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Autore: alister_    19/10/2010    5 recensioni
Era stata una stupida boccetta di smalto per le unghie. E pensare che il rosso come colore non le era mai piaciuto: gliel’aveva strappato dalle mani solo per il gusto di farlo, solo per dimostrarle chi era la più grande, chi era che dettava legge.
Uno sguardo sul controverso rapporto tra Anna e Nina.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Anna Williams, Lee Chaolan, Nina Williams
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Era stata una stupida boccetta di smalto per le unghie. E pensare che il rosso come colore non le era mai piaciuto: gliel’aveva strappato dalle mani solo per il gusto di farlo, solo per dimostrarle chi era la più grande, chi era che dettava legge.

La piccola Nina Williams era una bulletta. Se c’era una cosa che non poteva sopportare, era vedere sua sorella coccolata e rassicurata dal padre ogni qualvolta si prodigava nei suoi effluvi di lacrime.

Piangeva per qualsiasi cosa. Una bambola rotta, un vestito strappato, un minestrone indesiderato: ogni pretesto era buono per scoppiare in lacrime e prendersi le coccole di papà e i sorrisi di mamma.  

“Insegnerò questa tecnica di combattimento solo a te, Nina”, le aveva detto suo padre prima di spiegarle per la prima volta come si deve muovere un killer. “Anna… non è adatta a queste cose”.

Gliel’aveva strappata dalle mani, con un gesto secco.

“Sei piccola per metterti lo smalto”, aveva ghignato, facendo valere i suoi due anni in più. Se era piccola per l’addestramento di suo padre, era piccola anche per i vezzi da donna in miniatura. In fondo, aveva solamente otto anni.

“Ridammelo, Nina!”, aveva protestato lei. “Ridammelo!”

Nina, alta quei dieci centimetri in più che le bastavano a tenere la boccetta fuori dalla sua portata, si era tenuta addosso un sorriso di compiacimento mentre la vedeva agitarsi e pestare i piedi per terra, inebriata da quella strana sensazione di rivalsa che aveva preso possesso del suo corpo. Gli occhi di Anna si erano riempiti di lacrime, e lei si era lasciata andare ad una dolce risata di scherno: con lei non l’avrebbe avuta vinta. Non era mamma o papà; su di lei i lacrimoni non avevano alcun effetto se non quello di farle venire voglia di darle altri motivi per piangere.


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E pensare che lei l’ammirava. Le correva sempre dietro, come un cagnolino, pronta ad imitarla in ogni piccola mossa.

Voleva indossare i suoi vestiti, pettinarsi come lei, avere gli stessi giocattoli.

Lei era sua sorella maggiore. Era la più brava. Era la preferita di papà. Era il modello che rincorreva desiderando con tutta sé stessa che si voltasse a sorriderle.

Ma Nina non si voltava mai. Guardava sempre avanti, seria, decisa, senza mai esitare. Annuiva durante le spiegazioni di suo padre, tanto concentrata sulle sue parole da non considerare altro. Per Nina esisteva solo Richard Williams: Anna era solo un’ombra. Era figlia unica.

 

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Giaceva supina con gli occhi aperti al buio, persa in pensieri che non riusciva a seguire, al confine tra la veglia e il sonno. Una debole brezza penetrava dalla finestra socchiusa, facendo svolazzare la tenda bianca e provocando fastidiosi brividi al suo corpo semi nudo. Dormiva in biancheria intima: non aveva tempo per i pigiami.

Prima ancora che terminasse il primo squillo, la sua mano già aveva afferrato il cellulare e se l’era portato all’orecchio.

Lavoro, pensò, rispondendo con voce atona.

“Signorina Williams? Nina Williams?”, chiese una voce maschile che non seppe riconoscere.

Assentì concisamente, tirandosi su a sedere.

“Sono il dottor Haley, signorina. Si tratta di sua sorella…”


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Era finita con lo smalto rovesciato sul suo tappeto preferito- due bersagli in un sol colpo, ottimo- e lei che piangeva a dirotto, la schiena di bambina scossa da violenti singhiozzi. Conosceva la procedura: il prossimo passo era chiamare a squarciagola il padre o la madre, gettarsi nel loro abbraccio confortante e lanciarle un’occhiata d’accusa a cui ne sarebbero seguire due, ben più importanti, di rimprovero.

