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Autore: Puglio    28/10/2010    17 recensioni
Sono passati quasi dieci anni dalla battaglia contro il Kishin. Maka e i suoi amici sono cresciuti e molti di loro sono cambiati. C'è chi ha intrapreso una carriera all'interno della Shibusen, chi si è sposato, chi si è allontanato... ma sarà proprio il ritorno di uno di loro a cambiare la vita di Maka, quando già sembrava segnata in modo irreversibile.
Nota: in alcuni i casi i personaggi potranno apparire ooc. Se è così, è perchè li ho voluti far crescere. Dieci anni passano per tutti, anche per loro...
Non credo di inserire siparietti comici in stile con l'anime. Per farlo, credo, bisogna esser bravi e io non credo di esserlo. Il rischio è di fare qualcosa di ridicolo, più che di divertente.
Per finire... ora che la storia è terminata, posso dire di essermi divertito molto nel realizzarla. Perciò, spero sinceramente che possa piacervi, e che nel leggerla possiate trovare lo stesso divertimento che ho provato io nello scriverla.
Buona lettura! E grazie per essere passati di qua.
Genere: Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Black Star, Death the Kid, Maka Albarn, Soul Eater Evans, Tsubaki
Note: nessuna | Avvertimenti: Spoiler!
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Il treno si fermò sbuffando e una nuvola di vapore si levò dai binari, subito dispersa dalla pioggia incessante. Tutto raccolto nel suo tabarro spelacchiato, il capotreno si affacciò dalla carrozza di coda, il cappello calato in testa, il bavero rialzato attorno al collo. Alzò lo sguardo.

«Death City!» gridò, a contrastare il rumore assordante della pioggia che non accennava a smettere. Come pallidi spettri i passeggeri presero a riversarsi fuori dalle carrozze, fermandosi giusto un momento alla diafana luce che dai vagoni rischiarava la pensilina, prima di fuggire nella notte densa che avvolgeva la stazione come un manto. In pochi istanti, la debole eco della loro presenza fu come lavata via dall'acqua che il cielo continuava a riversare sulle loro povere teste.

Restava solo un'ombra. Si muoveva lentamente, come pensando ad ogni movimento che stava per compiere. Teneva lo sguardo costantemente fisso sul riverbero lontano della città, le cui luci si riflettevano nella notte in un timido e tremolante bagliore giallognolo. Perplesso, il controllore lanciò un'occhiata a quella figura silenziosa, scuotendo la testa.

«Che fa, sale?»

Il ragazzo volse lentamente lo sguardo. Fissò il controllore per un istante, senza dire nulla. Quindi tornò a voltarsi.

«No» rispose. «Sono appena arrivato».

Il controllore accettò senza discutere quella risposta. Estrasse la bandiera di segnalazione dalla tasca del tabarro, quindi soffiò nel fischietto. Con uno sbuffo sonoro e uno stridio meccanico, il treno prese lentamente a muoversi.

«Se non si toglie da lì, si beccherà un malanno!» gridò il controllore al ragazzo, che continuava a restare fermo al suo posto, nel bel mezzo della pensilina deserta. Mentre il treno gli passava davanti, lo vide voltarsi a guardarlo. Un attimo prima che la notte e la pioggia lo inghiottissero, il capotreno fece in tempo a cogliere l'accenno di un ultimo sguardo. Durò un istante soltanto, ma fu sufficiente a far sì che non riuscisse più a dimenticarlo.

Era così strano.

Era appena arrivato e i suoi occhi già supplicavano di portarlo via.

 

 

*

 

«Arrivo!»

Ma porca...

Due, erano le cose che Black Star proprio non sopportava. Non essere tenuto nella giusta considerazione ed essere svegliato nel cuore della notte. E dal momento che la prima rappresentava l'offesa maggiore che gli si potesse arrecare; e considerando che la seconda era inevitabilmente legata alla prima, perché non si sveglia qualcuno alle tre del mattino se gli si porta il dovuto rispetto, ecco spiegato il motivo per cui si sentiva così profondamente incline a qualche azione sconsideratamente violenta.

«Vuoi che vada io?»

Il volto turbato di Tsubaki emerse dall'ombra. Seduto sul bordo del letto, Black Star sospirò; quindi si portò una mano ai capelli arruffati.

«No, me la sbrigo io in due secondi. Tu continua a dormire».

Per nulla convinta, Tsubaki si sedette nel letto, aggiustandosi il cuscino dietro la schiena. Attese che Black Star barcollasse assonnato fuori dalla camera, quindi accese la luce, trattenendo il respiro.

