Ero così ingenuo che mi sono chiesto…
Perché la neve non avesse spento il fuoco.
E’ capitato una sola volta, che io dovessi parlarne.
Quando, tempo fa, mamma mi ha portato da un medico.
Il dottore mi ha chiesto cose diverse, e fra queste quale
ricordo associassi a Ran.
A dire il vero avrei potuto rispondergli “la violenza” o
più specificatamente “le percosse”.
Già, a pensarci bene… avrei potuto davvero rispondere
così.
Non ci sono odori che mi infastidiscono particolarmente,
un po’ per l’abitudine a girare per Ikebukuro probabilmente.
Lì si sente di tutto – l’odore di bruciato, quello della
droga leggera che ogni tanto aleggia per l’aria, o quello del sangue, anche se
molti sostengono che non abbia odore.
La benzina consumata dalle macchine che passano è il
principale odore delle vie più trafficate; oppure, quello della vernice non mi
infastidisce particolarmente, forse perché in qualche modo sono abituato a
colori ad olio e derivati.
No, effettivamente non c’è nulla di quello che puoi
annusare ad Ikebukuro che mi dia particolarmente fastidio.
«Aoba, che c’è?»
Però una cosa, è davvero più forte di me.
«C’è puzza di alcol.»
Non riesco a sopportarlo.
«Dici?»
Koichi è un idiota, ma non è cattivo; facciamo gruppo da
quando andavamo alle elementari, perché eravamo in classe insieme. Non azzardo
a parlare di amici, ma… è una cosa fattibile.
«Dico. Come fai a non sentire il tanfo?»
Per la verità, lo so che forse si tratta di una puzza che
non è nemmeno così forte, e che sono io ad avere il naso sensibile su questo
tipo di odore. Forse dipende dal fatto che l’ho sentito per un sacco di tempo
quando ero un ragazzino, e che quindi alla fine lo riesca a riconoscere più
facilmente proprio per questo.
Stasera non siamo usciti come Blue Square, ma ci siamo
solo io e Koichi: ha chiamato chiedendomi se avevo da fare. Koichi ha la
ragazza, quindi mi è suonato strano a dire il vero.
Ma visto che l’alternativa era annoiarmi a casa – mamma
tornerà tardi dal lavoro anche stasera – mi sono detto che poteva andare per
ammazzare il tempo.
«Ohi, mangiamo un boccone?»
«Seh. Fast food?»
«Ci sto fratello.»
Koichi mi chiama “fratello” solo quando usciamo per conto
nostro, come in questo caso, e accade raramente per una serie di motivi: tra
questi, il fatto che sa anche lui che non sempre mi si trova di buon umore, o
di umore accettabile – come stasera – e ha capito che quando sono girato male
mi deve lasciar perdere.
Tra l’altro, lui non sa granché di Ran; o meglio, sa che
non abbiamo mantenuto buoni rapporti e che se non me lo nomini viviamo tutti
molto meglio. Soprattutto chi lo ha nominato.
Anche per quello, lui usa sempre “fratello” come gli
americani, e non usa davvero la parola giapponese per pronunciarlo. Non
gliel’ho vietato, ma ci è arrivato da solo.
È stupido, ma ha dei picchi di sensibilità non
indifferenti – comunque, rimane ugualmente uno scemo.
«Smetti di fare l’asociale a pensare.»
«Veramente pensavo a te.»
Mi scappa il sorrisetto perché di battutine simili, di
scambi così, ne abbiamo diversi e finiscono sempre nella stessa maniera.
«Oh, guarda che ho la ragazza.»
«Vedi? Pensavo esattamente a quanto sei imbecille.»
Lui ridacchia e non se la prende, e da parte mia mi limito
a mettere le mani in tasca e a continuare a camminare verso il fast food più
vicino. Non ho mai capito perché Koichi si ostini a farmi compagnia o a
chiamarmi perché io ne faccia a lui, sinceramente, ma non mi sono nemmeno mai
dato la pena di chiederglielo. In realtà penso sia perché sapere la risposta
non mi cambierebbe la vita, quindi la domanda non è davvero così pressante.
«Senti un po’, Aoba.»
«…che c’è?»
L’incertezza con cui gli rispondo non è data tanto dal
fatto che mi abbia interrotto mentre addentavo il cheeseburger, quanto più dal
fatto che quando Koichi inizia le frasi così sta per farti o una domanda
stupida, o una domanda scomoda.
Lo so perché comincia con “senti un po’” quando non sa
bene come prendere un discorso, di solito perché è qualcosa che o lui non
vorrebbe tirar fuori, o che sa porterà a reazioni non proprio idilliache.
