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Autore: Shichan    02/10/2010    2 recensioni
Lì per lì, l’ho guardato e mi è venuta voglia di disegnare.
Ah, io disegno dalle medie, ma per fare una cosa come un’altra visto che, in fondo, a me fa schifo un po’ tutto.
Non è che disegnare mi piaccia particolarmente.
Semplicemente, mi riesce senza sforzarmi troppo.
Ma a me non viene mai voglia di disegnare. A parte quella volta lì.
[AobaMikado onesided; linguaggio colorito][A Yuzu-senpai per il suo compleanno]
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Izaya Orihara | Coppie: Aoba/Mikado
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Ero così ingenuo che mi sono chiesto…

Ero così ingenuo che mi sono chiesto…

Perché la neve non avesse spento il fuoco.

 

 

 

E’ capitato una sola volta, che io dovessi parlarne.

Quando, tempo fa, mamma mi ha portato da un medico.

Il dottore mi ha chiesto cose diverse, e fra queste quale ricordo associassi a Ran.

A dire il vero avrei potuto rispondergli “la violenza” o più specificatamente “le percosse”.

Già, a pensarci bene… avrei potuto davvero rispondere così.

 

Non ci sono odori che mi infastidiscono particolarmente, un po’ per l’abitudine a girare per Ikebukuro probabilmente.

Lì si sente di tutto – l’odore di bruciato, quello della droga leggera che ogni tanto aleggia per l’aria, o quello del sangue, anche se molti sostengono che non abbia odore.

La benzina consumata dalle macchine che passano è il principale odore delle vie più trafficate; oppure, quello della vernice non mi infastidisce particolarmente, forse perché in qualche modo sono abituato a colori ad olio e derivati.

No, effettivamente non c’è nulla di quello che puoi annusare ad Ikebukuro che mi dia particolarmente fastidio.

«Aoba, che c’è?»

Però una cosa, è davvero più forte di me.

«C’è puzza di alcol.»

Non riesco a sopportarlo.

«Dici?»

Koichi è un idiota, ma non è cattivo; facciamo gruppo da quando andavamo alle elementari, perché eravamo in classe insieme. Non azzardo a parlare di amici, ma… è una cosa fattibile.

«Dico. Come fai a non sentire il tanfo?»

Per la verità, lo so che forse si tratta di una puzza che non è nemmeno così forte, e che sono io ad avere il naso sensibile su questo tipo di odore. Forse dipende dal fatto che l’ho sentito per un sacco di tempo quando ero un ragazzino, e che quindi alla fine lo riesca a riconoscere più facilmente proprio per questo.

Stasera non siamo usciti come Blue Square, ma ci siamo solo io e Koichi: ha chiamato chiedendomi se avevo da fare. Koichi ha la ragazza, quindi mi è suonato strano a dire il vero.

Ma visto che l’alternativa era annoiarmi a casa – mamma tornerà tardi dal lavoro anche stasera – mi sono detto che poteva andare per ammazzare il tempo.

«Ohi, mangiamo un boccone?»

«Seh. Fast food?»

«Ci sto fratello.»

Koichi mi chiama “fratello” solo quando usciamo per conto nostro, come in questo caso, e accade raramente per una serie di motivi: tra questi, il fatto che sa anche lui che non sempre mi si trova di buon umore, o di umore accettabile – come stasera – e ha capito che quando sono girato male mi deve lasciar perdere.

Tra l’altro, lui non sa granché di Ran; o meglio, sa che non abbiamo mantenuto buoni rapporti e che se non me lo nomini viviamo tutti molto meglio. Soprattutto chi lo ha nominato.

Anche per quello, lui usa sempre “fratello” come gli americani, e non usa davvero la parola giapponese per pronunciarlo. Non gliel’ho vietato, ma ci è arrivato da solo.

È stupido, ma ha dei picchi di sensibilità non indifferenti – comunque, rimane ugualmente uno scemo.

«Smetti di fare l’asociale a pensare.»

«Veramente pensavo a te.»

Mi scappa il sorrisetto perché di battutine simili, di scambi così, ne abbiamo diversi e finiscono sempre nella stessa maniera.

«Oh, guarda che ho la ragazza.»

«Vedi? Pensavo esattamente a quanto sei imbecille.»

Lui ridacchia e non se la prende, e da parte mia mi limito a mettere le mani in tasca e a continuare a camminare verso il fast food più vicino. Non ho mai capito perché Koichi si ostini a farmi compagnia o a chiamarmi perché io ne faccia a lui, sinceramente, ma non mi sono nemmeno mai dato la pena di chiederglielo. In realtà penso sia perché sapere la risposta non mi cambierebbe la vita, quindi la domanda non è davvero così pressante.

