Procreatix Mortis
[Dallo squarcio del diario di Sibilla, Guerre del Mondo Emerso, Un nuovo regno, prima parte]
Perle di sudore e lacrime
di rugiada investivano il viso candido di una regina.
Era stata fin da bambina una regnante eccelsa,
aveva amministrato
Non poteva tornare indietro, adesso. Ma se solo
avesse saputo…
L’odore del sangue le pizzicava il naso, strizzava
gli occhi e urlava; il dolore era passato in secondo piano, era la
rabbia a
farla urlare forte, mentre scuoteva vigorosamente la testa, nel
tentativo di
mandare via
Un uomo spregevole, che maneggiava la spada
come vivesse in funzione soltanto di quella.
Quando – ancora innocua ed illusa – l’aveva guardato
di nascosto allenarsi, pochi
giorni prima del loro matrimonio combinato, si era accorta fin da
subito che
c’era qualcosa di strano in quei movimenti. Come se non fosse
lui a maneggiare
e possedere l’arma, ma fosse la spada stessa a usare lui come
un oggetto.
Stingeva le coltri merlate tra le mani e
puntellava i piedi, poi scalciava.
«Fatelo uscire, non lo voglio, basta!» gridava,
tra lacrime, dove ancora una volta il dolore non esisteva. Per quanta
sofferenza
fisica potesse provare in quel momento, niente, neanche la peggiore tra
le
torture, poteva essere comparata al male che si provava per la perdita
della
sola cosa che avesse mai amato e desiderato.
«Maledetta febbre rossa…» mugolava a
voce
bassa, tra continui gemiti, ma nessuno sembrava capire le sue parole,
nessuno
sembrava ascoltare o soltanto provare a capire i suoi vaneggi, quelli
di una
madre distrutta, non di una regina, di una semplice madre.
Le levatrici cercavano di incoraggiarla, di
aiutarla, ma lei le spintonava malamente e guardava tutte con sguardi
iniettati
di rabbia. «Fatelo uscire!» ruggiva, la voce sempre
distorta dal rancore.
«Vostra Altezza, stia serena.» provava a
sussurrare Sibilla, una mano stretta in un pugno, che teneva poggiata
con
sofferenza sulle labbra screpolate.
Lei era l’unica che mai avesse capito quello che
la regina provava nel portare in grembo quella Creatura, frutto
soltanto dalla
violenza.
E quel nome.
Quando il re le aveva detto come si sarebbe
chiamato, la sua ira si è tramutata in un pianto disperato.
Learco. Voleva
chiamarlo Learco.
Il nome dell’Angelo che aveva deliziato e
riempito la sua vita vacua per non più di pochi anni ed ora
era andato via.
Voleva rimpiazzarlo. Un altro urlo. Ormai urlava soltanto per coprire i
vagiti
della Creatura.
«Mia Regina, è tutto finito.» mormorava
adesso Sibilla,
tamponandole via il sudore con un fazzolettino di cotone finemente
ricamato. Su
quel fazzolettino traspariva il suo nome, il nome di una regina
distrutta dalla
sua carica. Solo adesso capiva quando le sarebbe piaciuto essere
semplicemente
un’abitate qualunque del Mondo Emerso. Solo allora si sentiva
piccola, fragile,
schiacciata dal peso della corona e dello scettro, che dopo la morte
del Vero
Learco avrebbe voluto abbandonare.
Ogni volta che pensava di farlo si ritrovava
davanti l’evidenza che lo scettro fosse ormai un
tutt’uno con la mano che lo
impugnava, e la corona, quella se la ritrovava cucita sulla testa
contro
volontà.
La regina stava sempre peggio,
«Portatelo via!», urlava, «Portatelo
lontano da
me!» e intanto le lacrime continuavano ad inzuppare le coltri
merlate di quel
baldacchino reale.
Poi la folla, urlava di gioia, acclamando
No,
no, no.
La regina stringeva il cuscino più forte, come volesse
soffocarsi. Non chiamatelo Learco, no.
«Vostra Maestà, vostro
figlio…» per fermare
quell’ennesima parola blasfema soffocava un urlo feroce da
sotto il cuscino.
«Non è mio figlio. È figlio suo.
Può farne
quello che vuole, non voglio vederlo.» ormai parlava con voce
tirata, roca,
tante erano state le urla che adesso anche un sussurro le moriva in
bocca,
cercando di uscire dalle labbra secche e tese. Fuori, la folla
continuava con
giubilo i festeggiamenti in onore della Creatura. Alle sue orecchie
tutta
quella gioia era un’offesa sempre più grande.
La regina piangeva e urlava, fino a farsi male ai
polmoni per lo sforzo, fino a quando, anche l’ultimo grido di
gaiezza, si
spegneva, lasciandola finalmente sola nel suo dolore.
Ora c’era solo un’ultima cosa che aspettava. E
non era il sole dell’indomani, non era neanche
l’estate o una nevicata.
Aspettava di morire, lo voleva, lo bramava più di qualunque
altra cosa, per
potersi ricongiungere al suo adorato Learco e abbandonare al proprio
sanguinario destino tutto il Mondo Emerso.
Tutti lo meritavano, per lei nessuno era più
degno di vivere da quando Learco era morto, tantomeno quella Creatura.
Vi
narrerò, o miei amati, – cantava con
l’abilità e l’affabilità di
un cantastorie la sua
testa, a gran voce – la storia di
una
regale,
La regina lo sapeva, era così.
E in quella notte aveva avuto la tentazione di
colpire con due colpi fiacchi il campanellino in ottone che brillava
sul
comodino, alla luce sbiadita della candela, pressoché
consumata, per chiedere
ad una cameriera di portarle
Ma subito dopo scuoteva la testa per allontanare
quel pensiero, perdonando a bassa voce l’Anima del suo Unico
figlio per la
bestemmia cui aveva, fortunatamente, solo pensato.
Affondava il viso nelle coltri e, con un soffio
stentato, che faceva filtrare dalle labbra, lo stoppino si spegneva,
facendo
cadere la stanza nel buio.
Non avrebbe mai amato quella Creatura, né
l’avrebbe mai chiamata con un nome che di per sé
non le apparteneva.
Learco era morto, e con lui anche lei.
Dohor
poteva farne quel che voleva di quella Creatura, a lei non sarebbe
importato.
Un singhiozzo faceva
tremare il corpo della
regina, mentre lo pensava.
A
lei
non importava più niente.
E' la prima storia che pubblico su una delle trilogie di Licia Troisi.
Non sono abituata a scrivere su di loro, ma mi piace, fatemi sapere
cosa ne pensate, mi farebbe immensamente piacere, anche
perché davvero non so cosa pensarne.
Un grazie in anticipo, credo che posterò qualche altra
One-Shot, chi lo sa! xD Un bacio, Vale.