«Ma a te piace? Il capo dei Dollars dico.»
«Non è che io tolleri molto chi non mi piace di solito.»
Diciamo pure che se qualcuno non mi risulta gradito gli do
modo di coglierlo in fretta – la maggior parte delle volte è qualcuno di
un’altra gang e i Blue Square non hanno mai avuto la manina leggera.
«Non fare giochini mentali con me, che non li capisco!»
«Sai, è sempre commuovente il fatto che ti tratti da
stupido da solo.»
«Aoba senti, te lo sto chiedendo perché non sono
tranquillo. Sei strano da quando stiamo coi Dollars.»
Questo mi fa alzare lo sguardo su di lui, abbandonando il
panino che ho in una mano e il cellulare da cui stavo cancellando un messaggio
di chiamata persa.
«Che vuol dire che sono strano?»
«Non lo so.» lo vedo abbassare lo sguardo sulle patatine
fritte, evitando di guardarmi direttamente, il che mi preoccupa. Le persone
come Koichi di solito sono quelle che non hanno un filtro fra il cervello e la
bocca, o è raro che ce l’abbiano. Lui è così, di quelle persone abbastanza
sincere – almeno con noi della sua gang – e non capita spesso che spenda troppo
tempo a pensare alle parole da usare. Al contrario, lui usa quelle che gli
vengono sul momento.
Il che vuol dire che quando se ne esce con un “non lo so”
solo per prendere tempo, la cosa diventa problematica; mi ci manca solo uno
come lui che tenta di psicanalizzarmi.
«Insomma, Aoba, a te non importa quasi di nessuno. E se ti
importa di qualcuno, è perché lo conosci da anni e non sono nemmeno sicuro che
a te interessi di tutti quelli della gang che sono in alcuni casi amici
d’infanzia. Con Ryuugamine… boh. Non sembri nemmeno lo stesso Aoba che
conosco.»
Sospiro, scuotendo la testa.
Non è che io stia pensando a quello che mi ha detto perché
ne sono stato particolarmente colpito, o almeno non nel senso che detto da
Koichi mi abbia ferito.
Non scherziamo, insomma.
«Kuronuma-kun, qui ho finito. Tu rimani ancora ad
esercitarti?»
«Sì, senpai, la luce è ancora buona, quindi ne
approfitto!»
«Va bene, allora mi raccomando, ricordati di sistemare il
materiale e chiudere l’armadietto. Le chiavi puoi lasciarle in sala professori,
sulla scrivania di Matsuda-sensei.»
«D’accordo, non preoccuparti. Ci vediamo domani!»
«A domani e non stancare troppo gli occhi, quando la luce
si abbassa.»
Annuisco e faccio un cenno con la mano libera, mentre
sento la porta dell’aula che scorre richiudendosi.
Kita Heisuke è un senpai del secondo anno, che ha sempre
frequentato assiduamente questo club di arte: all’inizio, quando tutti gli
studenti più vecchi cercavano di accaparrarsi le matricole per i propri club,
l’ho incontrato che stava disegnando in cortile – dove effettivamente ero
scappato per evitare la suddetta massa in caccia del nuovo iscritto.
È un tipo un po’ timido, o dovrei dire tonto forse: è di
quelle persone molto placide, per certi versi un po’ banali secondo alcuni, che
è facile prendere in giro anche solo bonariamente.
Devi essere una persona del genere per farti riprendere da
uno studente più giovane e ridacchiare impacciato anziché attaccar briga. Forse
somiglia un po’ a Mikado-senpai in questo.
Ad ogni modo, mi piaceva come disegnava e ho pensato che
iscrivermi non sarebbe stato male – disegnavo comunque già di mio, anche alle
medie – e lui ha preso come una missione guidarmi quando qualcosa non mi torna.
È una persona un po’ “materna” in un certo senso; fa
sempre raccomandazioni come quella di prima, “non stancare troppo gli occhi
quando la luce si abbassa”.
Metto da parte la tela a cui stavo lavorando, quella che
poi presenteremo al festival della cultura credo, e mi accingo a sistemare
quella pulita. Solitamente non si lavora mai su due disegni contemporaneamente:
in primis, perché è difficile catalizzare l’ispirazione su due soggetti diversi
allo stesso tempo e sperare che duri abbastanza da ultimare entrambi i lavori in
maniera efficiente.
In più, io perdo interesse facilmente, perciò se non mi
sbrigo ad ultimare le cose finisce che rischio di perdere voglia di
concluderle; nel caso del lavoro di un club non è granché.