«Senti un po’, Aoba.»

«…che c’è?»

L’incertezza con cui gli rispondo non è data tanto dal fatto che mi abbia interrotto mentre addentavo il cheeseburger, quanto più dal fatto che quando Koichi inizia le frasi così sta per farti o una domanda stupida, o una domanda scomoda.

Lo so perché comincia con “senti un po’” quando non sa bene come prendere un discorso, di solito perché è qualcosa che o lui non vorrebbe tirar fuori, o che sa porterà a reazioni non proprio idilliache.

«Ma a te piace? Il capo dei Dollars dico.»

«Non è che io tolleri molto chi non mi piace di solito.»

Diciamo pure che se qualcuno non mi risulta gradito gli do modo di coglierlo in fretta – la maggior parte delle volte è qualcuno di un’altra gang e i Blue Square non hanno mai avuto la manina leggera.

«Non fare giochini mentali con me, che non li capisco!»

«Sai, è sempre commuovente il fatto che ti tratti da stupido da solo.»

«Aoba senti, te lo sto chiedendo perché non sono tranquillo. Sei strano da quando stiamo coi Dollars.»

Questo mi fa alzare lo sguardo su di lui, abbandonando il panino che ho in una mano e il cellulare da cui stavo cancellando un messaggio di chiamata persa.

«Che vuol dire che sono strano?»

«Non lo so.» lo vedo abbassare lo sguardo sulle patatine fritte, evitando di guardarmi direttamente, il che mi preoccupa. Le persone come Koichi di solito sono quelle che non hanno un filtro fra il cervello e la bocca, o è raro che ce l’abbiano. Lui è così, di quelle persone abbastanza sincere – almeno con noi della sua gang – e non capita spesso che spenda troppo tempo a pensare alle parole da usare. Al contrario, lui usa quelle che gli vengono sul momento.

Il che vuol dire che quando se ne esce con un “non lo so” solo per prendere tempo, la cosa diventa problematica; mi ci manca solo uno come lui che tenta di psicanalizzarmi.

«Insomma, Aoba, a te non importa quasi di nessuno. E se ti importa di qualcuno, è perché lo conosci da anni e non sono nemmeno sicuro che a te interessi di tutti quelli della gang che sono in alcuni casi amici d’infanzia. Con Ryuugamine… boh. Non sembri nemmeno lo stesso Aoba che conosco.»

 

 

Sospiro, scuotendo la testa.

Non è che io stia pensando a quello che mi ha detto perché ne sono stato particolarmente colpito, o almeno non nel senso che detto da Koichi mi abbia ferito.

Non scherziamo, insomma.

«Kuronuma-kun, qui ho finito. Tu rimani ancora ad esercitarti?»

«Sì, senpai, la luce è ancora buona, quindi ne approfitto!»

«Va bene, allora mi raccomando, ricordati di sistemare il materiale e chiudere l’armadietto. Le chiavi puoi lasciarle in sala professori, sulla scrivania di Matsuda-sensei.»

«D’accordo, non preoccuparti. Ci vediamo domani!»

«A domani e non stancare troppo gli occhi, quando la luce si abbassa.»

Annuisco e faccio un cenno con la mano libera, mentre sento la porta dell’aula che scorre richiudendosi.

Kita Heisuke è un senpai del secondo anno, che ha sempre frequentato assiduamente questo club di arte: all’inizio, quando tutti gli studenti più vecchi cercavano di accaparrarsi le matricole per i propri club, l’ho incontrato che stava disegnando in cortile – dove effettivamente ero scappato per evitare la suddetta massa in caccia del nuovo iscritto.

È un tipo un po’ timido, o dovrei dire tonto forse: è di quelle persone molto placide, per certi versi un po’ banali secondo alcuni, che è facile prendere in giro anche solo bonariamente.

Devi essere una persona del genere per farti riprendere da uno studente più giovane e ridacchiare impacciato anziché attaccar briga. Forse somiglia un po’ a Mikado-senpai in questo.

Ad ogni modo, mi piaceva come disegnava e ho pensato che iscrivermi non sarebbe stato male – disegnavo comunque già di mio, anche alle medie – e lui ha preso come una missione guidarmi quando qualcosa non mi torna.

È una persona un po’ “materna” in un certo senso; fa sempre raccomandazioni come quella di prima, “non stancare troppo gli occhi quando la luce si abbassa”.