Non era normale che qualcuno bussasse a quell'ora. Black Star avrebbe dovuto capirlo subito. Ma, come al solito, era meglio non insistere con lui, e lasciare che gestisse le cose a modo suo. In cinque anni di matrimonio e in oltre dieci di collaborazione, lei aveva imparato a capirlo.

Black Star avanzò a passo incerto nella penombra che avvolgeva la sala. Sbadigliando, allungò la mano verso la maniglia, un attimo prima che il campanello suonasse di nuovo.

«Ho detto che arrivo, cazzo!» esclamò. Decisamente innervosito da tanta insistenza, sganciò la catena e spalancò la porta, lanciando uno sguardo fiammeggiante alla figura che gli si parò davanti. Tuttavia, bastò un secondo perché il suo volto passasse dalla rabbia allo sconcerto, e infine alla freddezza.

«Tu?»

Fanculo.

 

In piedi sulla porta della camera da letto, Tsubaki fissava impensierita Black Star, che se ne ritornava sbadigliando, come se nulla fosse. Lui le passò accanto rivolgendole uno sguardo vuoto, e lei si strinse nella sua vestaglia di flanella rosa, agitando i lisci capelli neri mentre passava con gli occhi dalle spalle del marito alla porta di ingresso, avvolta nell'ombra.

«Chi era?» chiese. Black Star si lasciò cadere sul letto, sbuffando.

«Nessuno. Rompipalle» disse. Lei aggrondò.

«Alle tre del mattino?»

Black Star si incupì. Senza rispondere altro, si infilò sotto le coperte, tirandosele fin sopra le orecchie.

«Black Star, non vuoi dirmi chi era veramente?»

Lui tacque per un istante. Sentiva lo sguardo di lei puntato addosso. Sapeva che avrebbe accettato il fatto che lui non volesse parlare. Però sapeva anche che non era giusto. In fondo, era sua moglie, ed era anche stata una sua amica.

«Non vuoi dirmelo?» insistette lei, con prudenza. Lui borbottò qualcosa di inudibile, muovendosi nel letto.

«Te l'ho detto, non era nessuno» fece, poi. «Solo quell'idiota di Soul».

Con il cuore in gola, Tsubaki si precipitò alla porta, pregando disperatamente che lui fosse ancora là. Ma quando la aprì, non trovò nessuno.

«Soul...» mormorò. Fece alcuni passi verso le scale, ma quando vi si affacciò, queste rimandarono solo un silenzio assordante. L'intero palazzo era sprofondato nel sonno.

«Stupido» fece. Quindi, con gli occhi colmi di tristezza, si incamminò verso casa, richiudendosi mestamente la porta alle spalle.

 

 

*

 

Alle otto del mattino, Kid si presentò puntuale all'appuntamento. Era emozionato. Quello era un giorno davvero importante, per lui: si trattava del primo giorno di scuola di suo figlio.

In qualità di vice rettore della Shibusen, Kid aveva un'immagine da mantenere. Perciò, d'accordo con la madre, aveva deciso di iscrivere suo figlio alle lezioni un anno prima del dovuto. Lei aveva appoggiato subito questa decisione, e d'altra parte non poteva essere altrimenti. Per quanto riguardava lo studio e l'impegno, loro due l'avevano sempre pensata in modo molto simile. Erano altre, le cose che li vedevano divisi.

Per esempio, la terribile cocciutaggine di cui lei si dimostrava costantemente capace.

Con il cuore rigonfio di eccitazione, suonò il campanello. Si aspettava di veder comparire sulla soglia il suo bambino, già pronto e ansioso di rivederlo; fu perciò piuttosto deluso, quando al suo posto vide stagliarsi la figura curva e balbettante di Crona.

«Oh, Kid... buongiorno» fece lui, con un timido sorriso. Rassegnato, Kid alzò distrattamente una mano, in un vago segno di saluto.

«Prego, entra» lo invitò Crona, facendosi da parte. «Maka sta finendo di prepararsi».

«Sono venuto a prendere Daniel» fece Kid, guardandosi intorno. Come al solito, la casa era semplicemente perfetta, e trasmetteva una sensazione di calore e di benvenuto. Sul grande divano rosso, che campeggiava al centro della stanza, una felpa azzurra col cappuccio e un paio di jeans aspettavano che qualcuno li indossasse, mentre dalla cucina arrivava il suono allegro delle stoviglie che Crona stava riponendo ordinatamente.