Il disegno che vorrei portare su tela l’ho abbozzato su un
blocco: potrei lavorarci a casa, ma l’attrezzatura qui è migliore per ovvi
motivi.
Generalmente io non disegno persone.
Anche quello per il festival culturale è un dipinto di un
paesaggio, peraltro banalissimo: è l’entrata della Raira. Sai che entusiasmo.
Però mi piaceva la prospettiva; di solito noi la vediamo
di fronte al cancello – quando siamo in entrata e in uscita – o dal tetto,
quindi in alto. Dalla terza finestra a sinistra di quest’aula, c’è una visuale
obliqua.
Il cancello d’entrata lo percepisci quasi con la coda
dell’occhio o poco più, e il resto si affaccia sul cortile fino al punto in cui
non puoi vedere oltre perché dovresti girare l’angolo dell’edificio scolastico.
I ciliegi sono belli in sé, ma da questa visuale non so:
mi hanno ispirato, così si dice.
Kita-senpai era tutto entusiasta quando gli ho mostrato lo
schizzo, perciò ho pensato che finché regge la voglia possa andare.
Ma appunto, io non ritraggo persone.
Anche perché dovrei chiedere a qualcuno di stare fermo e
non mi piacerebbe: poi arriverebbe gente a ficcare il naso – succede sempre
così, come al vecchio che fino ad un po’ di tempo fa disegnava al parco.
Ci ho anche parlato qualche volta, anche se i suoi disegni
mi lasciano un po’ perplesso – sempre lo stesso soggetto, una donna senza testa
con abiti di epoca passata e occidentali, e il suo destriero, senza testa anche
lui.
Un pelo grottesco, ma erano bei disegni.
Questo che sto cercando di riportare su tela ora – tela
piccola, o portarlo a casa sarebbe un po’ difficile – è stato un caso.
Ultimamente Mikado-senpai le prende quando usciamo insieme
ai Blue Square: la cosa non mi va affatto a genio, in un certo senso, anche
perché la scusa del “sono caduto” non la puoi rifilare per sempre e quando i
lividi sono sul viso e quindi visibili, è scomodo.
È successo che una volta le ha prese, in pieno stomaco, e
dopo che la strada è stata resa partecipe di cosa avesse mangiato prima di
uscire, l’ho riaccompagnato a casa.
Il treno a quell’ora lo prendono in pochi: gli impiegati
che tornano tardi dal lavoro, quelli che tornando da una cena con i colleghi
dopo il lavoro e che non sono quasi mai del tutto sobri, e basta.
Mikado-senpai si era appisolato sul treno e stavo
controllando le fermate.
Chiariamoci: non aveva un’espressione chissà quanto strana
da darti l’impulso di immortalarla. Stava solo dormendo, quindi non so che cosa
ci ho trovato.
Comunque se non lo metto su tela non mi sento soddisfatto
ora – avevo il blocco per puro caso, solo perché ufficialmente per mia madre
ero a studiare da un amico e sarebbe stato strano se fossi tornato senza borsa
con quaderni e tutto.
Occhieggio il foglio su cui ho fatto la bozza di questa
specie di ritratto; Mikado-senpai è preso un po’ dall’alto, visto che mi
dormiva su una spalla e non potevo muovermi.
La prospettiva non è malaccio, e ha i lineamenti rilassati
di chi dorme, anche se di un sonno leggero probabilmente.
Non c’è niente di strano o di nuovo nella faccia che ha
qui.
Ma lì per lì, l’ho guardato e mi è venuta voglia di
disegnare.
Ah, io disegno dalle medie, ma per fare una cosa come
un’altra visto che, in fondo, a me fa schifo un po’ tutto.
Non è che disegnare mi piaccia particolarmente.
Semplicemente, mi riesce senza sforzarmi troppo.
Ma a me non viene mai voglia
di disegnare. A parte quella volta lì.
Quando mi degno finalmente di smettere di disegnare, noto
che fuori è quasi buio, il che significa che mi sono attardato di parecchio
rispetto al solito.
Non che mi debba preoccupare di rientrare presto:
sicuramente farò prima io di mia madre.
Osservo la tela per un’ultima occhiata critica prima di
impormi di mettere a posto evitando di fare notte in un’aula: riportare lo
schizzo non è stato troppo difficile, ma a guardarlo non penso che stenderò il
colore. Il che porta a chiedere che cavolo l’ho disegnato a fare su tela, se
tanto dovevo lasciarlo in bianco e nero; è solo che per colorarlo dovrei avere
Mikado-senpai davanti e abbastanza a lungo da sistemare le gradazioni di colore
sulla tavolozza.