Metto da parte la tela a cui stavo lavorando, quella che poi presenteremo al festival della cultura credo, e mi accingo a sistemare quella pulita. Solitamente non si lavora mai su due disegni contemporaneamente: in primis, perché è difficile catalizzare l’ispirazione su due soggetti diversi allo stesso tempo e sperare che duri abbastanza da ultimare entrambi i lavori in maniera efficiente.

In più, io perdo interesse facilmente, perciò se non mi sbrigo ad ultimare le cose finisce che rischio di perdere voglia di concluderle; nel caso del lavoro di un club non è granché.

Il disegno che vorrei portare su tela l’ho abbozzato su un blocco: potrei lavorarci a casa, ma l’attrezzatura qui è migliore per ovvi motivi.

Generalmente io non disegno persone.

Anche quello per il festival culturale è un dipinto di un paesaggio, peraltro banalissimo: è l’entrata della Raira. Sai che entusiasmo.

Però mi piaceva la prospettiva; di solito noi la vediamo di fronte al cancello – quando siamo in entrata e in uscita – o dal tetto, quindi in alto. Dalla terza finestra a sinistra di quest’aula, c’è una visuale obliqua.

Il cancello d’entrata lo percepisci quasi con la coda dell’occhio o poco più, e il resto si affaccia sul cortile fino al punto in cui non puoi vedere oltre perché dovresti girare l’angolo dell’edificio scolastico.

I ciliegi sono belli in sé, ma da questa visuale non so: mi hanno ispirato, così si dice.

Kita-senpai era tutto entusiasta quando gli ho mostrato lo schizzo, perciò ho pensato che finché regge la voglia possa andare.

Ma appunto, io non ritraggo persone.

Anche perché dovrei chiedere a qualcuno di stare fermo e non mi piacerebbe: poi arriverebbe gente a ficcare il naso – succede sempre così, come al vecchio che fino ad un po’ di tempo fa disegnava al parco.

Ci ho anche parlato qualche volta, anche se i suoi disegni mi lasciano un po’ perplesso – sempre lo stesso soggetto, una donna senza testa con abiti di epoca passata e occidentali, e il suo destriero, senza testa anche lui.

Un pelo grottesco, ma erano bei disegni.

Questo che sto cercando di riportare su tela ora – tela piccola, o portarlo a casa sarebbe un po’ difficile – è stato un caso.

Ultimamente Mikado-senpai le prende quando usciamo insieme ai Blue Square: la cosa non mi va affatto a genio, in un certo senso, anche perché la scusa del “sono caduto” non la puoi rifilare per sempre e quando i lividi sono sul viso e quindi visibili, è scomodo.

È successo che una volta le ha prese, in pieno stomaco, e dopo che la strada è stata resa partecipe di cosa avesse mangiato prima di uscire, l’ho riaccompagnato a casa.

Il treno a quell’ora lo prendono in pochi: gli impiegati che tornano tardi dal lavoro, quelli che tornando da una cena con i colleghi dopo il lavoro e che non sono quasi mai del tutto sobri, e basta.

Mikado-senpai si era appisolato sul treno e stavo controllando le fermate.

Chiariamoci: non aveva un’espressione chissà quanto strana da darti l’impulso di immortalarla. Stava solo dormendo, quindi non so che cosa ci ho trovato.

Comunque se non lo metto su tela non mi sento soddisfatto ora – avevo il blocco per puro caso, solo perché ufficialmente per mia madre ero a studiare da un amico e sarebbe stato strano se fossi tornato senza borsa con quaderni e tutto.

Occhieggio il foglio su cui ho fatto la bozza di questa specie di ritratto; Mikado-senpai è preso un po’ dall’alto, visto che mi dormiva su una spalla e non potevo muovermi.

La prospettiva non è malaccio, e ha i lineamenti rilassati di chi dorme, anche se di un sonno leggero probabilmente.

Non c’è niente di strano o di nuovo nella faccia che ha qui.

Ma lì per lì, l’ho guardato e mi è venuta voglia di disegnare.

Ah, io disegno dalle medie, ma per fare una cosa come un’altra visto che, in fondo, a me fa schifo un po’ tutto.

Non è che disegnare mi piaccia particolarmente.

Semplicemente, mi riesce senza sforzarmi troppo.

Ma a me non viene mai voglia di disegnare. A parte quella volta lì.

 

Quando mi degno finalmente di smettere di disegnare, noto che fuori è quasi buio, il che significa che mi sono attardato di parecchio rispetto al solito.

Non che mi debba preoccupare di rientrare presto: sicuramente farò prima io di mia madre.

