Fictional Dream © 2006 (04 settembre 2006)
I La:sadie’s-Dir en grey (Tooru “Kyo” Niimura - vocalist/Kaoru
Niikura - prima chitarra e leader/Daisuke “Die” Andou - seconda chitarra e
chorus/Toshimasa “Toshiya” Hara - Basso [nei La:sadie's, Kisaki]/Shinya Terachi
- batteria e percussioni) sono uno dei più famosi gruppi di musica hard rock/visual-kei
giapponese.
L’autrice non intrattiene con gli artisti succitati alcuna
relazione di tipo economico-collaborativo.
Questo testo narra eventi di pura fantasia, destinati al
diletto ed all’intrattenimento di altri fans: non persegue alcun intento
diffamatorio (né pretende di dare informazioni veritiere sulle persone di cui
tratta) o finalità lucrativa.
Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla
personalità degli artisti succitati si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright
dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa
altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
*********
Il problema non è nascere incazzati.
O forse è proprio quello il punto.
C’è chi la rabbia la sente dentro. Ce l’ha scritta nel codice
genetico.
Forse è una questione di karma e di memoria: fosse mai da
qualche parte ti ricordi di quello che ti hanno fatto. La mia è più che buona,
devo dedurne: perché quella corrente esplosiva che ti trascina e ti trasforma in
una corrente di odio puro, devastazione torrentizia o, semplicemente, fuoco è
parte integrante di me. Mi appartiene più della mia pelle, della mia voce, della
mia ombra: forse è davvero la mia autentica essenza. Quella che mi racconta
oltre le epoche, i gusci, gli abiti di circostanza: mutare come un camaleonte e
sentirla dentro ugualmente.
Una corrente che chiama, che monta, che esplode:
vaffanculo.
Oppure è il prodotto di mille circostanze diverse? Del luogo
in cui nasci, in cui cresci, in cui crepi, rendendoti conto che durerai troppo
poco per essere qualcosa di significativo? Non una monetina gettata in uno
stupido tempio, una vergine sterile consacrata a una statua, un granello di
sabbia?
Ad esempio: se non fossi nato giapponese, poi, avrei provato
la stessa rabbia?
Non esiste una risposta. Il problema della vita è che ti
fermi sempre alle domande. Qualcuna, poi, potrebbe avere anche un significato
fondamentale, ma tu non puoi saperlo, perché esci da quel buco senza un manuale
d’istruzioni e nessuno ti dice quali sono le regole. O se ti piaceranno.
Probabilmente è proprio quello il punto: troppe regole. Ci
vogliono anni e anni di addestramento per impararle e accorgersi che al dunque
non servono a niente: muori lo stesso e non lasci la minima impronta.
Pace.
Per come la penso, dunque, nascere giapponese è stato un po’
troppo: prendi un principio, svuotalo di tutto il buonsenso, fanne una religione
e avrai il Giappone. Un Paese di manichini e di maschere, in un mondo che vuole
solo manichini e maschere.
Un bel giorno mi sono guardato intorno e ho visto tutto
grigio. I miei occhi funzionavano come al solito. Funzionavano persino bene: era
il mio cervello che registrava tutto in modo diverso. Era il mio cervello, cioè,
a essersi svegliato del tutto.
Non solo non ero io a essere daltonico: ero uno dei pochi
consapevoli di quello che stava accadendo. Che era il mondo, cioè, ad affondare
poco a poco in una massa di grigio che ci avrebbe sepolti tutti. I miei
pensavano mi drogassi, che fossi uno spostato e che ci fosse qualcosa di
sbagliato in un figlio ancora molto minorenne che non rispondeva al nome con cui
lo chiamavano e aveva già deciso di mollare un’istruzione che ne avrebbe fatto
uno squallido manichino.
Pensavo – e non me ne sono pentito – che i pazzi fossero
loro, ad aspettare immobili di farsi soffocare da quella melma grigia. Non erano
neppure aggiornati: si dice che gli acidi ti facciano esplodere negli occhi
un’orgia di colore.
Il problema dei miei stava piuttosto nel fatto li avessero
del tutto cancellati.
I miei occhi, cioè, affamati di tinte, non trovavano una
risposta da nessuna parte. Se mi avessero detto che un buco poteva darne,
chissà? Magari avrei persino potuto provare, ma volevo che il mio cervello
continuasse a lavorare, affilato come una spada, e sezionasse quella massa
vischiosa di indifferenza e regole e ritualità con cui ci stavano soffocando.
