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Autore: Milako    10/11/2010    15 recensioni
Ciò che Tolkien non ci ha mai rivelato.
Genere: Comico, Commedia, Parodia | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altri, Un po' tutti
Note: OOC | Avvertimenti: Incompiuta, Spoiler!
Capitoli:
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Disclaimer: i personaggi presenti in questa storia appartengono a Tolkien e a chi ne detiene i diritti. Non scrivo a scopro di lucro e nessuna violazione del copyright è intesa.
Per citare/riprendere/tradurre questa storia in parte o in toto dovete avere il mio esplicito permesso.

 

Capitolo V

Di Eldamar e dei Principi degli Eldalië

ovvero:

la forza della tecnologia applicata ad un gruppo di inetti.

 

 

Trascorsero lunghi anni.

E no, non mi sto riferendo al tempo che ci ho messo per aggiornare, razza di maligni.

Da ere innumerevoli le schiere di Olwë, Ingwë e Finwë avevano fatto la mai troppo rinnegata scelta di seguire Oromë verso Occidente, e giorno dopo giorno scoprivano motivi sempre nuovi per pentirsene. Ma andiamo con ordine.

Sulle vaste lande della Terra di Mezzo si andava spandendo la calda luce del tramonto.. o la fredda luce dell'alba, a vostro piacimento: tanto sono entrambe balle spaziali dato che nessuno aveva ancora creato il Sole.

Da quando Melkor era stato catturato a costo di enormi sacrifici (no, in effetti si è costituito... N.d.A.) dai Signori dell'Occidente, le Terre Citeriori riposavano nella pace e nel silenzio. Silenzio che era turbato unicamente dal frinire delle cicale, dai canti degli usignoli -ed eventualmente dei corvazzi di Melian - dallo scrosciare discreto delle acque sui sassi, e dai colossali smadonnamenti che da una decina di giorni si levavano lievi dalle frasche frondose del Beleriand.

«Ah, Varda Elentári! Ti venga la forfora alle ascelle!» fu l'imprecazione (del tutto gratuita, data l'estraneità di Varda ai fatti) con cui Finwë, Re Supremo dei Noldor, decise quel dì di entrare in scena.

Una lunga, lunga, lunga schiera di Elfi (che sono furbissimi e marciano in fila per uno anche se sono in trenta milioni, eguagliando così la lunghezza del Rio delle Amazzoni. N.d.A.) si stava facendo largo a fatica attraverso la boscaglia. Avevano da poco superato una vasta palude, impresa ostacolata dai numerosissimi carri su cui gli Elfi avevano caricato il necessario per il secolare viaggio che li attendeva. Trasportarli attraverso la palude era stata un'impresa sfiancante perfino per loro, ma erano comunque riusciti a mettere in salvo le pesantissime casse di abiti e viveri. Stanchi, coperti di fango ed appesantiti dal carico, gli Elfi avanzavano a fatica ma tenaci attraverso il bosco insidioso.

Finwë, che avrebbe tratto godimento anche lamentandosi di faccende molto meno gravi, non poté resistere alla tentazione di prendersela con Oromë.

«Oromë, oh! Se il viaggio per le Terre Beate comincia così...» insinuò.

Oromë, la loro guida turistica ufficiale verso le Terre Beate, ignorò la frecciata e proseguì, scostando con la spada i rami e le liane che ostacolavano il passaggio attraverso il bosco. Aveva preso sul serio l'incarico: dopotutto era un Vala di grande dignità. Aveva smesso di cazzeggiare e di fare gli scherzi e gli agguati agli Elfi (che comunque non si fidavano affatto) e li stava conducendo con grande determinazione verso i porti di Helcraxë, da cui poi si sarebbero imbarcati tutti quanti per Aman.

Finwë non gradì di essere ignorato con tanta ostentazione, e con ogni probabilità stava elaborando una battutaccia abbastanza acida da infastidire Oromë, quando fortunatamente fu interrotto dal più mite Ingwë.

«Grande Oromë» esordì l'Elfo biondo «lieto fu il giorno in cui decidemmo di incamminarci con te». Solenni sbuffi e fischi si alzarono dal settore dei Noldor. «Tuttavia... i nostri popoli sono forti, ma provati. Il viaggio che dovremo compiere è lungo ed estenuante, ed anche se disponiamo di viveri e beni, la volontà del nostro cuore potrebbe indebolirsi col passare degli anni e delle stagioni».

Finwë borbottò qualcosa di molto volgare nei confronti delle alate parole di Ingwë, ma fu ancora una volta ignorato (Finwë, non stai facendo una bella figura in questo capitolo. Rimedierò, fidati. N.d.A.).

«Perciò ti prego di dirmi, grande signore dell'Occidente» concluse Ingwë, «quante innumerevoli miglia ci separano dai porti di Helcraxë?».

«Mah... Guarda...» valutò Oromë, riponendo la spada e passandosi una mano meditativa sul mento, «diciamo pure che... siamo arrivati».

Il silenzio che seguì quell'affermazione avrebbe dovuto mettere in guardia l'ingenuo Oromë. Ingwë sbiancò. La follia si accese negli occhi di Finwë (cosa che comunque capitava almeno trenta volte al giorno). Tutti gli Elfi lì presenti (anche quelli in fondo alla fila, quindi a quarantacinque miglia di distanza) si voltarono a fissare il volto di Oromë.

«Ripeti un po'...» balbettò Ingwë, abbandonando il tono ossequioso di prima.

Oromë, che non parve ancora comprendere l'entità della sua affermazione, guardò con aria stupita e stupida la schiera elfica, compreso Finwë che aveva la schiuma alla bocca e gli occhi rosso sangue, poi scostò un ciuffo di rami che ostacolava la visuale comune.

«Ecco Helcraxë, lo stretto che separa la Terra di Mezzo da Aman» annunciò.

«Oromë, perdonami, io non capisco.» biascicò Ingwë, che aveva assunto un colorino verde fava ma che cercava ancora di darsi un contegno. «Siamo partiti dieci giorni fa... e siamo già arrivati. Ma allora perché..» la sua voce si incrinò, e la frase fu disgraziatamente conclusa da Finwë, che aveva raggiunto lo stadio terminale di isteria: «...PERCHÈ - TU - ci hai fatto preparare e trasportare così tanta roba che manco avessimo dovuto attraversare il Mar Rosso, le Ande e la Salerno-Reggio Calabria il sedici di agosto?!».

Sebbene concordi, tutti guardavano con un filo di apprensione Finwë, che chiaramente straparlava e faceva nomi mai uditi prima, mentre la tiroide gli pulsava frenetica come un secondo cuore (poesia e medicina... Esploro territori sconosciuti! N.d.A).

Oromë sbatté le palpebre, scosse le spalle, poi disse: «E che devo dirvi... A me piace viaggiare con calma! Non è che se ti dico ''arrivo fra un'ora'' ci metto per forza un'ora, no? Magari ci metto quaranta minuti, magari un'ora e mezza... Ho abbondato un po', e che sarà mai!».