Che detta terra terra, significa mostrargli il disegno e
diciamo che non è il mio sogno proibito ricorrente.
Lascio perdere congetture di sorta per ora, decidendo
comunque di portarlo a casa così com’è e riprendere a ponderare sulla questione
in un secondo momento; mi sbrigo a sistemare l’attrezzatura usata, chiudo
l’armadietto e rifaccio la borsa.
La tela la sistemo nella tracolla un po’ più grande che ho
usato stamattina per venire, conscio che al ritorno mi sarebbe servito più
spazio; certo di aver chiuso tutto esco dall’aula, e passo dalla sala professori
per lasciare le chiavi sulla scrivania di Matsuda-sensei, come raccomandatomi.
Da scuola a casa non ci metto mai molto, è giusto una
fermata, ma stavolta vado a piedi: stamattina c’era un foglio sul tavolo, dove
mia madre avvisava che sarebbe tornata prima del solito ma comunque un po’ più
tardi.
Io non mi ricordo affatto se stamattina ho aperto il frigo
e cosa ci fosse dentro, e siccome di ordinare di nuovo ad un fast food non ho
voglia, direi che un conbini fa al caso mio.
La città di sera ha pro e contro: sono sicuro che i
turisti se ne innamorano. Andare in centro ti stordisce piacevolmente – specie
se non sei abituato a così tante insegne e così tanta vita. Finché non vai nei
vicoli, o nelle strade secondarie, la città è affascinante.
Poi volti un angolo, e il lato oscuro di Ikebukuro quasi
ti nausea, quasi lo puoi annusare e toccare.
«Ecco a lei, grazie e arrivederci!»
Prendo il resto e il sacchetto con la mia cena, che non so
nemmeno io cosa conterrà perché ho comprato un po’ di tutto, come capitava,
senza pensare a cosa volessi cucinare. Esco di nuovo in strada e mi avvio verso
casa, poco distante dal conbini dove di solito mi fermo; il telefono mi squilla
dopo nemmeno due passi.
«Ohi, capo?»
«Che c’è?»
Non è per scortesia, è che per una sera di fare il capo
gang non ho voglia: sono annoiato, o stanco, o entrambe le cose – e avrei
davvero dovuto evitare di perdere una parte di vista disegnando quando la luce
fuori non c’era più.
«Senti, qui c’è un po’ un casino. Koichi è ubriaco pesto,
mi sa che s’è lasciato con la tipa. Non è che puoi—?»
«No, non posso.»
Ok, in effetti la mia è
scortesia bella e buona.
«Ma capo, guarda che questo si ammazza.»
«Sento almeno altre tre voci, vuoi dirmi che in quattro
non riuscite a tenerlo?»
Se sono sarcastico non è perché non abbia capito che sì,
quell’imbecille di Koichi è stato mollato e ci sta uno schifo – vorrei capire
perché, visto l’intelletto al di sotto di quello delle meduse che si ritrova la
sua (ex) ragazza – ma perché gli ho espressamente detto che non lo avrei più
aiutato da ubriaco.
La cosa è avvenuta l’ultima volta che ha bevuto così tanto
da sentirsi male e che a me è toccato reggergli la fronte mentre buttava fuori
pure un pezzo di anima.
E non voglio riprovare l’esperienza. Tra l’altro, Koichi
si mangia di tutto, quindi a maggior ragione no, ok?
Che schifo.
«Aoooba, vieni a bere con meee»
Sono felice che sia dall’altra parte del telefono; se
fosse da questa, lo farei tornare sobrio a forza di pugni.
«No grazie, sai che non faccio le cose vietate dalla
legge.»
Lo sento ridere e diciamo che non è solo colpa dell’alcol
che al momento gli circola nelle vene. Detto da me, il “non faccio cose vietate
dalla legge” rasenta il ridicolo.
«Guarda che seee non vieni io mi buuuutto di sotto, sai?»
«Non farlo, mi perderei lo spettacolo ed è uno dei miei
sogni prima della vecchiaia.»
Anche se parlo lentamente, so che in realtà non ha idea di
cosa io stia dicendo.
Per le persone ubriache… funziona sempre così.
Valeva per i tizi che vedevo le prime volte che giravo con
la gang, valeva per Ran.
Quando era ubriaco non capiva un accidente, anzi gli
bastava anche essere brillo: stava su di giri, tornava a casa facendo un sacco
di casino e svegliando tutti. Papà una volta gli ha preso la testa e gliel’ha
ficcata sotto il getto d’acqua gelata in bagno mentre gli imprecava contro
qualcosa che non ricordo.