Osservo la tela per un’ultima occhiata critica prima di impormi di mettere a posto evitando di fare notte in un’aula: riportare lo schizzo non è stato troppo difficile, ma a guardarlo non penso che stenderò il colore. Il che porta a chiedere che cavolo l’ho disegnato a fare su tela, se tanto dovevo lasciarlo in bianco e nero; è solo che per colorarlo dovrei avere Mikado-senpai davanti e abbastanza a lungo da sistemare le gradazioni di colore sulla tavolozza.

Che detta terra terra, significa mostrargli il disegno e diciamo che non è il mio sogno proibito ricorrente.

Lascio perdere congetture di sorta per ora, decidendo comunque di portarlo a casa così com’è e riprendere a ponderare sulla questione in un secondo momento; mi sbrigo a sistemare l’attrezzatura usata, chiudo l’armadietto e rifaccio la borsa.

La tela la sistemo nella tracolla un po’ più grande che ho usato stamattina per venire, conscio che al ritorno mi sarebbe servito più spazio; certo di aver chiuso tutto esco dall’aula, e passo dalla sala professori per lasciare le chiavi sulla scrivania di Matsuda-sensei, come raccomandatomi.

Da scuola a casa non ci metto mai molto, è giusto una fermata, ma stavolta vado a piedi: stamattina c’era un foglio sul tavolo, dove mia madre avvisava che sarebbe tornata prima del solito ma comunque un po’ più tardi.

Io non mi ricordo affatto se stamattina ho aperto il frigo e cosa ci fosse dentro, e siccome di ordinare di nuovo ad un fast food non ho voglia, direi che un conbini fa al caso mio.

La città di sera ha pro e contro: sono sicuro che i turisti se ne innamorano. Andare in centro ti stordisce piacevolmente – specie se non sei abituato a così tante insegne e così tanta vita. Finché non vai nei vicoli, o nelle strade secondarie, la città è affascinante.

Poi volti un angolo, e il lato oscuro di Ikebukuro quasi ti nausea, quasi lo puoi annusare e toccare.

«Ecco a lei, grazie e arrivederci!»

Prendo il resto e il sacchetto con la mia cena, che non so nemmeno io cosa conterrà perché ho comprato un po’ di tutto, come capitava, senza pensare a cosa volessi cucinare. Esco di nuovo in strada e mi avvio verso casa, poco distante dal conbini dove di solito mi fermo; il telefono mi squilla dopo nemmeno due passi.

«Ohi, capo?»

«Che c’è?»

Non è per scortesia, è che per una sera di fare il capo gang non ho voglia: sono annoiato, o stanco, o entrambe le cose – e avrei davvero dovuto evitare di perdere una parte di vista disegnando quando la luce fuori non c’era più.

«Senti, qui c’è un po’ un casino. Koichi è ubriaco pesto, mi sa che s’è lasciato con la tipa. Non è che puoi—?»

«No, non posso.»

Ok, in effetti la mia è scortesia bella e buona.

«Ma capo, guarda che questo si ammazza.»

«Sento almeno altre tre voci, vuoi dirmi che in quattro non riuscite a tenerlo?»

Se sono sarcastico non è perché non abbia capito che sì, quell’imbecille di Koichi è stato mollato e ci sta uno schifo – vorrei capire perché, visto l’intelletto al di sotto di quello delle meduse che si ritrova la sua (ex) ragazza – ma perché gli ho espressamente detto che non lo avrei più aiutato da ubriaco.

La cosa è avvenuta l’ultima volta che ha bevuto così tanto da sentirsi male e che a me è toccato reggergli la fronte mentre buttava fuori pure un pezzo di anima.

E non voglio riprovare l’esperienza. Tra l’altro, Koichi si mangia di tutto, quindi a maggior ragione no, ok?

Che schifo.

«Aoooba, vieni a bere con meee»

Sono felice che sia dall’altra parte del telefono; se fosse da questa, lo farei tornare sobrio a forza di pugni.

«No grazie, sai che non faccio le cose vietate dalla legge.»

Lo sento ridere e diciamo che non è solo colpa dell’alcol che al momento gli circola nelle vene. Detto da me, il “non faccio cose vietate dalla legge” rasenta il ridicolo.

«Guarda che seee non vieni io mi buuuutto di sotto, sai?»

«Non farlo, mi perderei lo spettacolo ed è uno dei miei sogni prima della vecchiaia.»

Anche se parlo lentamente, so che in realtà non ha idea di cosa io stia dicendo.

Per le persone ubriache… funziona sempre così.