Lei e le sue stupide lacrime, le risatine sciocche, gli sguardi dolci: l’aveva sempre vinta.

La sua mano si era mossa senza che il suo cervello avesse approvato quell’azione e Anna aveva smesso di piangere.

Era stata una stupida boccetta di smalto a far sì che la picchiasse per la prima volta.


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Paradossalmente, lei aveva sempre e solo cercato di attirare la sua attenzione. In ogni modo.

Seguirla non serviva? Emularla equivaleva a restare una figura sbiadita ai margini del suo campo visivo?

Bene, aveva cambiato tattica. Aveva rimescolato le carte in tavola, ribaltato la situazione: era diventata tutto ciò che Nina non era.

Nina era distaccata, lei vivace.

Nina non sorrideva mai, lei rideva con trasporto.

Nina portava i capelli legati, lei li teneva sempre sciolti.

Nina vestiva di viola, lei indossava solo abiti rossi o blu.


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Le pareti bianche rendevano più accecante quell’insopportabile luce al neon e accentuavano il pallore del suo volto segnato dalla stanchezza.

“La situazione è grave, signorina”.

La sua borsa nera conteneva oggetti di ogni tipo: tra dossier di bersagli, coltelli e fondine, non era facile trovare la busta dei trucchi.

“Chi è stato?”

Il suo rossetto era color pesca, s’intonava bene con il suo incarnato.

“Un ricco petroliere di cinquant’anni. Ne veniva da un ricevimento, dalle analisi risulta che aveva bevuto”.

Il suo viso riacquistò colore al passaggio del pennello tondo: con le dita sfumò il colore sullo zigomo destro.

“Tuttavia abbiamo accertato che anche l’accompagnatore di Anna guidava a velocità notevole e dopo aver assunto alcol”.


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A volte, era divertente.

Era divertente prendersi gioco di lei, farle scherzi, trattarla male.

Altre volte, invece, era divertente lei.

Le costava ammetterlo, ma, quando non era troppo concentrata a rendersi insopportabile, Anna riusciva quasi a strapparle un sorriso sinceramente divertito.

“Oddio, che orribili scaldamuscoli! Non tutte le persone sono in grado di portare lo zebrato con stile!”

Capitava che, tra un match e l’altro, si fermasse accanto a lei a seguire lo scontro e le si avvicinasse per sussurrarle qualche commento sui concorrenti o, più spesso, sulle concorrenti.

Era arguta. E divertente, dopotutto.


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Se Nina lavorava per un cliente, lei si offriva al suo nemico.

Se Nina usava una katana, lei prendeva una pistola; se prendeva una pistola, usava una katana.

Se Nina era il ghiaccio, lei era il fuoco.

Ma scioglierla era impossibile.


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“Tu!”

Lee Chaolan si trovò tutto d’un colpo con un gomito premuto contro la gola e il corpo costretto al muro. Non reagì e fissò passivo gli occhi vitrei di Nina, sostenendo il suo sguardo d’accusa.

Attorno a loro, un gruppetto di infermiere li fissava in un mormorio stupito, e una signora raggrinzita su una sedia a rotelle seguiva la scena con un certo interesse.

“Mi dispiace, Nina”, si lasciò sfuggire lentamente dalle labbra Lee, con un tono di voce ben lontano da quello che utilizzava di solito per flirtare con le sue amichette.

“Idiota”, sputò lei, piccata, ritraendosi tanto di colpo come l’aveva assalito.

Lo lasciò ad aggiustarsi il colletto della camicia di seta con gesti aggraziati per andare a prendersi un caffè macchiato; ma quando lo sentì sorridere, si voltò e con un’occhiata eloquente gli chiese che cosa ci trovasse di divertente in quella situazione.

“Così alla fine t’importa” disse lui senza nascondere una certa punta di compiacimento.