Gli Elfi si guardarono in silenzio, indecisi sul da farsi: stare a sentire Oromë oppure saltargli alla gola? I Noldor, sempre dolcissimi e comprensivi, stavano già affilando le spade - e anche le unghie e i denti - , ma l'agguato fallì: memore dei tempi non troppo lontani in cui fuggire era l'unico modo per salvarsi la pelle in seguito a qualche scherzo non gradito, Oromë in due salti si era portato a distanza di sicurezza dai Noldor inferociti, giusto ad un passo dalla riva del mare (hanno le gambe lunghe i Valar... Grandi saltatori, come i canguri. N.d.A.).

Ignorando le urla e le imprecazioni irriferibili che sentiva provenire dalla boscaglia alle sue spalle, Oromë si voltò a contemplare lo stretto di Helcraxë, il braccio di mare che li separava da Aman... e vide qualcosa che lo lasciò profondamente perplesso.

«Ecco» mormorò con un brivido «questo ai Noldor non piacerà». Voltò le spalle al mare e indossò un sorriso da gnorri.

Qualche minuto dopo la schiera degli Elfi - che non erano buoni saltatori come Oromë, ma che come corridori incazzati non temevano rivali - aveva raggiunto la spiaggia. La visione del sorrisone innocente di Oromë, anziché rassicurarli, aggiunse ansia alla loro furia.

«E 'sto sorriso da Grinch, adesso?» sbraitò Finwë, che continuando a citare personaggi sconosciuti accresceva parecchio la preoccupazione del suo popolo. Oromë non batté ciglio, sforzandosi di convincersi che semplicemente sorridendo come un babbeo avrebbe evitato la catastrofe. Le sue valutazioni erano ovviamente errate.

«Oh, beh» bofonchiò Ingwë, che era un ottimista e cercava sempre il lato positivo in tutto, «ci abbiamo rimesso fatica e provviste, ma almeno siamo arrivati. Ecco il mare! L'Occidente è assai vicino!».

In qualche modo la gioia di quell'avvistamento stemperò gli animi di tutti, Noldor compresi.

«Guardate!» esclamò eccitato un Elfo, indicando l'orizzonte. «Si vede Aman!».

In effetti aguzzando la vista si potevano scorgere le torri di Valmar, compresa Yavanna che in quel momento stava stendendo i panni, ignara e beata, con un gran casco di bigodini in testa.

Ingwë era entusiasta, perfino Finwë si concesse un sorriso Di Olwë ed Elwë per il momento non faccio parola perché perfino il Professore li ha snobbati per quasi tutto il capitolo (e poi lo sapete quanto odio Elwë). Migliaia di Elfi si accalcarono quindi in fretta lungo la riva del mare, vociando, impazienti di intraprendere la traversata.

Le loro voci festose si mutarono immediatamente in urla scandalizzate.

«Oromë!» strillò Finwë, vittima di un nuovo principio di infarto. Oromë deglutì e si voltò piano verso il Noldo, con l'aria più mortificata che riuscì ad assumere (Oromë, sei ridicolo. Sei un Vala, potresti annientarlo se volessi. N.d.A. - Ma non lo fa. È un perdente. N.d.Finwë – È un vigliacco. Un Vile-Vala. N.d.A.).

Gli Elfi erano semplicemente furiosi: la distesa di mare che avrebbero dovuto attraversare gioiosamente ed in un batter d'occhio era completamente piena, totalmente disseminata di enormi, pericolosissime scaglie di ghiaccio grosse quanto...

«Ma... Ma sono grosse quanto i monoliti di Stonehenge!» urlò Finwë, ed ancora una volta nessuno capì di cosa stesse parlando. Míriel, sua moglie, che fino a quel momento era stata silenziosa e tutto sommato tranquilla, gli mise una mano sulla fronte con aria afflitta.

«Eppure non ha la febbre...» mormorò fra sé e sé.

Oromë approfittò del momentaneo sbigottimento elfico per tentare una debole apologia: «Ragazzi... vi posso garantire che io questa volta non c'entro proprio niente...» disse con un filo di voce.

Naturalmente le sue parole sortirono l'effetto contrario, rinnovando la collera degli Elfi. Nessuno di loro sapeva veramente in quale modo Oromë fosse responsabile di quella assurda glaciazione localizzata, ma ciascuno di loro sapeva che la colpa era sua (molto corretti gli Elfi. Accusano senza prove. N.d.A.).

Mentre stuoli di gente elfica erano impegnati a covare pensieri d'odio all'indirizzo del Vala cacciatore, nuovi problemi sopraggiungevano. Un Noldo dal naso fino all'improvviso disse: «Ma... Non sentite anche voi questa puzza?».

Immediatamente migliaia di nasi elfici (e quindi molto aristocratici e all'insù) cominciarono a fiutare l'aria, esibendosi in vistosi conati di disgusto subito dopo. L'orrendo fetore sembrava provenire proprio dal mare ghiacciato.

«Guardate!» esclamò all'improvviso uno dei Vanyar, indicando delle masse pallide fra i flutti.

«Cosa sono? Finwë!» strillò Míriel, spaventatissima. Finwë, per tranquillizzare sua moglie ma soprattutto perché era il Re dei Noldor e non poteva certo fare la figura del pavido, si fece forza ed avanzò verso le onde scure.

«Niente... è solo ghiaccio!» affermò.

«No, no... ho visto qualcos'altro, guarda meglio! E poi, questa puzza...» gemette Míriel.

Finwë scrutò a lungo fra le onde, curvandosi fin quasi a toccare la superficie del mare. Improvvisamente il muso di un grosso merluzzo congelato emerse dai flutti proprio di fronte al Noldo.

«Eqquestocosacazz...?!» imprecò Finwë, facendo un violento balzo all'indietro, disgustatissimo e sconvolto.

Tutti rimasero immobili a guardare il merluzzo ghiacciato galleggiare pigro fra le onde, presto seguito anche da un salmone, una dozzina di totani, un paio di seppie ed un gruppetto di sardine.

Nessuno sembrava avere qualcosa di sensato da dire. Oromë ruppe il silenzio.

«Questi poveri pesci... L'acqua dev'essere così fredda che li ha congelati» disse in tono grave. Gli Elfi mormoravano fra di loro. Nel frattempo al piccolo banco di pesci si era aggiunta anche una famiglia di pescispada, congelata in un unico blocco di ghiaccio.

«Non sono sicuro di essere d'accordo con la tua teoria, Oromë» lo contraddisse un Elfo dall'occhio fino (qua tutti gli Elfi hanno un superpotere. La supervista, il superolfatto... N.d.A.).

«Che intendi?» chiese il Vala.

«Guarda... su quel pescespada c'è scritto OROGEL!».

Era vero: non solo il pescespada, ma tutti i pesci recavano il marchio della famosa ditta di surgelati.

A quel punto e dato lo stato delle cose, nessuno si sentiva più obbligato a fare commenti. Nel giro di venti minuti si erano susseguite così tante assurdità che perfino la vista di un canale marino invaso dal mercato ittico surgelato sembrava una circostanza in fondo accettabile.

Oromë si limitò a fissare il blocco di ghiaccio delle sardine che ondeggiava tranquillo, gli Elfi sembravano troppo stanchi della loro triste vita per avere voglia di fare qualunque cosa. Si resero conto di essere totalmente impotenti di fronte al destino (ragazzi, riprendetevi... Non è mica il destino, sono io che non resisto alla tentazione di farvi rincoglionire! N.d.A).