Mamma lo pregava di abbassare la voce: i vicini potevano
sentire.
Ran ubriaco era qualcosa da cui cercavo in tutti i modi di
stare alla larga.
Peggiorava esponenzialmente, se possibile; non picchiava
più forte delle altre volte se non in rari casi, solo che si esaltava molto di
più, e preso dall’alcol non sopraggiungeva la noia per il gesto sempre uguale
che invece era ciò che lo fermava di solito.
E’ capitato una sola volta, quando rientrò brillo di
pomeriggio e in casa non c’erano né papà, né mamma – uno al lavoro, l’altra a
fare la spesa.
Quando tornò la mamma, gli disse che ero caduto per le
scale del condominio dove stavamo: io sospetto che lei lo sapesse, che non ero
caduto affatto, perché si sentiva ancora perfettamente la puzza del liquore che
Ran doveva aver ingurgitato prima.
Però si limitò ad occuparsi dei lividi.
Imparai che quando sentivo puzza di alcol, non dovevo mai
uscire dalla mia stanza.
In questo momento, guardando davanti a me, non posso fare
a meno di chiedermi fin dove possa arrivare la sfiga di un essere umano, e se
questo sia ciò che alcuni definirebbero karma.
Me lo domando perché, dal mio punto di vista, incrociare
Orihara Izaya è un supplizio, a prescindere dal momento, dal luogo e dal
contesto.
Sia chiaro: non lo dico perché dall’alto del mio senso
della morale non posso accettare le porcherie che fa – dove per “porcherie” non
intendo la sua presunta vita sessuale di cui sono ben lieto di essere all’oscuro.
Orihara non m’è mai piaciuto e mai mi piacerà, tra l’altro
la cosa è reciproca e modestamente posso vantarmi di essere uno dei pochi umani
che non ama.
Perciò ritrovarmelo ora davanti, con quel suo sorriso che
sembra dirti “sono qui, so tutto di te e lo userò contro la tua persona” – che
io ho rielaborato con “sono un ventitreenne che dovrebbe trovarsi un fottuto
hobby” – non suscita in me molte altre emozioni che non siano la voglia di
imprecare.
«Kuronuma Aoba-kun.» quasi lo canticchia e già partiamo
male: che problema psicologico hai – oltre a quelli piuttosto evidenti come le
tue numerose manie ossessivo-compulsive – per cui devi usare nome e cognome?
«Izaya-san.» è il saluto di rimando, con sorrisetto tirato
annesso. Per la serie: preferirei una tegola sui denti a questo.
«A quest’ora i bambini non dovrebbero essere in giro, ne?»
“Ne” questo paio di palle.
«Oh, e quindi tu Izaya-san sei ancora in giro perché…?»
lascio in sospeso, ma l’insinuazione è ovvia; non mi si venga a dire che questo
tizio viene considerato un adulto.
«Il solito marmocchio insopportabile, noto.»
E se non gli rispondo “e tu sei il solito pseudo-adulto
con la faccia da cazzo” è solo perché ho fame e vorrei muovermi a togliermelo
da davanti.
«Non voglio turbare la tua interessante serata Izaya-san.»
Non saluto perché dovrebbe sopravvivere (purtroppo) anche
senza che io lo faccia – e poi il congedo mi sembrava evidente; a quanto pare
però si sta annoiando, considerando che mi affianca e Dio solo sa se
conoscendoci non è grottesco vederci camminare insieme per strada.
«Per tornare da scuola così tardi devi essere proprio un
bravo studente, eh?»
«Izaya-san, supponendo che tu non stia cercando di
rimorchiarmi, cosa vuoi?»
Odio quando la gente temporeggia.
Specialmente se è gente con cui non voglio perdere più di
mezzo minuto.
«Mikado-kun sta bene?»
Ecco. Lo sapevo,
che avrebbe tirato fuori l’argomento.
«Chiedilo a lui, mi pare che siate in contatto, no?»
Mentre lo pronuncio, persino io mi rendo conto che ho un
tono acido, ma evito di tradirmi con un’espressione che vada oltre l’apatia.
Ho imparato che se lasci trapelare qualcosa, è possibile
che un giorno qualcuno possa utilizzarla contro di te. Ma se questo qualcosa lo
lasci anche solo intravedere ad Orihara Izaya, sei semplicemente fottuto.
E quando lo senti passarmi un braccio attorno alle spalle
capisco che – in qualche modo – io lo sono già.
«Oh, e come mai così nervoso? Aoba-kun è geloso?»