Il rumore prodotto dai tacchi dei suoi stivali si diffuse come un tempo di marcia nella sala d’aspetto. Lee Chaolan non meritava risposta.


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Al funerale di papà, lei non aveva pianto. Aveva tenuto per tutto il tempo gli occhi vitrei persi in un punto imprecisato tra la lapide e il sacerdote, lontana solo pochi centimetri eppure distante anni luce.

Dire che Anna aveva pianto, invece, era a dir poco un eufemismo. Aveva vuotato ogni lacrima che i suoi occhi potessero produrre, facendosi sorreggere e sorreggendo a sua volta la madre: tremava nel suo cappotto elegante, ondeggiava sui suoi tacchi troppo alti.

Al contrario di Nina, fredda e composta in un dolore intangibile, lei sembrava sul punto di disintegrarsi in mille pezzi da un momento all’altro. Era un asteroide in caduta libera, prossimo alla collisione finale, eppure sua sorella, a due passi da lei, non si era voltata un solo momento per lanciarle uno sguardo o posarle una mano sulla spalla.

Solo dopo la sepoltura, quand’erano rimaste sole nella casa dov’erano cresciute, si era degnata di rivolgerle finalmente la parola. Ed avevano iniziato a litigare.


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Aspettare era parte integrante del suo lavoro. Agire al momento sbagliato era quanto di più sciocco si potesse commettere: un errore da pivelli, niente di più, niente di meno.

Quando riceveva i dati del suo bersaglio, gli studiava accuratamente. Imparava a conoscerlo nei minimi dettagli, osservando con pazienza i suoi comportamenti e le sue abitudini. Il martedì palestra, il mercoledì sera giro in macchina, tappa frequente nei ristoranti cinesi, abitudine di guardarsi le spalle nei vicoli: da lontano guardava e apprendeva, e aspettava.

Alla fine, sapeva esattamente quando e come doveva agire. Dopo giorni, talvolta settimane, di attesa, tutto si risolveva nel giro di un minuto scarso. La pallottola si conficcava nella porzione di cranio che aveva scelto come bersaglio; l’osso- qualora fosse necessario un intervento ravvicinato- si spezzava con un suono secco proprio dove aveva colpito. Il gioco era fatto.

Non era mai stata impaziente. Non che le piacesse aspettare, ma sapeva farlo: non era smaniosa come Anna.

In quel momento però i secondi le sembravano ore, le ore mesi interi. Alzava di continuo lo sguardo al beffardo orologio a muro che sembrava prendersi gioco di lei, accorgendosi ogni volta di aver lasciato passare poco più di due minuti. Non sapeva se fosse un bene o un male. Il tempo scorreva con una lentezza insopportabile, rendendole quei momenti trascorsi a rimescolare il dolcificante nel suo caffè più fastidiosi di un pomeriggio trascorso nella morsa del traffico americano, eppure non poteva fare a meno di pensare che forse era meglio così: meno tempo passava, più probabilità c’erano che…

Assurdo. Quante volte aveva desiderato togliersela dai piedi una volta per tutte.

Fuori albeggiava, ormai. Una notte trascorsa insonne per lei. Doppiamente assurdo.

Quello era il punto. Se c’era qualcuno che aveva il diritto di mandare Anna in ospedale, quella era lei e nessun altro, né un altro lottatore, per quanto forte fosse, né tanto meno un insignificante automobilista di mezza età. Riempire Anna di botte era una sua prerogativa, punto e basta.

Uno dei pochi se non l’unico vantaggio di avere una sorella. E non era ancora disposta a rinunciarci. Oh, no. Aveva ancora tante sberle da rifilarle, tanti insulti da affibbiarle, per non parlare degli scherzi architettati e non ancora messi in pratica.

Non poteva crepare, quella puttanella. Era la sua unica forma di svago, dopotutto.

Per questo era lì. Per accertarsi di non perdere il suo secondo lavoro, quello di eterna rivale e tormentatrice di Anna Williams. Nulla di più. Di certo non perché gliene importasse qualcosa.


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Una volta le aveva detto che era stata insopportabile sin dal primo momento.