Si sedettero tutti fiacchi e demoralizzati sulla sponda del mare, osservati di rimando dagli occhi vuoti delle seppie e del merluzzo; e quando un insistente e ripetuto rumore di tonfi sull'acqua risuonò alla loro destra, trovarono a malapena la forza di voltarsi.

C'era qualcuno lungo la riva, qualcuno che estraeva pesci congelati da un sacco di tela e li gettava in mare, canticchiando canzoni dal suono nostalgico.

«Vitti 'na crozza supra nu cannuni, e cu sta crozza mi misi a parra-aari...»*.

«Sauron?» esalò Oromë, non potendo credere ai suoi occhi.

Gli Elfi, che non avevano mai avuto il piacere e l'onore (soprattutto l'onore. Io uomo d'onore sugnu! N.d.Sauron) di conoscere il folkloristico luogotenente di Melkor, si guardarono l'un l'altro senza capire.

«Ma chi è?» chiese un Noldo.

«Non lo so, ma non capisco in quale lingua sta parlando e la cosa mi infastidisce» rispose stizzito Finwë, che era un fine linguista e non sopportava di non comprendere gli idiomi altrui.

«Oromë, chi...?» cominciò Ingwë, ma a quel punto l'acuto orecchio di Sauron, captate le voci, lo avvertì della presenza degli Elfi.

Si interruppe nell'atto di estrarre un calamaro gigante dalla sacca, si sistemò la coppola ed osservò la spiaggia affollata.

«Ah, voi siete, dotto'! Buonasera!» disse tutto ossequioso all'indirizzo di Oromë.

«Dotto' ?» ripeté questi, indignato. «Sauron, siamo nemici giurati da sempre, non capisco tutte queste cerimonie...».

«Eeeeh, ma vui siti cristianu ranni, io sugnu carusu e va'a purtari rispettu!»**.

Dato che nessuno aveva l'aria di aver capito una singola parola, specialmente la parte relativa a «cristianu ranni» si decise comunemente di fare finta di nulla e di passare oltre.

Finwë, sempre più scandalizzato dal vernacolare di Sauron, guardò con aria di sdegno la sacca di tela, da cui il Maia oscuro aveva ripreso ad estrarre il calamaro gigante. Quando lo ebbe estratto completamente, lo sollevò e lo gettò nel mare ghiacciato con un sonoro grugnito di fatica. Il calamaro andò a galleggiare fra i ghiacci insieme ai suoi compagni di sventura.

«Posso chiederti cosa stai facendo, Sauron?» chiese Oromë, assai perplesso.

«Eh, vedete dotto' » ed indicò le lastre di ghiaccio «qua prima c'era lu mare ed ora c'è lu ghiaccio. Allora io, che sono scaltro, dissi: ''Sauron bello, ma perché non usi tutto 'sto ghiaccio per conservare il pesce del Patrone?'', ed eccomi qua, conservo il pesce del Patrone» spiegò Sauron, e gli si illuminarono gli occhi entrambe le volte che pronunciò la parola «patrone».

Gli Elfi rinunciarono a capire, Oromë invece volle indagare.

«Cioè stai usando lo stretto di Helcraxë come una ghiacciaia gigante per conservare il contenuto del freezer di Melkor...?».

Non poté concludere la frase, perché un rumoroso groppo salì alla gola di Sauron, che si voltò di scatto con gli occhi umidi e lo sguardo colmo di rancore: «Dotto'! Io vi porto rispetto ma voi non lo dovete nominare il Patrone! Che l'avete imprigionato voi, e l'avete portato via da Utumno voi... Ed io, fedele, buono, aspetto che torna, bado alla casa e alla dispensa, agli Orchetti... e sistemo il pesce del Patrone! Che al patrone ci piaceva tanto, il pesce!».

Sauron aveva il fiatone e le lacrime agli occhi. Oromë si sentì quasi in colpa per avere ferito i sentimenti del luogotenente di Melkor, ma non poté fare altro che tacere mentre Sauron si asciugava gli occhi con la coppola e riprendeva zelante a gettare pesci in mare, inginocchiato e singhiozzante.

Elfi e Vala si lasciarono alle spalle tutta la drammaticità di questa scena e si incamminarono rassegnati, intraprendendo un lungo, lungo, lunghissimo cammino alternativo per le Terre Beate.

Se non altro tutte quelle provviste sarebbero tornate utili...

 

All'alba del ventordicimilaffocentotrigesimo giorno di viaggio, l'ormai familiare schiera di trenta milioni di Elfi emerse dalla boscaglia (c'è sempre una «boscaglia» generica da cui i personaggi emergono coperti di foglie e terriccio. Mi serve per dare l'idea che alla fine del viaggio gli Elfi abbiano lo stesso aspetto di Aragorn di ritorno dai monti: orrido. N.d.A.).

«Porca Elbereth!» urlò Finwë, per mantenersi fedele alle tradizioni.

«Io non mi ricordo più nemmeno perché siamo partiti...» sussurrò Míriel, al suo fianco.

«Io non mi ricordo più nemmeno come mi chiamo...» bofonchiò Ingwë.

«Oh, suvvia, quanto siete lagnosi!» esclamò Oromë in tono gioviale. «Stavolta siamo davvero arrivati, non vedete?» ed indicò con la mano aperta il panorama di fronte a loro.

Davanti al popolo elfico si stendeva un vasto specchio di acque scintillanti, placide e luminose. Stormi di gabbiani volavano in circolo sulla superficie dell'oceano, emettendo le loro grida acute, ed in fondo, all'orizzonte, le Terre Beate di Aman li attendevano gloriose ed eterne.

L'aria salmastra investì gli Elfi, ritemprandoli dopo innumerevoli anni di marcia. Oromë li guardò e sorrise raggiante. Tutto andava bene.

Pochi istanti dopo le acque cominciarono a ribollire, il terreno tremò, i gabbiani fuggirono in volo ed Ulmo, il Signore degli Oceani, emerse dal mare, seguito immediatamente dalla sua schiera di imponenti rotoli di lardo.

«Beh, buongiorno a tutti voi» bofonchiò compiaciuto, passandosi un baffone fra le dita. La sua ombra si stagliò sugli Elfi esterrefatti.

Provato dalla vivificante esperienza di una marcia infinita, disseminata di disastri sempre peggiori, l'equilibrio mentale degli Elfi era sul punto di crollare per sempre. Finwë, che all'equilibrio mentale aveva detto addio molto tempo prima, alla sconcertante vista di Ulmo ricadde immediatamente nel delirio.

«Pare Tritone prima della liposuzione» affermò in tono convinto, ed ancora una volta i Noldor non compresero le parole del loro sire.

Ulmo lo udì e si voltò irato verso di lui, imprimendo una colossale panciata all'acqua. Quattro elefanti marini e un capodoglio furono scagliati con violenza fuori dalle onde ed annasparono terrorizzati il più lontano possibile.