«Non chiamarmi Aoba-kun. Fa senso detto da te.»
«E detto da Mikado-kun no?»
Non so dove vuole andare a parare, ma non gli permetterò
di arrivarci.
«Almeno Mikado-senpai non lo rende nauseabondo.»
A prescindere da quanto io lo odi, so da me che con lui è
meglio non tirare troppo la corda, perché è indubbio che possa renderti la vita
un inferno.
Ma non lo sopporto, quindi pazienza; e poi, per la media
di un quindicenne, di merda ne ho già vista abbastanza.
«Io non ho moti di crudeltà verso gli esseri umani, ma tu
decisamente non fai molta fatica nello scatenarmeli, sai Aoba-kun?»
«Izaya-san, le tue vittime avrebbero molto da ridere sul
tuo concetto di “crudeltà”.»
Mi chiedo quando arriverà.
Il nocciolo di questa inutile chiacchierata.
«La mia crudeltà?» ridacchia con quel modo che ti fa
venire voglia di appiccicarlo al muro: «Forse. Chissà cosa penserebbe
Mikado-kun se fosse a conoscenza di qualche episodio del mio passato.»
Sto per dirgli che ho da fare, che mi sono ricordato un
impegno, a costo di inventarmi che il pesce rosso del mio vicino ha bisogno di
una respirazione artificiale dopo aver tentato di suicidarsi saltando fuori
dalla sua ampolla.
Qualsiasi cosa pur di togliermelo dalle palle.
«Un po’ come lo penserebbe di te. Chissà che direbbe se
sapesse che è stato proprio Aoba-kun a fare del male a Saki-chan, la fidanzata
di Kida-kun. Non è il suo migliore amico?»
Io lo so che non dovrei tradirmi.
Lo so che mi sta provocando.
Lo so, che sto
per fare la cosa peggiore di tutte.
«E vai a dirglielo allora!»
L’errore non sono le parole.
È il tono. Lo so perché mi sta guardando con
quell’espressione di quando qualcosa è andata come aveva previsto.
Mi guarda con le labbra incurvate in quel sorriso meschino
– e per dirlo io… - pieno di soddisfazione, di arroganza.
Lo vedo avvicinarsi e la cosa non mi piace affatto; non mi
preoccupa che siamo a sì e no un isolato da casa mia, perché considerando che
parliamo del migliore informatore di Ikebukuro è plausibile che sappia già
perfettamente dove trovarmi.
Non mi piace perché si tratta di lui, perché significa
guai e perché non mi piacerà affatto quello che dirà.
«Aoba-kun… l’ho riconosciuta. Questa cosa che hai per
Mikado-kun, ho capito cos’è, sai?»
Sinceramente, mi mette i brividi.
Ma non perché mi spaventi che le sue parole possano essere
la verità, considerando che cosa penso di Mikado-senpai non lo so ancora nemmeno
io.
E’ solo che…
«Questa è proprio un’ossessione, Aoba-kun~»
Sorrido. Perché morirò prima di dargli soddisfazione di
mia spontanea volontà.
«…disse colui che aveva un’ossessione per gli esseri umani
e per l’uomo lancia-distributori.»
Non sembra apprezzare.
Per la prima volta vedo quel sorrisetto che si ritrova
sempre sulle labbra piegarsi appena, in maniera malevola, sgradevole in qualche
modo.
E c’è da ammetterlo: mi dà un piacere contorto avergli
scatenato quell’impercettibile cambio di espressione, tanto che mi viene quasi
da ridere, anche quando sento che la sua mano sta distintamente tirando i miei
capelli.
Wow.
E io che pensavo che “Orihara Izaya” e “sporcarsi
direttamente le mani” non esistessero nella stessa frase.
«Vediamo di sciacquarci la bocca, ne?»
Il tono è un’insinuazione bella e buona. Come se stesse
dicendo che o mi dico d’accordo, o in caso contrario l’altra opzione non mi
piacerà.
Sono più o meno dieci minuti che sono rientrato in casa.
Ho il respiro pesante, simile a quando corri e non sei
abituato a farlo; Orihara è affanculo chissà dove, non ho prestato attenzione
alla direzione che ha preso quando mi ha mollato lì al famoso isolato di
distanza da casa mia.
Non ho corso.
Ma lo stato di casa mia in questo momento la dice lunga sul
perché del fiatone: se l’unica vittima è la mia stanza è solo perché in un
attimo di lucidità devo essermi reso conto che sarà più sbrigativo ripulire una
sola camera che non mezza casa.