Ho gridato spesso nel buio: di rabbia di angoscia di terrore.
L’ho fatto anche vestito solo della mia pelle, perché se nulla di quello che
avevo intorno era mio, nessuno avrebbe potuto negare appartenessi però a me
stesso, con un’intensità che gli altri non avevano.
Io sapevo chi ero: Kyo e basta.
Sapevo pure quel che volevo fare: spezzare il silenzio.
Sapevo come farlo. Checché ne pensassero tutti, non ero
pazzo: io ero un profeta.
Puoi anche dire che è pieno di stronzetti che a quindici anni
sono convinti di poter cambiare le regole. Puoi pure continuare a vivere di
luoghi comuni e compromessi di comodo. Puoi anche raccontarti la storia che
‘tanto non cambia niente’ e allora perché dovresti essere proprio tu quello che
esce dal gruppo e si prende la colpa?
Ma questo per me è arrendersi: vuol dire annegare nel grigio
ed esserne pure abbastanza soddisfatti da credere di essere arrivati.
Questo è molto peggio di quanto non lo sia uscire nudi in
giardino in una notte d’inverno: è essere morti e non averlo neppure capito.
A quindici anni, poi, gli stronzi veri sono quelli che fanno
a botte nei licei, alzano la mano davanti alla lavagna, sbavano su fiche di
carta e credono di essere soli al mondo: io, invece, ero convinto di sbagliarmi
su questo punto.
Non ero solo: dovevo solo trovare il resto del branco.
Qualcuno che avrebbe ascoltato il mio richiamo e l’avrebbe accolto.
Tutto stava nel muoversi: ecco una buona risposta a quell’insoddisfazione
che sentivo dentro. Era come se l’uomo pecora avesse parlato anche a me, con
quella sua litania senza senso.
“Danzare […]. Continuare a danzare, finché ci sarà musica.
Capisci quello che ti sto dicendo? Devi danzare. Danzare senza mai fermarti. Non
devi chiederti perché. Non devi pensare a cosa significa. Il significato non
importa, non c'entra. Se ti metti a pensare a queste cose, i tuoi piedi si
bloccheranno. E una volta che si saranno bloccati, io non potrò più fare niente
per te. Tutti i tuoi collegamenti si interromperanno. Finiranno per sempre. E tu
potrai vivere solo in questo mondo. Ne sarai progressivamente risucchiato.
Perciò i tuoi piedi non dovranno mai fermarsi. Anche se quello che fai può
sembrarti stupido, non pensarci. Un passo dopo l'altro, continua a danzare. E
tutto ciò che era irrigidito e bloccato piano piano comincerà a sciogliersi. Per
certe cose non è ancora troppo tardi. I mezzi che hai, usali tutti. Fai del tuo
meglio. Non devi avere paura di nulla.”*
C’era una corrente che dovevo seguire: trovare il ritmo ed
abbandonarmi.
Già allora conoscevo la risposta ad almeno una delle domande
fondamentali: come posso alzare la voce quel tanto che mi serve a farmi
ascoltare?
La musica.
Tutto quel che c’era di buono davvero e consistente e genuino
era proprio la musica. Te ne accorgevi da come ti pompava dentro all’improvviso:
un’onda e un’altra onda e un’altra ancora. Prima o poi ne avrei trovata una del
tutto somigliante a quella corrente che spaventava chiunque si trovasse accanto
a me e finalmente mi avrebbe compreso.
Sino ad allora, per gli stronzi con cui mi trovavo in classe,
ero quello strano. O quello stupido. Quello che dormiva in classe fino all’ora
di pranzo e poi ricominciava. Quello a cui il turno delle pulizie faceva
piuttosto voglia di cagare in mezzo al pavimento. Cosa facevo tra gente così?
Non erano miei simili. Erano manichini già morti e sepolti a quindici anni.
Erano daltonici arresi ai loro grigi e fieri di essere così inquadrati e sicuri
del loro posto da non chiedersi neppure se ce l’avevano davvero. Un posto,
intendo. Io, se non altro, avevo capito che no: non avevo patria, non spazio,
non aria.
Eppure volevo tutto.
Dovevo alzare la voce.
A qualunque costo.