«Non è bello fare battute sulle persone robuste» borbottò Ulmo, la cui ira non durava a lungo. Gli Elfi guardarono fisso a terra in un gesto che Ulmo interpretò come rammarico, ma che era in realtà repulsione mista ad ilarità soffocata.

«Non fare caso a Finwë, Ulmo» disse Oromë. «È stato un viaggio stressante e siamo tutti un po' nervosi...».

«Quella deviazione da Helcraxë è stata una disgrazia. Abbiamo allungato di centinaia di miglia» sospirò Ingwë con aria abbattuta.

In quel momento Oromë si batté una mano sulla fronte e disse: «Ah! A proposito Ulmo, credo che tu sia il Vala giusto a cui chiederlo, dato che di mare ne sai sicuramente più di me... Da quando lo stretto di Helcraxë è pieno di ghiaccio?».

Ulmo parve sorpreso ed vagamente a disagio. «Oh, beh, se ti ricordi durante l'ultimo combattimento contro Melkor c'è stata un po' di agitazione, eh... Del resto quando bisticciamo noi dèi è così, no? Terremoti, eruzioni vulcaniche, piogge di meteore, mutamenti climatici... Ad Helcraxë Manwë si è lasciato prendere un po' la mano, è venuta giù la bora e lo stretto è diventato tutto un lago di ghiaccio, come... come una pista da pattinaggio, ecco» spiegò.

«Un lago di ghiaccio? Quando l'abbiamo visto noi il ghiaccio era in scaglie» obiettò Oromë, alzando un sopracciglio.

«Ah... boh, allora non so proprio spiegartelo, non ne ho idea» borbottò Ulmo, facendo spallucce e torcendosi le dita dei piedi. Il suo pensiero si perse in un imbarazzante flashback di se stesso, insaccato in una tutina stile Scissor Sisters, intento a praticare soave pattinaggio acrobatico sul lago di Helcraxë. C'era rimasto malissimo quando il ghiaccio aveva ceduto sotto il suo peso, spaccandosi in migliaia di pezzi... Sperò che nessuna creatura vivente su Arda venisse mai conoscenza della verità.

Fu graziato da questa sorte: se Finwë fosse stato al pieno delle sue spiccate capacità intuitive lo avrebbe smascherato in un istante, ma fortunatamente il Re Supremo dei Noldor se ne stava seduto a gambe incrociate per terra, bofonchiando «lastre di ghiaccio» e «monoliti di Stonehenge» sotto lo sguardo ansioso di Míriel.

«In ogni caso... ho un problema» sussurrò Oromë all'orecchio pingue di Ulmo. «Come li porto dall'altra parte?» chiese, indicando col pollice la vallata invasa da Elfi trepidanti alla sue spalle.

Gli occhietti blu di Ulmo si illuminarono e i rotoli sul suo addome ballonzolarono allegri. «Oh-oh! Non c'è problema, non c'è problema!» esclamò con lo stesso tono garrulo di Babbo Natale. Si voltò, provocando la formazione immediata di uno tsunami di apprezzabili dimensioni, e si immerse nell'oceano.

Oromë e gli Elfi fissarono corrucciati la superficie vuota del mare, fiutando una fregatura imminente. Qualche minuto dopo Ulmo ricomparve all'orizzonte, sorridendo: era accompagnato da altre due figure, e tutti insieme trainavano un'isola.

 

Questa affermazione potrebbe ovviamente scatenare cori di indignazione presso i lettori: che razza di miserevole escamotage è, scardinare un'isola dal fondo del mare per traghettare gli Elfi fino a Valinor? Sono d'accordo con tutti voi, ma l'accusa non mi tocca: la paternità di questa trovata brillante spetta al Professore, ed io la accolgo volentieri. Un'isola mobile, magari marchiata MSC Crociere... scherziamo? Non troverei un'idea più balzana nemmeno sforzandomi! Grazie Professore per avermi facilitato il lavoro con questa sparata... Siamo fra amici, può dirci la verità: quanta erbapipa ha consumato durante la stesura del capitolo? Su, su... Non faccia il timido...

 

...Gli Elfi, che tutto si sarebbero aspettati tranne questo, rimasero ad occhi spalancati a fissare l'isola avvicinarsi alla spiaggia. Nel giro di qualche minuto si trovarono di fronte un Ulmo soddisfattissimo, chiaramente in attesa di complimenti, ed altri due individui dalla folta barba, difficilmente distinguibili fra di loro.

«Forte, eh?» esclamò Ulmo, indicando l'isola che galleggiava davanti agli esterrefatti spettatori, Oromë compreso: lui stesso ne aveva viste e fatte di stronzate in vita sua, eppure questa le superava tutte. I due identici tizi barbuti al suo fianco, probabilmente i suoi Maiar domestici, annuirono compiaciuti.

«Oh, sì» borbottò Ulmo «loro sono Ossë» -ed indicò il Maia alla sua sinistra- «ed Uinen». Ossë ed Uinen fecero un identico sorriso villoso e si inchinarono leggermente agli Elfi ed ad Oromë.

«Sono i tuoi Maiar?» chiese Oromë, curioso. «Forti! Sono gemelli!»

«Beh, in effetti sì, sono gemelli...» spiegò Ulmo, visibilmente in imbarazzo, mentre gli occhi di Uinen si colmavano di tristezza. «Uinen però è la gemella. È una ragazza, vedete...».

Ci fu un silenzio tesissimo. Tutti cercavano di sbirciare la folta barba di Uinen senza sembrare indiscreti, ma lei se ne accorse e tirò su col naso, molto avvilita.

«Non è mai stato chiaro» sospirò Ossë, battendo delle pacche gentili sulle spalle della sorella, «sospettiamo che troppa salsedine... forse... una colonia di alghe... o batteri... ma non siamo sicuri...».

Il tentativo di trovare una motivazione scientifica al manto barbuto di sua sorella fallì miseramente, ed Ossë tacque, compassionevole. Per cambiare discorso Oromë indicò l'isola-traghetto e chiese: «Così... ci sposteremo su quella?».

Ulmo annuì sempre più compiaciuto. In quel momento Finwë, che si era ripreso un attimo e si stava tirando in piedi, sostenuto da due del suo popolo, gettò uno sguardo penetrante all'isola e disse, acido: «Ecco, ci mancava solo l'Isola di Lost! Dov'è il relitto dell'Oceanic 815, avanti?».

I due Noldor che lo sostenevano si guardarono con la coda dell'occhio e non dissero nulla, Ulmo non comprese la domanda ed Oromë, sempre più intenzionato a salvare la situazione (e a tornare a Valinor il prima possibile, dato che non ne poteva più di quel continuo delirio), chiese: «Ma... sarà affidabile?».

«Affidabilissima!» rispose Ulmo, piccato. «Non è una normale isola, bensì un prodotto tecnologico di ultima generazione, realizzato dalle nostre menti più brillanti!».

Alla definizione «le nostri menti più brillanti» gli sguardi degli Elfi schizzarono nervosamente dal bonario Ulmo, all'anonimo Ossë, alla villosa Uinen. Il sopracciglio di Oromë si innalzò ancora, sospettoso.