Valeva per i tizi che vedevo le prime volte che giravo con la gang, valeva per Ran.

Quando era ubriaco non capiva un accidente, anzi gli bastava anche essere brillo: stava su di giri, tornava a casa facendo un sacco di casino e svegliando tutti. Papà una volta gli ha preso la testa e gliel’ha ficcata sotto il getto d’acqua gelata in bagno mentre gli imprecava contro qualcosa che non ricordo.

Mamma lo pregava di abbassare la voce: i vicini potevano sentire.

Ran ubriaco era qualcosa da cui cercavo in tutti i modi di stare alla larga.

Peggiorava esponenzialmente, se possibile; non picchiava più forte delle altre volte se non in rari casi, solo che si esaltava molto di più, e preso dall’alcol non sopraggiungeva la noia per il gesto sempre uguale che invece era ciò che lo fermava di solito.

E’ capitato una sola volta, quando rientrò brillo di pomeriggio e in casa non c’erano né papà, né mamma – uno al lavoro, l’altra a fare la spesa.

Quando tornò la mamma, gli disse che ero caduto per le scale del condominio dove stavamo: io sospetto che lei lo sapesse, che non ero caduto affatto, perché si sentiva ancora perfettamente la puzza del liquore che Ran doveva aver ingurgitato prima.

Però si limitò ad occuparsi dei lividi.

Imparai che quando sentivo puzza di alcol, non dovevo mai uscire dalla mia stanza.

 

 

In questo momento, guardando davanti a me, non posso fare a meno di chiedermi fin dove possa arrivare la sfiga di un essere umano, e se questo sia ciò che alcuni definirebbero karma.

Me lo domando perché, dal mio punto di vista, incrociare Orihara Izaya è un supplizio, a prescindere dal momento, dal luogo e dal contesto.

Sia chiaro: non lo dico perché dall’alto del mio senso della morale non posso accettare le porcherie che fa – dove per “porcherie” non intendo la sua presunta vita sessuale di cui sono ben lieto di essere all’oscuro.

Orihara non m’è mai piaciuto e mai mi piacerà, tra l’altro la cosa è reciproca e modestamente posso vantarmi di essere uno dei pochi umani che non ama.

Perciò ritrovarmelo ora davanti, con quel suo sorriso che sembra dirti “sono qui, so tutto di te e lo userò contro la tua persona” – che io ho rielaborato con “sono un ventitreenne che dovrebbe trovarsi un fottuto hobby” – non suscita in me molte altre emozioni che non siano la voglia di imprecare.

«Kuronuma Aoba-kun.» quasi lo canticchia e già partiamo male: che problema psicologico hai – oltre a quelli piuttosto evidenti come le tue numerose manie ossessivo-compulsive – per cui devi usare nome e cognome?

«Izaya-san.» è il saluto di rimando, con sorrisetto tirato annesso. Per la serie: preferirei una tegola sui denti a questo.

«A quest’ora i bambini non dovrebbero essere in giro, ne?»

“Ne” questo paio di palle.

«Oh, e quindi tu Izaya-san sei ancora in giro perché…?» lascio in sospeso, ma l’insinuazione è ovvia; non mi si venga a dire che questo tizio viene considerato un adulto.

«Il solito marmocchio insopportabile, noto.»

E se non gli rispondo “e tu sei il solito pseudo-adulto con la faccia da cazzo” è solo perché ho fame e vorrei muovermi a togliermelo da davanti.

«Non voglio turbare la tua interessante serata Izaya-san.»

Non saluto perché dovrebbe sopravvivere (purtroppo) anche senza che io lo faccia – e poi il congedo mi sembrava evidente; a quanto pare però si sta annoiando, considerando che mi affianca e Dio solo sa se conoscendoci non è grottesco vederci camminare insieme per strada.

«Per tornare da scuola così tardi devi essere proprio un bravo studente, eh?»

«Izaya-san, supponendo che tu non stia cercando di rimorchiarmi, cosa vuoi?»

Odio quando la gente temporeggia.

Specialmente se è gente con cui non voglio perdere più di mezzo minuto.

«Mikado-kun sta bene?»

Ecco. Lo sapevo, che avrebbe tirato fuori l’argomento.

«Chiedilo a lui, mi pare che siate in contatto, no?»

Mentre lo pronuncio, persino io mi rendo conto che ho un tono acido, ma evito di tradirmi con un’espressione che vada oltre l’apatia.

Ho imparato che se lasci trapelare qualcosa, è possibile che un giorno qualcuno possa utilizzarla contro di te. Ma se questo qualcosa lo lasci anche solo intravedere ad Orihara Izaya, sei semplicemente fottuto.

