplificata da un megafono cominciò a incoraggiarla, esortandola a non preoccuparsi e a smettere di agitarsi. In
risposta lei lanciò uno strillo isterico, agitandosi con vigore. Il rumore del motore diminuì e l'alieno, di cui non
vedeva nulla oltre i tentacoli, cominciò a girarsi. Una barca. Non ne aveva mai vista una dal vero: su Apollo non
c'erano posti per far navigare una barca. Non c'era acqua abbastanza, non tutta insieme. Sul bordo della barca c'erano
molti marinai in divisa premuti contro il parapetto: si trattava di militari. Da brava giornalista Nadine li avrebbe
riconosciuti anche solo fiutandoli. L'alieno la sollevò più in alto per avvicinarla a tutte quelle mani tese. Sentiva
le voci accavallarsi una sull'altra; vide una barella e un medico e si rese conto che erano lì per lei. Poi tutte quelle
mani, così piccole e sgraziate al confronto con la solida presa della creatura, la afferrarono stringendola, moleste. Si
ricordò d'aver battuto il gomito, gridò per il dolore. Era quasi sul ponte, in mezzo agli uomini. Sentiva l'odore acre
del loro sudore, era infastidita da tutte quelle voci. Poi i tentacoli allentarono la loro presa e la lasciarono
delicatamente, sorretta dai suoi simili. La sensazione di abbandono, di perdita che la colse in quel momento fu tale
che, unita alla certezza di essere in salvo, la fece crollare a pezzi in un pianto inarrestabile.