«Voglio presentarvi l'ingegnere che si è occupato della realizzazione di questa meraviglia della tecnologia» annunciò Ulmo. Nessuno rimase colpito da quella presentazione: al massimo sarebbe emerso dai flutti un altro Maia barbuto ed insipido.

Il tempo parve fermarsi quando dai flutti increspati emerse una fanciulla dalla bellezza folgorante: candida come la neve, dai capelli setosi e biondi, le labbra rosa ed un sorriso incantevole, guardò gli Elfi con splendenti occhi azzurri.

«Påverkar» disse.

«Lei è IKEA... Si pronuncia tutto maiuscolo. E parla solo svedese, non so se vi capirete...» spiegò Ulmo, godendosi l'effetto della nuova arrivata sugli Elfi (buontempone, Ulmo... Mi ricorda Silente ma non capisco perché. Scusa Albus, si scherza... N.d.A.).

Lo shock fu profondo. La mascella di Oromë si sganciò e penzolò penosamente fino al suolo, mentre l'intera popolazione maschile dei Vanyar era direttamente partita per la tangente, essendo i Vanyar del tutto incapaci di resistere al fascino delle bionde (sono biondi, amano le bionde. Quanto sono banali... N.d.A.). Il povero Ossë cercò di contenere l'emozione, soprattutto per non ferire i sentimenti dell'irsuta e poco avvenente sorella Uinen, ma con scarsi risultati.

I soli Noldor, seppur ammirati alla vista di cotanta beltà, non smarrirono il lume della ragione e nemmeno lo spirito critico (capite perché i Noldor sono i miei pupilli? Puoi dire ad un Noldo «Ehi, hai appena ereditato una montagna d'oro!» e lui ti chiederà subito «In lingotti o in monete? A quanti carati? E qual è la quotazione attuale dell'oro in Borsa?». Fantastici... N.d.A.).

«IKEA è un ingegnere qualificatissimo, ce la invidiano tutti» disse Ulmo, colmo di orgoglio. La Maia sorrise dolcemente e arrossì un poco, trasformando i Vanyar in un branco di adolescenti con le allucinazioni. «Inoltre se la cava bene anche come architetto d'interni, ha un successo strepitoso! Vedeste come ha arredato le stanze a Valinor... Qualità al miglior prezzo!» gongolò.

Ci fu un momento di silenzio, interrotto solo dagli «ooooh...» sognanti dei Vanyar. Per quanto demenziale potesse sembrare la prospettiva di attraversare l'oceano a bordo di un'isola low-cost progettata ed assemblata da una bionda, tutti dovettero convenire sul fatto che si trattava dell'unica soluzione possibile.

«Emh... allora, ci imbarchiamo?» esclamò Oromë, che stava faticosamente tornando in sé. Naturalmente la sua era una domanda retorica: discutere con i Vanyar sarebbe stato come sfondare una porta aperta. Erano rimasti incantati da IKEA come i ratti dal pifferaio di Hamelin -e questo la diceva lunga sul loro spessore psicologico. I Noldor li guardavano accalcarsi per arrampicarsi sull'isola con enorme disprezzo. Dalle loro file si udivano animate lamentele: «Ma che idea è? Io dico... L'isola! Ma un gommone no?!» brontolò qualcuno. Alla fine dovettero rassegnarsi ed alquanto sospettosi misero piede sul traghetto improvvisato, che scricchiolò lugubre e beccheggiò vistosamente.

«Io me la faccio a nuoto» latrò subito Finwë, che aveva problemi di mal di mare. Per la prima volta dall'inizio di questo capitolo molti furono d'accordo con il Re dei Noldor, ma nessuno ebbe il tempo di voltare gli elfici tacchi e fuggire: Ossë ed Uinen avevano levato le ancore e l'isola stava prendendo definitivamente il largo. Ci fu una toccata di ferro generale, e così la traversata ebbe inizio.

 

Ulmo, impegnato al timone (sì, c'è un timone. Ma allora ha ragione Finwë ed è veramente l'Isola di Lost? N.d.A.) supervisionava la navigazione. Improvvisamente si fece serio.

«IKEA, ascolta... Io ho fatto lo splendido davanti agli Elfi, ma in effetti quest'isola È sicura? Me lo garantisci?» domandò sottovoce alla bionda.

«Ja, ja» rispose lei, raggiante. Ulmo non parve affatto rassicurato.

«Te lo chiedo perché sai bene come va a finire con i tuoi pezzi d'arredamento... C'è sempre la classica vite che avanza, e non si può mai prevedere cosa -».

«Oh, e questa?» domandò un Noldo, tenendo in mano una grossa vite d'acciaio e scrutandola torvo. «L'ho trovata qui per terra...». Presto gli si radunò attorno un capannello di Elfi. Ulmo guardò fisso la vite, sbiancò, aprì la bocca per dire qualcosa e subito la richiuse, mentre IKEA sparì dalla circolazione con invidiabile nonchalanches: era troppo abituata a rifilare prodotti male assemblati per non sapere come comportarsi in casi del genere.

«Dov'è finita quella bionda rifilapatacche?!» chiese irato Oromë, ma era troppo tardi. La Maia svedese aveva con tutta probabilità già preso il volo per un paradiso fiscale; Ulmo, approfittando dei suoi poteri, si era provvidenzialmente dissolto in acqua – peraltro con grande fatica, data la difficile solubilità dei lipidi; stesso discorso per Ossë ed Uinen che, non avendo l'agilità di IKEA né i poteri elementali di Ulmo, si erano semplicemente nascosti in due cespugli. Nonostante gli sforzi, entrambe le barbe rimasero tuttavia visibili.

La sparizione congiunta del Vala e dei suoi tre Maiar gettò gli Elfi nel panico: i Vanyar, pavidi com'erano, non volevano affrontare la navigazione da soli; i Noldor invece non riuscivano a sopportare l'idea di non avere nessuno con cui prendersela. Oromë, dal canto suo, non sapeva a che santo votarsi, avendo un'idea non troppo chiara del concetto di «votarsi ad un santo».

Fu fra l'isteria collettiva che la già citata vite mancante scatenò le sue disastrose conseguenze. Si udì come uno strappo nell'aria, violento come un terremoto, assordante come una tempesta: la punta orientale dell'isola si era spezzata ed era rimasta indietro; e codesta, così si narra, fu l'Isola di Balar; alla quale in seguito Ossë si recò spesso.

«Ma... perché? Che me ne frega?» chiese discreto Ossë, ma il Professore lo ignorò e così faccio anche io.

La sfilata dei volti degli Elfi di fronte a quest'ultimo prodigio era davvero una vista demoralizzante. L'isola, perduto un quarto della sua superficie, aveva preso a beccheggiare con maggiore insistenza, sbattendo sulla superficie dell'oceano ed innalzando nell'aria onde e spruzzi altissimi. Disgraziatamente per l'udito fino degli Elfi, al di sotto del suolo era perfettamente udibile il cigolio nevrotico di centinaia di bulloni sganciati.

«Voglio morire... Voglio morire!» strillò Ingwë, con le lacrime agli occhi.

«Non parlare così, mi ricordi Elwë Cappuccetto Grigio!» gli rispose aspro Finwë.