E quando lo senti passarmi un braccio attorno alle spalle capisco che – in qualche modo – io lo sono già.

«Oh, e come mai così nervoso? Aoba-kun è geloso?»

«Non chiamarmi Aoba-kun. Fa senso detto da te.»

«E detto da Mikado-kun no?»

Non so dove vuole andare a parare, ma non gli permetterò di arrivarci.

«Almeno Mikado-senpai non lo rende nauseabondo.»

A prescindere da quanto io lo odi, so da me che con lui è meglio non tirare troppo la corda, perché è indubbio che possa renderti la vita un inferno.

Ma non lo sopporto, quindi pazienza; e poi, per la media di un quindicenne, di merda ne ho già vista abbastanza.

«Io non ho moti di crudeltà verso gli esseri umani, ma tu decisamente non fai molta fatica nello scatenarmeli, sai Aoba-kun?»

«Izaya-san, le tue vittime avrebbero molto da ridere sul tuo concetto di “crudeltà”.»

Mi chiedo quando arriverà.

Il nocciolo di questa inutile chiacchierata.

«La mia crudeltà?» ridacchia con quel modo che ti fa venire voglia di appiccicarlo al muro: «Forse. Chissà cosa penserebbe Mikado-kun se fosse a conoscenza di qualche episodio del mio passato.»

Sto per dirgli che ho da fare, che mi sono ricordato un impegno, a costo di inventarmi che il pesce rosso del mio vicino ha bisogno di una respirazione artificiale dopo aver tentato di suicidarsi saltando fuori dalla sua ampolla.

Qualsiasi cosa pur di togliermelo dalle palle.

«Un po’ come lo penserebbe di te. Chissà che direbbe se sapesse che è stato proprio Aoba-kun a fare del male a Saki-chan, la fidanzata di Kida-kun. Non è il suo migliore amico?»

Io lo so che non dovrei tradirmi.

Lo so che mi sta provocando.

Lo so, che sto per fare la cosa peggiore di tutte.

«E vai a dirglielo allora!»

L’errore non sono le parole.

È il tono. Lo so perché mi sta guardando con quell’espressione di quando qualcosa è andata come aveva previsto.

Mi guarda con le labbra incurvate in quel sorriso meschino – e per dirlo io… - pieno di soddisfazione, di arroganza.

Lo vedo avvicinarsi e la cosa non mi piace affatto; non mi preoccupa che siamo a sì e no un isolato da casa mia, perché considerando che parliamo del migliore informatore di Ikebukuro è plausibile che sappia già perfettamente dove trovarmi.

Non mi piace perché si tratta di lui, perché significa guai e perché non mi piacerà affatto quello che dirà.

«Aoba-kun… l’ho riconosciuta. Questa cosa che hai per Mikado-kun, ho capito cos’è, sai?»

Sinceramente, mi mette i brividi.

Ma non perché mi spaventi che le sue parole possano essere la verità, considerando che cosa penso di Mikado-senpai non lo so ancora nemmeno io.

E’ solo che…

«Questa è proprio un’ossessione, Aoba-kun~»

Sorrido. Perché morirò prima di dargli soddisfazione di mia spontanea volontà.

«…disse colui che aveva un’ossessione per gli esseri umani e per l’uomo lancia-distributori.»

Non sembra apprezzare.

Per la prima volta vedo quel sorrisetto che si ritrova sempre sulle labbra piegarsi appena, in maniera malevola, sgradevole in qualche modo.

E c’è da ammetterlo: mi dà un piacere contorto avergli scatenato quell’impercettibile cambio di espressione, tanto che mi viene quasi da ridere, anche quando sento che la sua mano sta distintamente tirando i miei capelli.

Wow.

E io che pensavo che “Orihara Izaya” e “sporcarsi direttamente le mani” non esistessero nella stessa frase.

«Vediamo di sciacquarci la bocca, ne?»

Il tono è un’insinuazione bella e buona. Come se stesse dicendo che o mi dico d’accordo, o in caso contrario l’altra opzione non mi piacerà.

 

 

Sono più o meno dieci minuti che sono rientrato in casa.

Ho il respiro pesante, simile a quando corri e non sei abituato a farlo; Orihara è affanculo chissà dove, non ho prestato attenzione alla direzione che ha preso quando mi ha mollato lì al famoso isolato di distanza da casa mia.

Non ho corso.

Ma lo stato di casa mia in questo momento la dice lunga sul perché del fiatone: se l’unica vittima è la mia stanza è solo perché in un attimo di lucidità devo essermi reso conto che sarà più sbrigativo ripulire una sola camera che non mezza casa.