Ero incazzato, perché la mia lingua non era quella di chi mi
stava attorno: era come parlare attraverso una serie ininterrotta di bolle
d’aria. Ero sicuro della mia verità, ma non la vedevo arrivare da nessuna parte.
Non c’era verso: quelle bolle non esplodevano. Sembrava ci fosse un solo modo
per renderlo pensabile: fare come quegli idioti che salivano sino all’ultimo
piano di un edificio, si lasciavano cadere nel vuoto con le braccia aperte e poi
plotch. La bolla s’infrangeva miracolosamente, per abbandonare
sull’asfalto un fiore dipinto nel sangue di un perdente.
Io volevo esplodere da vivo: inondare l’atmosfera che mi
avrebbe accolto di me, senza esaurirmi mai.
Bruciare senza smettere di respirare, e gridare davvero fino
a morire di una morte del tutto diversa da quella di un enka di quarta
categoria.
Non potevo struggermi d’amore, se quel sentimento non
esisteva: il mio era un mondo più realistico di quello che vedevano gli altri.
Un mondo senza sentimenti o di emozioni plastificate, in vendita come un bento
sterilizzato sul bancone di uno store. O un pollo steso nel suo sudario di
cellophane, in un obitorio chiamato ‘macelleria’.
Anche gli uomini del mio tempo non erano che pezzi di carne,
buoni solo a leggere una sudicia etichetta che avrebbe dovuto riportare il loro
prezzo.
D’accordo, ma c’era anche qualcuno ‘diverso’.
Qualcuno come me, e dovevo trovarlo.
Rivedo mio padre e mia madre. Dalla furia con cui si alzano,
il kotatsu si rovescia. Nel loro ordine perfetto entra la dissonanza del the che
si diffonde in terra e macchia un orribile tappeto color vomito.
Il quadro è talmente surreale e divertente che li fisso quasi
con simpatia: e realizzo che hanno paura di me.
Non me lo dicono, ovviamente. Non me lo direbbero mai, perché
sanno che me ne farei un vanto. Che sarebbe una clamorosa soddisfazione. Però lo
sento a pelle: fiuto la diffidenza e il distacco e persino qualcosa che somiglia
al panico serpeggiare lungo la loro pelle e fissarsi su visi che paiono maschere
di cera.
Ecco: già pronte per essere imbellettate e poi cremate.
“Ti sembra l’ora?” Ho quindici anni e sono le sei del
mattino. Dove sono stato e cosa ho fatto, è evidente, sono fatti miei. Anche se
dicessi che ho ascoltato – solo questo: ascoltato. Quello che nessuno sa fare –
non capirebbero. La verità è che non so bene cosa ho combinato: per principio
seguo la mia corrente interiore senza interromperla. Se poi il tempo non è
d’accordo non credo sia un mio problema. Il tempo è mio come la vita. Se non
posso piegarlo voglio viverlo: è un ritmo che pulsa con forza nelle vene e non
si lascia afferrare.
“Questa casa non è un albergo.”
Quante volte ho sentito questa frase? Preconfezionata, morta,
scontata come milioni d’altre? La cosa peggiore è sapere che non ne sono neppure
l’unico destinatario: che è anzi qualcosa di vecchio e ciclico e ripetuto fino
alla nausea da migliaia di genitori a migliaia di figli, che – magari – in
albergo non ci sono ancora mai stati.
“Per fortuna. Perché puzza” rispondo io.
Raggiungo la mia camera, mi arrotolo in un futon e chiudo gli
occhi. Arricciato in un guscio solido, impenetrabile e morbido sento solo me
stesso. Mi sono sempre addormentato con facilità ridicola: credo perché faceva
parte della mia strategia. Non puoi restartene teso e incazzato tutto il giorno,
a meno che tu non sia un imbecille per fatti tuoi. La rabbia ti serve e devi
farla sentire a chi la capirà, e si accorgerà che urli perché sei vivo. Non
perché sei pazzo. Sei solo un pulcino che vuole rompere il maledetto guscio di
un uovo più duro del diamante e non morire soffocato da un po’ di albume andato
a male.
A essere divertente era il fatto che i miei non si rendevano
neppure conto di dovermi ringraziare: tesi, rabbiosi anche loro, in fin dei
conti, erano vivi. Milioni di volte più vivi di quanto non sarebbero mai stati
se avessero avuto un bravo figlio, stupido, remissivo e con il sì periodico. Sì
a cosa? Avrebbero dovuto ringraziarmi per il fatto li tenessi svegli: invece
collezionavano una teoria di frasi ad effetto, che non mi spaventavano per
niente. Anzi, a dirla tutta mi facevano pure pena.