Ingwë incassò l'insulto, senza che il pensiero della misteriosa assenza di Elwë, di Olwë e dell'intero popolo dei Teleri gli sfiorasse il cervello. In quel momento avevano tutti cose molto più importanti a cui pensare (non li preoccupa il fatto che sono spariti cinquecentomila Teleri dopo lo scorso capitolo... Mi pare giusto. N.d.A.).

Oromë, abbandonato il vano tentativo di votarsi ad un santo, tentò di riprendere in mano la situazione. C'era immediato bisogno di qualcuno che governasse l'isola verso Valinor. Ulmo s'era dato alla macchia, su IKEA non c'era comunque da fare affidamento, ma in qualche modo aveva la sensazione che Ossë ed Uinen fossero ancora sull'isola, nascosti. Gli venne subito in mente un'idea per stanarli.

Sganciò dalla cintura Valaróma, il suo corno da caccia, fedele compagno di tanti scherzi di infima categoria, ed intimò agli Elfi: «Tappatevi le orecchie, tutti quanti!».

Quelli obbedirono con tutto il cuore, non desiderando un bis di ultrasuoni. Il cuore di Oromë danzava: finalmente poteva rompere i coglioni a qualcuno, non lo faceva da tanto! Prese un profondo respiro, verosimilmente prosciugando mezza atmosfera ed aprendo dodici buchi nell'ozono, data l'ampiezza dei polmoni dei Valar. Si concentrò e soffiò con vigore dentro il corno argentato.

Un boato tuonò su tutto l'oceano; e fece immediatamente saltare Ossë ed Uinen fuori dai loro nascondigli erbosi, con gli occhi sgranati ed ogni singolo pelo della barba teso come un filo di ferro.

«Vergogna! Nascondersi così nel momento del bisogno!» li richiamò Oromë, improvvisamente autoritario. «Cercate di rendervi utili, Maiar dei mari! Tu, Ossë, vai al timone, e tu, Uinen, controlla la rotta!» disse distribuendo ordini ai due servitori di Ulmo. Quelli, mortificati, corsero ad obbedire.

«Comunque Ossë è lui...» piagnucolò Uinen dirigendosi mesta a prua. Oromë finse di non sentirla e si voltò dall'altra parte, riponendo Valaróma nel fodero.

 

In breve, grazie alle mani esperte dei due Maiar gemelli, l'isola aveva riguadagnato stabilità e stava filando senza nuovi problemi verso Occidente, e alla fine giunse alle lunghe spiagge ai piedi delle Montagne di Aman.

«Ecco, Noldor e Vanyar» annunciò solenne Oromë, felice di essere tornato a casa. «Ecco davanti a voi i piedi delle Montagne di Aman!».

I Vanyar e i Noldor si chiesero perché Oromë non dicesse semplicemente «Montagne di Aman» piuttosto che «i piedi delle Montagne di Aman». Guardarono di fronte a sé e, con grande sorpresa, avvistarono una lunga serie di piedi giganti alla base delle montagne, sulla spiaggia. Gli Elfi guardarono Oromë in cerca di spiegazioni.

«È il nostro orgoglio... Il Festival dei Piedi» spiegò Oromë, parlando con tono nostalgico. «Ogni anno ognuno di noi Valar fa una scultura in pietra dei propri piedi e la espone qua sulla spiaggia. I piedi più belli vincono, è un grande onore, sapete... Tre anni fa ho vinto io, avevo scolpito anche gli zoccoli di Nahar».

Sospirò, e nuovi angosciosi dubbi germogliarono nelle menti degli Elfi, ancora beatamente ignari delle numerose assurdità di casa Valar. Prima che potessero replicare l'isola attraccò, proprio di fronte agli enormi piedi inanellati di Manwë.

...Così essi entrarono a Valinor e furono accolti nella sua beatitudine.

 

***

Nello stesso momento, nel Beleriand Orientale...

 

Olwë, Re Supremo dei Teleri, si accasciò stremato sulla riva di uno dei mille affluenti del fiume Sirion.

«Non ce la faccio più» annunciò prendendosi la testa fra le mani. Rimase così, sconsolato ed immobile, mentre il suo popolo gli si radunava attorno amareggiato.

Era raro vedere Olwë in stato di prostrazione. Il loro Re era sempre stato un Elfo deciso, pratico e coraggioso, ma in quel momento sembrava preda della più buia disperazione.

«Da quando Elwë è sparito non è più stato lo stesso...» mormorò un Teler scuotendo le spalle («Teler» come singolare di «Teleri» però è bruttissimo, Professore. Posso usare «Telerio»? N.d.A. - Faccia pure, signorina, tanto oramai... N.d.MaestroTolkien).

Era la verità: secoli prima Elwë Cappuccetto Grigio, l'unico Elfo dai capelli color topo e fratello di Olwë, era partito per i boschi e non era mai più ritornato. Sebbene Olwë lo avesse sempre considerato una fastidiosissima palla al piede, non riusciva a scrollarsi di dosso il senso di colpa per avere spedito quel babbeo privo di senso dell'orientamento a spasso per Nan Elmoth. Era tutta colpa sua se suo fratello non aveva più fatto ritorno, e sapeva che non avrebbe avuto pace finché non lo avesse ritrovato.

Un Telerio si avvicinò piano ad Olwë e gli posò una mano sulla spalla, comprensivo.

«Non è colpa tua, Sire» gli disse. «Il principe Elwë...».

«Non me lo perdonerò mai» lo interruppe Olwë, con la voce spezzata. «Mai...».

Nel vedere il loro amato Re così rabbuiato, i Teleri si intristirono a loro volta. Nella mestizia generale, nessuno si accorse di un rapido movimento al di là della boscaglia (ecco che ritorna «la boscaglia»! Fra poco chiederà lo status di personaggio indipendente! N.d.A.).

Elwë era lì, nascosto, con il cuore in gola e il volto in fiamme. Grosse, lucide lacrime stavano per cadere dai suoi occhi. Non riusciva a crederci!

Da quando aveva lasciato il suo popolo per intraprendere un rischioso viaggio solitario fra i boschi del Beleriand (Elwë, ti vorrei ricordare che dovevi solo consegnare un cestino e che non ci sei riuscito... N.d.A.) ed aveva incontrato la sua amatissima Melian, non aveva più rivisto né suo fratello né altri dei Teleri.

Aveva vissuto con Melian nella gioia e nell'armonia, lontano da tutto, e non aveva mai avuto intenzione di fare ritorno a casa. Del resto tutta la sua gente si era sempre comportata molto male con lui: fin da bambino lo avevano maltrattato e ridicolizzato, e tutto per via del colore dei suoi capelli... (I capelli non c'entrano, sei tu che sei una piattola. Te l'ho già spiegato diverse volte e non vorrei ripetermi ancora. N.d.A.) E neanche il fatto che fosse il loro principe aveva impedito ai Teleri di prendersi gioco di Elwë.