«Abbiano appena finito di fare colazione...» si scusò il ragazzo, arrossendo.

Kid annuì. Con le mani in tasca, si avvicinò al divano, fermandosi in piedi a guardarlo. Con un sorriso vi si sedette, sprofondandovi beatamente. Adorava quel divano. Comodo ed elegante, ma senza pretese. Capace di farti sentire a tuo agio. Esattamente come Maka, che era capace di donare a tutto ciò che la circondava un colore e un calore particolari. Era questo l'aspetto che più amava di lei. Qualcosa che non avrebbe mai dimenticato e che da sempre portava nel cuore.

«Ah, eccola, la nostra giovane matricola».

Kid balzò in piedi, aggiustandosi confuso la giacca. Un bambino sui cinque anni, già molto alto e snello per la sua età, lo fissava attraverso dei penetranti occhi verdi, sul volto un sorriso di dissimulato orgoglio. Alle sue spalle, una giovane ragazza dai biondi capelli raccolti, in maglietta e pantaloncini, osservava divertita la scena.

«Accidenti, sembri davvero un ometto» fece Kid, avvicinandosi al bambino. Quando gli fu davanti, si chinò, guardandolo dritto negli occhi.

«Dì, sei emozionato?» chiese, con un sorriso. Il bambino fece segno di no, con convinzione.

«Io no!»

«Ah, sì?» fece Kid, strizzando un occhio a Maka, che rideva in silenzio, in disparte. «E come mai? Io lo sarei, al posto tuo».

«Sono uno Shinigami!» obiettò il piccolo, con sguardo convinto. «Io non ho paura di niente. E poi la scuola è mia».

«Niente da dire, è proprio tuo figlio» fece Maka, scrollando le spalle e stirando le labbra in una smorfia divertita. «Tra te e Black Star, ho un bel da fare a crescerlo in modo normale».

Kid lasciò che Crona aiutasse il piccolo Daniel ad indossare la cartella, quindi «è davvero cresciuto» mormorò, infilandosi le mani in tasca. Maka gli si appoggiò con le mani alla spalla, fissando il bambino.

«Sembra ieri, che era piccolo così...»

Lui si volse a guardarla. Senza spostarsi, lei fissò gli occhi in quelli di lui, sorridendo.

«Che c'è?» chiese. «Vuoi dirmi qualcosa?»

«Usciamo, una di queste sere?» le domandò lui. Maka inarcò un sopracciglio.

«Forse» disse, tenendosi sul vago. Kid si risentì.

«Possibile che tu debba essere sempre così scostante?» fece. «Devo supplicare in ginocchio per uscire con la madre di mio figlio?»

«Guarda che non siamo sposati, né fidanzati» disse lei, drizzando il busto. «Aver fatto un figlio insieme, non ti dà l'esclusiva su di me. Potrei anche avere altro da fare».

«Per esempio?»

«Fatti miei» disse lei, distogliendo lo sguardo. Kid sospirò, scuotendo la testa.

«Mi farai impazzire» mormorò.

«Papà, andiamo?»

Kid si volse, sorridendo. Allungò la mano al bambino, che la strinse.

«Comportati bene, Daniel. Intesi?» lo richiamò Maka, portandosi le mani ai fianchi. Il bambino annuì distratto, mentre trascinava letteralmente suo padre fuori dalla porta. Crona e Maka li guardarono uscire, quindi si precipitarono alla finestra, seguendoli finché non li videro sparire dietro l'angolo della strada, tra la folla che lentamente stava rianimando la città. Con un sospiro, Maka si abbandonò contro il divano.

«E così, è fatta» disse, tristemente. «Dovrò abituarmi a non averlo più a casa tutto il giorno». A quelle parole Crona sorrise. Stava per ribattere qualcosa, quando un'ombra attrasse insolitamente la sua attenzione. Maka notò l'espressione stranita sul volto del ragazzo e aggrondò.

«Qualcosa non va?» chiese. Dopo un attimo di incertezza, il ragazzo si volse a guardarla, scuotendo vigorosamente il capo.

«No, niente» farfugliò. «Credevo di aver visto...»

«Cosa?»

Crona deglutì, voltandosi a guardare nuovamente la strada.

«Niente» fece, con tutta la convinzione di cui era capace. «Devo... sì, devo proprio essermi sbagliato».