Altro flash: il vecchio ha provato a tirarmi uno schiaffo. A
volte tenta di usare le mani, visto che forse è un po’ corto di cervello e non
c’è verso capisca. Potrei averlo evitato come preso in piena faccia, non mi
preoccupo molto delle conseguenze, perché il dolore che sento dentro è più vivo,
autentico e lavora come una lama.
Mi scarnifico dall’interno, finché, fuori non resteranno che
ossa lucide. È un sogno che faccio spesso e che non mi spaventa affatto: il mio
teschio corroso ha un’aria quasi simpatica.
“In casa mia certi atteggiamenti non sono tollerati.” Non so
neppure bene cosa ho fatto. Probabilmente la formula corretta è che non vuole un
figlio come me. Sono i figli come me che non possono essere tollerati.
Sono come una cagata sul tappeto del salotto: se non
puzzolente, senz’altro fuori posto. “Questa è anche casa mia” replico calmo. C’è
qualcosa di catartico nella rabbia degli altri: ti fa sentire pacificato.
“No, invece. Qui dentro non c’è proprio niente di tuo.”
È un guizzo, un’illuminazione improvvisa, una rivelazione: è
quello che capita d’abitudine a un profeta. Che capita a me.
È inverno.
L’agonia delle scuole medie è per fortuna quasi finita. Ho
già deciso che per me il gioco finisce qua: i morti non educano nessuno, perché
non hanno più nulla da raccontare. Non è che sia convinto di non avere più nulla
da imparare, ma mi serve vivere. Perciò penso sia proprio il caso di condividere
la mia prima intuizione fondamentale.
Comincio a spogliarmi davanti ai miei, con un sorriso di
perfetta soddisfazione sulle labbra. So che non riescono a capire ed è quello
che voglio: che non capiscano, così saranno costretti a porsi le loro buone e
sane domande. E smetteranno di dormire, come morti già chiusi in un loro
sudario.
“Toru? Cosa stai facendo?”
Quante ho volte ho detto loro che quel nome non è mio? Uno
dovrebbe guardarli in faccia i figli, prima di appiccicare l’etichetta. E poi
nemmeno: il nome uno dovrebbe darselo da solo e tante scuse se non è quello che
gli altri si aspettano. Ma prova anche solo a spiegarlo a chi al più è bravo a
giudicare.
“Me ne vado con la mia roba” replico con una sacrosanta
faccia da culo – o forse no. Tento di darmi un tono perché in fin dei conti ho
paura di non farcela fino in fondo. Sto dando l’ennesimo strappo alla mia pelle
più sottile. A breve davvero si vedrà il teschio della mia verità – prima di
aprire la porta e correre in giardino.
Nudo.
Vestito solo di quello che è mio.
Ora li ho spaventati davvero. Quel poco di imperativo
convinto e violento che li ha animati è andato a farsi fottere da qualche parte.
Ho perso comunque, perché non hanno ascoltato la mia voce, ma un’altra che
suggerisce: ‘E cosa diranno i vicini? E se qualcuno chiamasse la polizia?’
Potevano far scendere pure Dio in piazza, per quel che mi
riguardava: intanto avevo capito che erano una battaglia persa. Non era la prima
e non sarebbe stata l’unica, ma non potevo arrendermi così. Ero un profeta e
dovevo andare avanti.
Al diavolo la scuola e pure i miei e persino quei professori
untuosi e mollicci, che a turno mi facevano chiamare per dirmi che sì: ero
abbastanza stupido, ma non così stupido da non poter sperare in un’istruzione
professionale. Per dire: potevo fare il meccanico, no? ‘Dì, Toru. Non ti
piacerebbe lavorare con le macchine?’ Frasi untuose, maschere di cera, immobili,
atteggiamenti di circostanza: vorrebbero farti credere che non sei stupido, ma
ti trattano da minorato, finché non senti piuttosto la voglia di rispondere a
tono; replicare a quella viscida e assassina gentilezza che sì, non sarebbe male
fare il meccanico. Ma ti interesserebbe più aprire gli esseri umani. Così: per
vedere come sono fatti dentro.