Tuttavia ultimamente una grande nostalgia l'aveva colto, e aveva deciso di seguire gli spostamenti di Olwë e del suo popolo attraverso il Beleriand Orientale. Non era nemmeno sicuro di cosa desiderasse davvero: riunirsi alla sua gente e rischiare di essere nuovamente umiliato a vita, oppure vivere felice, ma esule, con la bellissima Melian - l'unica creatura vivente in Arda che apprezzava la sua compagnia? Questo dilemma lo tormentava mentre osservava da lontano l'accampamento dei Teleri presso le rive del Sirion.

Immaginate dunque la gioia incontrollata che invase il cuore di Elwë Cappuccetto Grigio quando, avvicinatosi abbastanza da potere udire i loro discorsi, sentì i Teleri rammaricarsi della sua assenza! Persino Olwë, il suo amato fratello Olwë, che non gli aveva mai dimostrato più affetto di quanto se ne dimostrerebbe ad un cocker, era davvero distrutto dal dolore! Che meravigliosa felicità! (Elwë, sappi che mi fai schifo: gioisci del dolore altrui. Sei una persona miserevole, te lo devo dire. N.d.A.) (Sono lieto di apprendere che i MIEI personaggi le si prestino magnificamente come valvole di sfogo, signorina. N.d.MaestroTolkien).

Sì, sì... era deciso! Avrebbe sepolto gli antichi rancori, avrebbe dimenticato tutti i maltrattamenti e le sofferenze... Sarebbe comparso fra gli alberi, sorridente, e tutti i Teleri avrebbero pianto di felicità nel vederlo, ed Olwë l'avrebbe abbracciato, e...

«Sire, Sire!» gridò un Telerio, correndo più veloce che poteva verso Olwë. Questi, sopprimendo la sofferenza, si riscosse dal suo abbattimento e tirandosi in piedi chiese con voce ferma: «Cosa c'è? Porti notizie di mio fratello?».

«No, Sire, notizie da Ulmo!» disse l'Elfo, e scatenò un mormorio nervoso. «Sembra che Ingwë e Finwë si siano già imbarcati per le Terre Beate di Aman con le loro genti!».

«CHE COSA?!» tuonò Olwë. Senza aspettare una risposta saltò in groppa al suo destriero e disse: «Muoviamoci! Se partiamo adesso forse riusciamo a raggiungerli! Dobbiamo convincere Ulmo ad aspettarci!».

Ed in men che non si dica sparì dalla vista, presto seguito da tutti i Teleri. L'accampamento rimase vuoto e desolato.

Elwë non avrebbe potuto ricevere una delusione più cocente. Si erano già dimenticati di lui?

Sentì il dolore invadergli il petto ed il dispiacere montargli in gola. Melian, la splendida ma spregiudicata sposa di Elwë, comparve in quel momento fra gli alberi.

«Cosa ti succede, mio amore?» gli chiese con tono afflitto. Purtroppo la sua manifestazione di intensa solidarietà fu in qualche modo rovinata dal sonoro ruminare di chewing-gum che ne aveva sempre annunciato l'arrivo.

Elwë si voltò verso di lei, tristissimo: «Mio fratello e la mia gente hanno smesso di cercarmi. Hanno preferito le Terre Beate a me!» disse in tono acuto, sottolineando così tutta la becera meschinità (secondo lui) della scelta di Olwë.

«Eh! Mica sono cretini...» rispose subito Melian, incapace di trattenersi.

Elwë parve offesissimo: «Adesso nemmeno tu stai dalla mia parte?!».

«Ma certo che sì, cucciolotto» lo rassicurò la Maia, abbracciandolo. Anche senza tacchi lo sovrastava di una sessantina buona di centimetri. «Però tu devi anche sforzarti di capire che se io dovessi scegliere fra le Terre Beate e mio fratello scemo un attimo di dubbio ce l'avrei...».

«Ma tu hai lasciato le Terre Beate e hai scelto me, Melian...» mormorò Elwë, ormai prossimo al pianto.

I suoi continui corsivi autoreferenziali cominciavano ad infastidire Melian, che infatti rispose tagliente: «Ok, ma io non faccio testo perché si sa che ho sempre avuto cattivo gusto. Se ci hai fatto caso mi nutro di corvi vivi e dormo nel fango, per cui il fatto che tu sia mio marito è perfettamente coerente, Elwë!». Elwë dovette riconoscere che i corsivi di Melian erano decisamente più incisivi dei suoi.

Tacque e tirò su col naso. Aveva come la sensazione che la sua vita stesse bruscamente virando verso la totale catastrofe, come ai bei vecchi tempi di Cappuccetto Grigio...

 

...Così i Teleri si accalcarono sulle rive del Beleriand e da lì in avanti dimorarono presso le Bocche del Sirion (vi informo che per un attimo avevo letto «le Bocche di Sauron» e volevo condividere con voi quest'immagine dei Teleri che dimorano presso la Bocca di Sauron, che fa schifissimo. N.d.A.) , struggendosi per i propri amici che erano partiti (vedi se gliene frega ancora qualcosa di Elwë! N.d.A.). A lungo rimasero presso le coste del mare occidentale, ed Ossë ed Uinen vennero a loro e divennero loro amici; e Ossë l'istruì, seduto su una roccia vicino al limite della terra, e da lui essi appresero ogni tipo di sapere e di musica riguardanti il mare...

 

...«Oh, beh, non esattamente» brontolò Olwë, intromettendosi nella narrazione. «Ossë è un musicista poco più che mediocre. Non va oltre l'antologia del flauto delle scuole medie...».

«C'è bisogno di essere così sgarbati?» ribatté il Maia.

«Però devo riconoscere che è un buon pescatore, ci facciamo delle grigliate di calamari che sono la fine del mondo!» concesse allegramente il Re dei Teleri.

 

...E così avvenne che da quel momento i Teleri, che da principio erano stati amanti dell'acqua (siete idrofili, come l'ovatta. N.d.A.) e i migliori cantori di tutti gli Elfi (Ehi! N.d.Maglor) si innamorassero dei mari, e che i loro canti fossero colmi del suono delle onde che si infrangono sulle rive.

 

***

«Aaaaah, Varda Elentá - ».

«Finwë, ti prego – per favore!».

Míriel, in uno slancio di esasperazione, era riuscita a zittire suo marito prima che questi potesse esibirsi in uno dei suoi usuali smadonnamenti.

«D'accordo, tesoro mio, ma qui cola tutto!» sbraitò il Re dei Noldor.

Erano passati alcuni anni dall'arrivo degli Eldar ad Aman. Le genti di Finwë e di Ingwë si erano stabilite a Valinor, e la quotidianità assieme ai Valar, trascorso un certo periodo di adattamento reciproco, procedeva sufficientemente tranquilla... Ma della convivenza fra gli Elfi e i Signori dell'Occidente parleremo fra non molto. Ora è bene concentrarsi sulla perdita d'acqua che in quei giorni minacciava di disastrare la sontuosa abitazione regale di Finwë e Míriel.

«Io non capisco proprio...» brontolò corrucciato il Noldo, guardandosi attorno come se cercasse un colpevole a cui tirare il collo. Parecchi centimetri d'acqua ricoprivano il pavimento, un gocciolio irritante echeggiava nelle stanze.

«Eppure non c'erano mai stati problemi...».