I libri che normalmente sono ospitati sulla scrivania sono per terra, alcuni rovesciati e aperti, alcuni chiusi.  Qualche CD è a far compagnia ai libri, il mouse è aperto – cadendo deve essersi sganciata la levetta della parte in plastica che tiene chiuso lo sportelletto delle batterie.

La tracolla che avevo a scuola e la busta del conbini sono sul pavimento, alcuni oggetti che ne sono usciti; osservo il marasma che ho provocato e mi monta ancora più rabbia addosso mentre le parole di Orihara mi trapanano il cervello, ripetendosi come una di quelle stupide filastrocche irritanti che non riesci a dimenticare.

Mi lascio scivolare con la schiena contro il muro, fino a sedere per terra.

Mi viene da ridere.

Quell’espressione maledetta che ha fatto, ho pensato che fosse identica.

È stato solo un attimo, ma ho pensato che fosse uguale a quella di Ran.

Dopo anni io sono ancora così schiavo di mio fratello maggiore.

Mi viene da vomitare.

 

 

Da bambino mio fratello era come un eroe forse, almeno all’inizio.

«Aoba, ma sei sicuro?»

«Se me lo chiedi una terza volta vinci un pugno come premio.»

Quando mi ha picchiato ho pensato che fosse giusto: nella semplicità di un bambino che nemmeno capisce cosa sta succedendo, devo aver pensato “forse ho fatto arrabbiare il fratellone” e conseguentemente “se non lo faccio arrabbiare non mi picchierà più”.

Ho capito che non funzionava affatto così.

«Woah, guarda che fiammata!»

«Cazzo Aoba, è uno sballo!»

«Così si faranno un’idea di che vuol dire mettersi contro i Blue Square e il loro leader!»

Quel giorno non scelsi un fiammifero per un motivo preciso; in realtà fu un insieme di cose – era a portata di mano, era qualcosa che anche un bambino poteva utilizzare, era qualcosa di cui non mi avrebbero ritenuto capace.

Era qualcosa che nemmeno Ran poteva fermare.

Era qualcosa completamente al di fuori del suo controllo.

Quando Ran non era in casa, quando fu uscito, appiccai il fuoco alla sua stanza.

Papà se ne accorse quasi subito e spense il fuoco con l’estintore che avevamo in casa per le emergenze, perciò non successe nulla: né a me né a mio padre, né alla mamma che rientrava nel momento in cui noi uscivamo, chiamati dai vicini che si erano preoccupati accorgendosi dell’incendio.

Mia madre mi stringeva spaventata mentre mio padre le spiegava l’accaduto; io guardavo dentro casa, in silenzio: la finestra che si vedeva dall’ingresso era aperta e fuori stava nevicando.

Piano, quasi con lentezza esasperata la neve cadeva senza fare rumore.

Scioccamente pensai… che anche se non l’avesse spento papà, il fuoco non sarebbe durato tanto.

La prossima volta – pensai – devo chiudere la finestra. Altrimenti la neve spegnerà il fuoco entrando in casa da lì.

E se non distruggo la stanza di Ran, lui non andrà mai via di casa e resterà per sempre.

«Oh, ecco perché c’era ‘sto cazzo di freddo, sta nevicando!»

«Ma sei deficiente? È inverno, è ovvio.»

«Mica si spegnerà il fuoco?»

«Che cazzo vuol dire, hai idea di quanta ne servirebbe per spegnerlo tutto? Così poca non fa nulla, imbecille!»

Sta nevicando di nuovo.

Chiaramente adesso non penso più a cose ingenue come la neve che spegne il fuoco – contrariamente a qualche compare molto intelligente dei Blue Square.

Ran è in prigione, ma è esattamente come se non fosse mai andato via.

Di fatto, a cominciare da quando ho iniziato a vivere solo con mia madre, lui è sempre rimasto lì in qualche modo.

Mia madre viveva con me, e sorrideva a me, ma era evidente che rivoleva quel figlio che il divorzio le aveva portato via; Aoba a lei non bastava.

Non dico che quello che sono diventato è interamente colpa loro. Per inciso, non so nemmeno se “colpa” è la parola giusta.

Ho solo imparato che se non ti aspetti nulla viene tutto molto più facile, e lo stesso vale per quando la gente si fida di te: se riesci a mantenerti distaccato, si può dire che in qualche modo o anche solo in minima parte hai già vinto.