Era riposante, in un certo senso, osservare quei visi di
manichino contorcersi sotto il filo di un sotterraneo disgusto e poi pensare a
come stamparti sulla pelle un giudizio che ti facesse sembrare più innocuo, più
distante, più lontano dal loro mondo perfetto, non un invasore che poteva
fagocitarli senza quasi chiedere il permesso.
Il permesso per cosa, poi?
Ero circondato da morti, ma Osaka era viva. Era un organismo
che ti avvolgeva all’improvviso e ti catturava con tutta la sua forza.
“Cosa fai sempre in giro?” sbraitavano ancora, a volte.
Parlavo più con la mia chitarra che con i miei vecchi: il principio, però, è che
lei mi ascoltava di più.
Uscivo per la strada: di giorno e di notte. Conoscevo tutte
le live-house. Ascoltavo chiunque avesse qualcosa da dire o da cantare.
Spesso dovevo intrufolarmi di nascosto, perché si vedeva
fossi minorenne, troppo piccolo, poi, perché potessi mentire.
Eppure non mi arrendevo: una notte, al Nanba Rockets, avrebbe
cantato uno che era persino più basso di me, ma la cui voce arrivava ovunque.
Uno che sarebbe diventato davvero famoso, eppure sul momento non era diverso da
chi lo ascoltava davvero, perché stava gridando qualcosa che finalmente capivo.
Qualcosa che mi teneva sveglio, occhi ed orecchie bene aperti.
Claustrophobia.
Era l’ansia che mi spingeva a seguire la corrente, fino alle
estreme conseguenze. E seguendo l’onda, nelle sue salite e nelle sue repentine
discese, trovai un’altra voce ancora. E poi un’altra e un’altra e un’altra.
“Sentiamo un po’ come suoni, ragazzino.”
Aveva quasi dieci anni più di me, e forse neppure sapeva che
i nostri nomi si somigliavano.
Kiyoharu tirava una boccata negligente dalla sua sigaretta,
ma non si distraeva davvero mai. Neppure sul palco. Trovava una sintonia
perfetta con le correnti di quella voce sotterranea che faticavo ad afferrare: e
la buttava fuori.
Ascoltare i Kuroyume era un altro modo per parlare, perché
quel linguaggio di arpeggi e musica era l’alfabeto dei vivi.
Aveva quasi dieci anni più di me e poteva educarmi secondo
nuove regole.
“Qui dentro” – e indicava prima il cuore, poi il cervello e
infine la gola – “C’è tutto quello che serve. Qui dentro può esserci un’intera
orchestra.” Facevo il roadie per il suo gruppo, mi arrangiavo con qualcosa di
mio.
“Lì dentro c’è un’intera orchestra”: ce l’aveva con quell’haido
di cui parlavano tutti. Quell’haido più vecchio di me, più piccolo di me, così
effeminato che non avresti mai detto durasse tanto su ogni acuto.
Era una lezione: ormai mancava solo il coraggio di tirar
fuori la voce. Ero un profeta e avevo qualcosa da dire: qualcosa di tanto
importante che mi avrebbero ascoltato per forza, oppure sarebbero morti senza
accorgersi d’aver mai vissuto una volta.
Ero in grado di raccogliere la sfida e di interpretare il mio
ruolo fino alle estreme conseguenze? Potevo davvero esplodere da vivo e inondare
di me – della mia verità – quei troppi indifferenti allineati in attesa
dell’ultimo rintocco?
“Ehi, Kyo? Basta con il trucco. Li spaventerai comunque
abbastanza!”
No. Non spaventare: ma svegliare. Scrostare dal viso
le brutte maschere di cera di un’espressione di comodo, di un conformismo di
convenienza, di una regola accettata e non capita. Lasciare che i polmoni si
dilatino e gridino la vita che vale la pena intendere ed affrontare. Persino se
non è una collina fiorita, ma un deserto di merda.
Ancora non ho sciolto le domande di allora: per questo ora e
poi domani e poi un altro giorno ancora fisserò sulla retina e tra le dita
l’irripetibile estasi di un colore improvviso e te la sputerò in faccia. Non
importa se sarà sangue o sarà vomito o saliva candida incollata su
un’espressione immobile, da kokeshi impolverata: non sarà grigio.
E questo dovrà bastarti per non smettere mai di ascoltare.
* Dance, Dance, Dance di Haruki Murakami, traduzione di G. Amitrano.