I libri che normalmente sono ospitati sulla scrivania sono
per terra, alcuni rovesciati e aperti, alcuni chiusi. Qualche CD è a far compagnia ai libri, il mouse è aperto –
cadendo deve essersi sganciata la levetta della parte in plastica che tiene
chiuso lo sportelletto delle batterie.
La tracolla che avevo a scuola e la busta del conbini sono
sul pavimento, alcuni oggetti che ne sono usciti; osservo il marasma che ho
provocato e mi monta ancora più rabbia addosso mentre le parole di Orihara mi
trapanano il cervello, ripetendosi come una di quelle stupide filastrocche irritanti
che non riesci a dimenticare.
Mi lascio scivolare con la schiena contro il muro, fino a
sedere per terra.
Mi viene da ridere.
Quell’espressione maledetta che ha fatto, ho pensato che
fosse identica.
È stato solo un attimo, ma ho pensato che fosse uguale a
quella di Ran.
Dopo anni io sono ancora così schiavo di mio fratello
maggiore.
Mi viene da vomitare.
Da bambino mio fratello era come un eroe forse, almeno
all’inizio.
«Aoba, ma sei sicuro?»
«Se me lo chiedi una terza volta vinci un pugno come premio.»
Quando mi ha picchiato ho pensato che fosse giusto: nella
semplicità di un bambino che nemmeno capisce cosa sta succedendo, devo aver
pensato “forse ho fatto arrabbiare il fratellone” e conseguentemente “se non lo
faccio arrabbiare non mi picchierà più”.
Ho capito che non funzionava affatto così.
«Woah, guarda che fiammata!»
«Cazzo Aoba, è uno sballo!»
«Così si faranno un’idea di che vuol dire mettersi contro
i Blue Square e il loro leader!»
Quel giorno non scelsi un fiammifero per un motivo
preciso; in realtà fu un insieme di cose – era a portata di mano, era qualcosa
che anche un bambino poteva utilizzare, era qualcosa di cui non mi avrebbero
ritenuto capace.
Era qualcosa che nemmeno Ran poteva fermare.
Era qualcosa completamente al di fuori del suo controllo.
Quando Ran non era in casa, quando fu uscito, appiccai il
fuoco alla sua stanza.
Papà se ne accorse quasi subito e spense il fuoco con
l’estintore che avevamo in casa per le emergenze, perciò non successe nulla: né
a me né a mio padre, né alla mamma che rientrava nel momento in cui noi
uscivamo, chiamati dai vicini che si erano preoccupati accorgendosi
dell’incendio.
Mia madre mi stringeva spaventata mentre mio padre le
spiegava l’accaduto; io guardavo dentro casa, in silenzio: la finestra che si
vedeva dall’ingresso era aperta e fuori stava nevicando.
Piano, quasi con lentezza esasperata la neve cadeva senza
fare rumore.
Scioccamente pensai… che anche se non l’avesse spento
papà, il fuoco non sarebbe durato tanto.
La prossima volta – pensai – devo chiudere la finestra.
Altrimenti la neve spegnerà il fuoco entrando in casa da lì.
E se non distruggo la stanza di Ran, lui non andrà mai via
di casa e resterà per sempre.
«Oh, ecco perché c’era ‘sto cazzo di freddo, sta
nevicando!»
«Ma sei deficiente? È inverno, è ovvio.»
«Mica si spegnerà il fuoco?»
«Che cazzo vuol dire, hai idea di quanta ne servirebbe per
spegnerlo tutto? Così poca non fa nulla, imbecille!»
Sta nevicando di nuovo.
Chiaramente adesso non penso più a cose ingenue come la
neve che spegne il fuoco – contrariamente a qualche compare molto intelligente
dei Blue Square.
Ran è in prigione, ma è esattamente come se non fosse mai
andato via.
Di fatto, a cominciare da quando ho iniziato a vivere solo
con mia madre, lui è sempre rimasto lì in qualche modo.
Mia madre viveva con me, e sorrideva a me, ma era evidente
che rivoleva quel figlio che il divorzio le aveva portato via; Aoba a lei non
bastava.
Non dico che quello che sono diventato è interamente colpa
loro. Per inciso, non so nemmeno se “colpa” è la parola giusta.
Ho solo imparato che se non ti aspetti nulla viene tutto
molto più facile, e lo stesso vale per quando la gente si fida di te: se riesci
a mantenerti distaccato, si può dire che in qualche modo o anche solo in minima
parte hai già vinto.
«Ah, non
vedo l’ora di vederlo~ Il modo
in cui questa tua ossessione per Mikado-kun ti porterà alla rovina. Non riesco
davvero ad aspettare di assistere alla scena!»