«Ah, non vedo l’ora di vederlo~ Il modo in cui questa tua ossessione per Mikado-kun ti porterà alla rovina. Non riesco davvero ad aspettare di assistere alla scena!»

Devo ammettere che forse, in un modo contorto e che mi sarei risparmiato, per una volta le parole di Orihara Izaya sono state d’aiuto – anche se non dubito minimamente del fatto che il suo intento fosse ben altro. Anche se con lui non si può mai dire.

Mi sta bene che Mikado-senpai sia un’ossessione in realtà.

Se diventasse qualcosa di diverso, sarebbe… estremamente scomodo suppongo.

«Aoba, senti» Koichi mi è di fianco e mi basta fare un cenno per lasciargli intendere che sto ascoltando e che ha la mia attenzione: «per quello che ti dicevo l’altra volta di Ryuugamine…»

«Ah, giusto. Non preoccuparti.» lo blocco io.

Non sposto lo sguardo dalle fiamme che divampano in quella strada abbandonata, distruggendo lentamente motori e cilindrate.

«Alla fine non ti ho risposto. Se vuoi sapere di Mikado-senpai, beh, non era già chiaro? I Blue Square si serviranno dei Dollars. Ma lasciamo pure che i Dollars si servano di noi. Se andiamo di fretta, non ce ne tornerà nulla, giusto?»

So che Koichi non è convinto, perché con la coda dell’occhio noto lo sguardo perplesso che mi rivolge.

Non aggiungo nulla tuttavia, tirando fuori le mani dalle tasche e avvicinandomi alla tracolla, abbandonata da qualche parte vicino al muro. Recupero dentro qualcosa di rettangolare, coperto da un panno anonimo e torno verso Koichi e verso quella sorta di falò invernale che stiamo facendo alle spese di altri.

Mi avvicino oltrepassando Koichi e lancio l’oggetto direttamente fra le fiamme.

«Ehi, ma quella è una tela!»

Mi sorprende che Koichi riconosca una cosa simile; non mi scompongo comunque e torno sui miei passi, le mani nuovamente in tasca.

Quando sto per superarlo lui guarda prima le fiamme, poi di nuovo me.

«Aoba, ma sei sicuro? Guarda che brucia.»

«Mi pare ovvio, l’ho gettata nel fuoco.» gli faccio notare come se la sua puntualizzazione fosse inutile e scontata – cosa che effettivamente è.

«Se l’ho buttata è perché non mi serve. Dovevo disfarmene comunque.» aggiungo, per evitare domande con cui non voglio perdere tempo.

«Muoviti, dai.» è l’esortazione con cui – e Koichi lo sa – ritengo chiuso il discorso.

E’ solo un disegno, dopotutto.

Posso rifarlo quando voglio.

 

 

 

Quello che speravo da bambino, quando rimanevo a giocare da solo, o quando Ran tornava e con lui si sentiva la puzza di alcol, era una cosa banale in realtà.

Aspettavo che qualcuno venisse a prendermi, e mi portasse via.

Volevo che qualcuno venisse a dirmi che, dopotutto, il mondo non era poi così male a dispetto di ciò che vedevo.

Ero così ingenuo che mi sono chiesto… perché la neve non avesse spento il fuoco.

Sono così ingenuo che vedendo Mikado-senpai, devo aver pensato che quel qualcuno fosse arrivato, alla fine.

Me ne sono accorto in tempo però.

Il mondo è… esattamente come lo vedi.

 

Note finali

Non sono affatto soddisfatta di quanto ne è uscito, ma più che per la fan fiction in sé, perché era stata programmata diversamente.

Doveva essere un’AobaMikado – ok, non pretendevo che mi uscisse una cosa felice perché quando scrivo di Aoba non mi viene mai una cosa felice (demenziale sì, felice no) – però insomma.

Alla fine è una psicanalisi di Aoba, con accenni di shonen-ai/ossessione unilaterale e Izaya che sbuca come i carciofi e fa casini (cioè quello che fa sempre).

Andrà bene? Ammetto che non è proprio in mood per essere un regalo di compleanno. Gomen, senpai ;__; *si auto flagella con dolore*

 

Bon, qui la mamma di Aoba non è simpatica come nelle altre shot.

Si deve al fatto che pian piano che il personaggio si rileva nella novel, cerco di attenermi a ciò che ne esce da essa (ossia che Aoba ha veramente avuto un’infanzia di cacca.); tanto per chiarire che son diverse per quello insomma :3

 

La frase in apertura (e ripresa nel finale) è tratta dal manga “Doushitemo Furetakunai” di Yoneda Kou.

   
 
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