 

 

*

 

 

Quella mattina, Maka non aspettava visite. Era il suo giorno libero, suo figlio sarebbe stato a scuola fino alle cinque e lei non aveva nemmeno verifiche da correggere. La sua massima occupazione, sarebbe stata infilarsi qualcosa di comodo e caldo e leggere un libro, sprofondata sul suo divano mentre sorseggiava del tè. Per questo, quando suonarono il campanello, la tentazione di far finta di niente fu forte.

Peccato che proprio non ce la facesse, ad essere così menefreghista.

«Eccomi...»

Scalza, si avviò alla porta. Si chiese chi poteva essere, per andarla a scocciare perfino a casa. Non certo uno studente, perché l'avrebbe preso a calci fino a scuola; né uno dei suoi amici, perché erano tutti al lavoro alla Shibusen.

«Ohi, Maka».

Ecco, quello proprio non se lo aspettava.

Ferma sulla porta, Maka restò a guardare il volto smagrito di quello che, senza alcun dubbio, era stato il suo compagno fino a otto anni prima. E in un attimo, le si mozzò il respiro.

«Cosa ci fai qui?» esalò. Lui sorrise. Un sorriso triste, che la ferì come una spada.

«Non mi fai entrare?»

Lei indietreggiò di un passo; quindi abbassò gli occhi, facendosi da parte. Con titubanza, Soul varcò la porta, senza mai osare alzare gli occhi su di lei. Con un sorriso, lasciò che lo sguardo vagasse per la casa.

«Ti sei sistemata bene» disse. «Hai un appartamento molto carino».

«Grazie. Cosa vuoi?»

Lui aggrondò. Si volse a guardarla ma abbassò subito gli occhi, di fronte al suo sguardo torvo.

«Ti ho disturbato?»

Lei sospirò. «Ormai sei qui» disse. «Vuoi un tè?»

Lui annuì.

«Dammi un attimo. Torno subito».

La vide sparire dietro la porta della sala. Sollevato, prese a guardare negli angoli della casa, curiosando tra le foto.

Con un sorriso, sollevò una foto incorniciata che ritraeva Maka insieme al piccolo Daniel, che al momento dello scatto doveva avere poco più di due anni. Alle loro spalle, Kid li abbracciava entrambi. Sembravano felici.

E così, hai un figlio...

«Quante cose sono successe, non è vero Maka?» sussurrò tra sé e sé. Dei passi nel corridoio annunciarono il ritorno della ragazza. Imbarazzato, Soul posò velocemente la cornice, appena prima che Maka facesse il suo ingresso in sala.

«Allora» disse lei. Tra le mani aveva una scatola di tè. «Cosa ti riporta a Death City?»

«Passavo di qua» fece lui, alzando le spalle. «Pensavo sarebbe stato carino salutare».

«Davvero carino, sì».

Lui si zittì. Fece qualche passo attraverso il salotto, lanciando ogni tanto uno sguardo in tralice alla ragazza. Lei sembrava non degnarlo di alcun interesse, restandosene di spalle ad accudire il bollitore sul fuoco.

«So che hai avuto un bambino».

«Sì, fece lei», voltandosi finalmente a guardarlo. Persino gli sorrise, seppur fugacemente. «Si chiama Daniel».

«Ho visto la foto» fece lui, alzando un pollice ad indicarla. «È un bel bambino».

«Già».

«E...»

«Se stai per chiedermi se è di Kid, la risposta è sì. È suo» rispose lei, mentre apriva uno sportello della cucina per prendere una tazza. Soul restò a guardarla mentre versava l'acqua bollente nelle tazze, in cui aveva messo due bustine di tè alla vaniglia. Il suo preferito.

«Te lo ricordi ancora» disse lui. Lei lo guardò come se non capisse cosa stava dicendo. «Il tè... alla vaniglia».

«Oh, è che ho solo questo» fece lei, prendendo le tazze. Si avvicinò, porgendogli la sua. Soul la prese, ringraziandola con un sorriso goffo. Con un cenno, lei gli indicò dove sedersi.

«E tu e Kid, siete sposati?» domandò. Nel farle quella domanda, per poco non si rovesciò il tè addosso. Era più forte di lui. Non riusciva per niente a essere sciolto. Si sentiva un elefante in un negozio di cristalli. Lei lo fissò sconcertata.

«No, ma va'».

«Pensavo...»

«Siamo stati insieme, cinque anni fa. Per due anni. È successo, ecco tutto».

«Ma...»

«Sai cosa penso degli uomini, e del matrimonio» disse lei. «Con Kid poteva funzionare, è vero... ma non me la sono sentita. Suona complicato, ma in realtà non lo è così tanto. E comunque Kid è sempre presente. È un ottimo padre per Daniel e gli voglio un gran bene».