Devo ammettere che forse, in un modo contorto e che mi
sarei risparmiato, per una volta le parole di Orihara Izaya sono state d’aiuto
– anche se non dubito minimamente del fatto che il suo intento fosse ben altro.
Anche se con lui non si può mai dire.
Mi sta bene che Mikado-senpai sia un’ossessione in realtà.
Se diventasse qualcosa di diverso, sarebbe… estremamente
scomodo suppongo.
«Aoba, senti» Koichi mi è di fianco e mi basta fare un
cenno per lasciargli intendere che sto ascoltando e che ha la mia attenzione:
«per quello che ti dicevo l’altra volta di Ryuugamine…»
«Ah, giusto. Non preoccuparti.» lo blocco io.
Non sposto lo sguardo dalle fiamme che divampano in quella
strada abbandonata, distruggendo lentamente motori e cilindrate.
«Alla fine non ti ho risposto. Se vuoi sapere di
Mikado-senpai, beh, non era già chiaro? I Blue Square si serviranno dei
Dollars. Ma lasciamo pure che i Dollars si servano di noi. Se andiamo di
fretta, non ce ne tornerà nulla, giusto?»
So che Koichi non è convinto, perché con la coda
dell’occhio noto lo sguardo perplesso che mi rivolge.
Non aggiungo nulla tuttavia, tirando fuori le mani dalle
tasche e avvicinandomi alla tracolla, abbandonata da qualche parte vicino al
muro. Recupero dentro qualcosa di rettangolare, coperto da un panno anonimo e
torno verso Koichi e verso quella sorta di falò invernale che stiamo facendo
alle spese di altri.
Mi avvicino oltrepassando Koichi e lancio l’oggetto
direttamente fra le fiamme.
«Ehi, ma quella è una tela!»
Mi sorprende che Koichi riconosca una cosa simile; non mi
scompongo comunque e torno sui miei passi, le mani nuovamente in tasca.
Quando sto per superarlo lui guarda prima le fiamme, poi
di nuovo me.
«Aoba, ma sei sicuro? Guarda che brucia.»
«Mi pare ovvio, l’ho gettata nel fuoco.» gli faccio notare
come se la sua puntualizzazione fosse inutile e scontata – cosa che effettivamente
è.
«Se l’ho buttata è perché non mi serve. Dovevo disfarmene
comunque.» aggiungo, per evitare domande con cui non voglio perdere tempo.
«Muoviti, dai.» è l’esortazione con cui – e Koichi lo sa –
ritengo chiuso il discorso.
E’ solo un disegno, dopotutto.
Posso rifarlo quando voglio.
Quello che speravo da bambino, quando rimanevo a giocare
da solo, o quando Ran tornava e con lui si sentiva la puzza di alcol, era una
cosa banale in realtà.
Aspettavo che qualcuno venisse a prendermi, e mi portasse
via.
Volevo che qualcuno venisse a dirmi che, dopotutto, il
mondo non era poi così male a dispetto di ciò che vedevo.
Ero così ingenuo che mi sono chiesto… perché la neve non
avesse spento il fuoco.
Sono così ingenuo che vedendo Mikado-senpai, devo aver
pensato che quel qualcuno fosse arrivato, alla fine.
Me ne sono accorto in tempo
però.
Il mondo è… esattamente come lo
vedi.
Note finali
Non sono affatto soddisfatta di quanto ne è uscito, ma più
che per la fan fiction in sé, perché era stata programmata diversamente.
Doveva essere un’AobaMikado – ok, non pretendevo che mi
uscisse una cosa felice perché quando scrivo di Aoba non mi viene mai una cosa felice (demenziale sì,
felice no) – però insomma.
Alla fine è una psicanalisi di Aoba, con accenni di shonen-ai/ossessione
unilaterale e Izaya che sbuca come i carciofi e fa casini (cioè quello che fa
sempre).
Andrà bene? Ammetto che non è proprio in mood per essere un regalo di compleanno.
Gomen, senpai ;__; *si auto flagella con dolore*
Bon, qui la mamma di Aoba non è simpatica come nelle altre
shot.
Si deve al fatto che pian piano che il personaggio si
rileva nella novel, cerco di attenermi a ciò che ne esce da essa (ossia che
Aoba ha veramente avuto un’infanzia di cacca.); tanto per chiarire che son
diverse per quello insomma :3
La frase in apertura (e ripresa nel finale) è tratta dal
manga “Doushitemo Furetakunai” di
Yoneda Kou.