“Ti sei messa a starnazzare come un’ oca non appena sei entrata in casa”, aveva detto, stizzita. Probabilmente anche da insignificante marmocchia di due anni riusciva già a cucirsi addosso quell’espressione di sdegnosa superiorità che le aveva sempre visto in faccia. Lei era sempre troppo piccola. Quando era nata, Nina l’aveva guardata dall’alto dei suoi due anni e qualche mese; poi, quando lei aveva finalmente raggiunto la fatidica soglia dei due anni, sua sorella già la schermiva con i suoi quarantotto mesi di vita alle spalle.

Ogni scusa era buona per guardarla dall’alto in basso. Oh, lei era la maggiore! Oh, lei era la più brava nelle arti marziali! Oh, lei era anche la cocca di papino!

Fanculo, Nina. Fanculo.

Perché non riusciva mai ad avere più di lei?


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“Signorina Williams?”

Alzò la testa dall’ennesimo bicchierino vuoto e si trovò a fissare l’ennesima infermiera in completo bianco. Bionda, giovane, carina: sembrava pronta per recitare in un film porno.

Le sorrise ammiccante, immune ai suoi pensieri maligni e al suo sguardo omicida. Dietro di lei, fece capolino la testa argentea di Lee Chaolan.

“Sua sorella sta bene”, annunciò, distendendo ancor di più le belle labbra.

Qualcosa, dentro di lei, si allentò. Un nodo troppo stretto, una stretta troppo salda. Respirò.

“Certo, ha subito gravi traumi e dovrà stare in ospedale per un po’, ma possiamo affermare con sicurezza che è del tutto fuori pericolo…”

L’infermiera finì la frase a bocca aperta: la sua interlocutrice, quella donna bellissima e silenziosa, già si era alzata a metà frase ed era ormai in fondo al corridoio. La sua figura snella, avvolta in un lungo cappotto blu, si stagliava elegante contro le prime luci dell’alba.

L’uomo dietro di lei, posandolo con nonchalance una mano sulla spalla, sfoderò un sorriso accattivante.

“Lei ha sorelle, signorina?”


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Era stata una stupida boccetta di smalto a far sì che la picchiasse per la prima volta. La loro vita era stata un susseguirsi di risse e litigi, intervallata da rari momenti di tregua trascorsi in spiaggia o al biliardo.

Si ricordava con precisione quando le aveva detto per la prima volta “ti odio”- a sette anni, quando lei aveva rotto la sua casa per le bambole cadendoci sopra mentre correva per la casa come una deficiente. Viceversa, non si ricordava di averle mai detto “ti voglio bene”, neppure da piccola. Perché lei- la marmocchia- era sempre stata davvero insopportabile.

Le aveva mai voluto bene? L’aveva mai odiata?

Era stata una boccetta di smalto a far sì che la picchiasse per la prima volta, una casa per le bambole a tirarle fuori dalla bocca il primo “ti odio”; sciocchezze, avrebbero detto in molti.

E invece no. Era una questione di principio, niente di più, niente di meno.

Prima di girare la chiave nel quadro della macchina, prese il cellulare. Grazie al cielo conservava tutti i numeri di clienti, avversari e ricconi.

Le sue dita corsero rapide sui tasti, veloci e sicure come se dovessero portare a termine un lavoro. Finì in fretta:

 

Se le dici che ero lì, sei morto.

 

Pigiò il tasto invio e se ne andò via soddisfatta, canticchiando a labbra chiuse un vecchio motivetto irlandese.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 



NOTA DELL'AUTRICE:


Okay, lo so... Questa storia è delirante e non si capisce un c... niente.

La timeline è totalmente sbagliata, i punti di vista di Anna e Nina vengono mescolati, si passa di palo in frasca e alla fine non si capisce più un'acca.

Per questo vi chiedo venia. Soltanto mi veniva da scrivere questa storia- iniziata mesi fa- così.  Be', in fondo ha un suo perchè. Spero ce lo troverete anche voi, mie lettrici... Sempre ammesso che qualcuno legga, ovvio!XD


   
 
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