«Certo» disse lui, sorridendo. «Capisco».

«E tu?» fece lei, fissandolo sprezzante. «Che hai da dire?»

«Sono venuto per salutare i vecchi amici, tutto qui» disse, portandosi la tazza alle labbra. Maka lo fissò in silenzio per qualche istante.

«Hai finito con queste stronzate?»

Lui tossì, sputando quel po' di tè che aveva in bocca. Si passò il dorso della mano sulle labbra, fissandola di sottecchi.

«Maka...»

«Ti presenti qui dopo quello che hai fatto, e hai anche la faccia tosta di far finta di niente? Cosa ti aspetti, che ti getti le braccia al collo e ti dica 'bentornato, Soul... quanto mi sei mancato...'?»

«Io...»

«Taci, stronzo».

Maka appoggiò violentemente la tazza sul tavolo di vetro, che risuonò minacciosamente. Soul si irrigidì, fissandola con i suoi occhi rubino.

«Sei un figlio di puttana» esalò lei, «hai tradito me e la Shibusen, e hai anche il coraggio di ripresentarti qui... ti ricordi cosa ti dissi, allora, Soul?»

«Che non mi avresti mai perdonato» ringhiò lui. Maka sorrise.

«È così».

Il campanello suonò. Un lampo attraversò gli occhi di lei, che per un attimo si velarono di una profonda tristezza. Fu solo un istante, sufficiente però perché lui se ne accorgesse.

«Sono per me, vero?» disse lui, posando la tazza sul tavolo. Lei impallidì, guardandolo con disprezzo, ma anche con profonda commiserazione.

«Sì, li ho chiamati prima» ammise. Lui annuì, calmo.

«Capisco» sospirò. «Me l'aspettavo».

«Se è così, perché sei venuto?» chiese lei, con la voce che cominciava a tremarle. Lui si alzò, ficcandosi le mani in tasca.

«Immagino, perché avevo voglia di rivederti. Ecco perché».

In quel momento, la porta si aprì di botto, e una squadra di agenti in abito scuro si riversò nell'appartamento, circondando completamente Soul e Maka. Uno di essi si avvicinò alla ragazza.

«È lui?» chiese, accennando a Soul, che se ne stava immobile, con un sorriso sghembo stampato in faccia. Maka lanciò a Soul uno sguardo smarrito e lui ammiccò agli agenti, alzando le mani.

«Sono Soul Evans. Immagino che mi steste cercando».

L'uomo in completo scuro fece un cenno con la mano ai suoi uomini, che si avvicinarono a Soul, afferrandogli i polsi e torcendogli le braccia dietro la schiena. Con una smorfia, lui si piegò in avanti, mentre quelli lo ammanettavano.

«Soul Evans, sei in arresto per il reato di alto tradimento. Verrai immediatamente condotto alla prigione di Death City, dove rimarrai in attesa di giudizio. Conosci i tuoi diritti?»

«Risparmia il fiato, non c'è bisogno di elencarmeli» fece lui, alzando gli occhi sul volto cereo di Maka. Lei tremò, l'ombra di una lacrima come sospesa agli angoli degli occhi.

«Non è colpa tua» fece lui, rassicurandola. «Hai fatto quello che dovevi, come al solito».

Lei strinse i pugni. Avrebbe voluto colpirlo, ma non lo fece. Avrebbe voluto ferirlo, ma non sapeva come... perché invece lui era così bravo a farle del male?

«Non provarci, Soul. Sei tu quello che ha sbagliato» disse. Ma la voce le tremava e così le gambe. Era come se il mondo avesse preso improvvisamente a liquefarsi.

Perché non riusciva a stare in piedi?

«Magari mi perdonerai, un giorno?»

Lei nicchiò, mentre gli uomini della polizia lo spingevano fuori dalla stanza.

«Non lo farò» fece. Lui si rattristò per un attimo, ma poi sorrise, seppur debolmente.

«Eppure, posso sempre sperarlo» disse un attimo prima di sparire fuori dalla porta, scortato dalla folla di agenti. Maka sentì un brivido percorrerle la schiena. Fremette, e le lacrime presero il sopravvento.

«Non lo farò!» gridò, con tutto il fiato che aveva. «Mi hai sentito? Io non ti perdonerò mai, Soul Evans!»

E con uno scatto furioso colpì la tazza sul tavolo, mandandola a infrangersi contro la parete.

 

  
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