«Ora come ora mi sembra inutile restare qua a lamentarci... e a bestemmiare» sospirò Míriel lanciando un'occhiataccia al coniuge. Erano passati decenni dal loro matrimonio, eppure la religiosissima Míriel ancora si chiedeva come avesse mai fatto ad innamorarsi di quello smadonnatore incallito di Finwë

«Finwë, devi andare subito dal Re, penso che possa darci una mano!».

«Ma sono io il Re» replicò Finwë, vagamente offeso.

«Intendevo Manwë, e lo sai...» spiegò lei paziente.

Finwë, che comprensibilmente non aveva associato il concetto di «Re» a quello di «Manwë» scoppiò a ridere di gusto.

«Quello là? Luce dei miei occhi, ma sei seria? Lo sai benissimo che le uniche due attività di Manwë sono giocare a briscola e grattarsi le pa...».

«FINWË!».

«...d'accordo, d'accordo» sbottò il Noldo spazientito. Il gocciolio alle sue spalle riportò la sua attenzione sul problema.

«Ma sul serio, passerotto... (Finwë, ti interrompo per dirti che l'immagine di te che dici «passevotto» come Giannini in «Non è mai troppo tardi» mi fa ridere tantissimo. N.d.A) …non crederai davvero che Manwë ci possa risolvere l'allagamento? Non ha mai risolto un problema in vita sua, praticamente è come subire un'alluvione ed illudersi che la Protezione Civi - ».

«Finwë, per carità, la smetti di fare citazioni incomprensibili e vai da Manwë?» lo interruppe Míriel, stizzita.

«Ma perché mi devi fare arrivare in cima al Taniquetil per niente?! Se hai così tanta fiducia in quel satrapo, vai tu!» ribatté Finwë, molto cavallerescamente.

«Non se ne parla» rispose lei buttandosi su una sedia. «Io non mi muovo da qua... Sono incinta!».

La notizia di una imminente figliolanza - gettata lì con la delicatezza di un asteroide - se non produsse la tenera commozione forse auspicata da Míriel, riuscì almeno a convincere Finwë ad essere più collaborativo.

«Ohibò... Un figlio?» chiese, incuriosito. (Che c'è, la novità ti sfagiola? N.d.A.)

«Esatto» disse Míriel. Si era improvvisamente addolcita. (Míriel doveva essere proprio una persona dolcissima per commuoversi all'idea di mettere al mondo un mini Finwë. Infatti le è venuto un figlio con un carattere di merda... N.d.A.) (Donna, sarei molto compiaciuto se tu la smettessi di fare conversazione con i miei genitori ogni due righe, peraltro offendendomi. N.d.Fëanor) (Oh! Fëa! Che bello vederti qui, accomodati! Però in silenzio, ché dobbiamo andare avanti con la narrazione. N.d.A.).

«Allora vado subito! Non sia mai che mio figlio debba crescere nell'umidità!» annunciò Finwë, tutto entusiasta. Avanzò sul pavimento acquitrinoso ed uscì di casa, deciso a fare valere le proprie ragioni sull'indolenza di Manwë.

Per raggiungere il Taniquetil bisognava attraversare Tirion e Valmar. Lungo la strada, il Re dei Noldor si accorse con rabbia e sorpresa che il suo popolo e anche la gente di Ingwë stava avendo parecchi problemi con le case allagate: molti Elfi erano impegnati a gettare grandi secchiate d'acqua fuori dalle finestre, sospirando rassegnati. Lo stesso espediente sarebbe stato in epoche successive riciclato dagli abitanti di Gondor per lavare Aragorn contro la sua volontà.

«Cose da pazzi!» sbottò Finwë fra sé. Siamo nel Paese Beato e mi sento a Messina! Ah, ma quelli mi sentiranno..., pensò, ed accelerò il passo. Sentiva l'elfica incazzatura aumentargli di metro in metro.

 

«BUONGIORNO!» fu l'urlo che fece trasalire tutti i Valar e i Maiar presenti alla corte di Manwë, subito seguito dal fracasso di un portone sbattuto. Finwë avanzò risoluto e furioso dritto verso il trono del Re di Arda (sostituito da tempo da una più comoda e gradita poltrona girevole), intenzionatissimo a scatenare quanto più casino possibile (non ci vuole niente, basta che urli «Guardia di Finanza!». N.d.A.).

I Valar trattenevano il respiro, pallidissimi. Erano radunati attorno alla poltrona di Manwë, rannicchiati in circolo, e furono sorpresi nell'atto di dedicarsi al gioco della bottiglia.

Finwë li guardò e sentì la furia salirgli alle orecchie (Finwë non ha mai visto un governo di fancazzisti e si indigna. Idealista... N.d.A.).

Oromë, che era lì presente ed aveva già avuto molte volte il piacere di assistere alle sfuriate del Noldo, si affrettò a nascondere la bottiglia con cui si stavano dilettando: in fondo fu anche abbastanza grato a Finwë per quell'intrusione, dato che l'aveva appena salvato dalla penitenza di baciare Tulkas.

«Vengo a nome di tutte le genti elfiche per conferire con l'individuo risibile che siede su quella parodia di un trono, e che senza meriti si arroga il titolo di Re di Arda!».

Yavanna, che non sopportava i modi bruschi di Finwë, sbuffò; mentre Varda, sebbene non fosse riuscita a seguire la raffinata sintassi dell'Elfo, lo guardò torva e si strinse a Manwë, conscia del fatto che nelle parole di Finwë non c'erano certo complimenti per il suo sposo.

Manwë, già abbastanza irritato dall'apparizione di quel tizio pedante e logorroico, la scostò via in malo modo.

«Parla, Noldo, dato che ti sei preso il disturbo di salire fino a qua per interrompere la nostra consulta» disse freddamente.

«Sì, la consulta dei miei cogl...-» cominciò Finwë, ma l'eco del rimprovero di Míriel gli risuonò prontamente nella testa. Gli balenò in mente anche l'immagine del suo futuro figlioletto costretto a vivere in mezzo a pozzanghere e muffe, e l'ira si rinnovò nel suo cuore: doveva assolutamente risolvere la questione allagamenti (e per fortuna che la sta risolvendo lui, perché Fëanor sarebbe stato capace di dare fuoco alla città per molto meno, e il Silmarillion si sarebbe concluso con un gran falò isterico a pagina 84. N.d.A.) (Confermo. N.d.Fëanor) (Comunque il falò isterico l'hai poi fatto ugualmente a Losgar a pagina 121, Fëanáro. Si vede che era un tuo sogno da sempre. N.d.MaestroTolkien).

Il Noldo prese un respiro profondo, guardò Manwë dritto negli occhi, e Manwë quasi morì, dato che lo sguardo irato di Finwë ha gli stessi effetti di quello del Basilisco.

«Voi Valar avete convinto gli Eldar a trasferirsi in Occidente, abbagliandoci con promesse di gloria e pace. Ora, a parte la gloria che non mi sembra di aver conseguito, e la pace della Terra di Mezzo che rimpiango tuttora, qualcuno sarebbe tanto cortese da spiegarmi perché ci dobbiamo pure sorbire le perdite d'acqua?! Non c'è una casa a Tirion che non sia allagata! Rispondetemi, Sovrani di Aman!».

I Valar tacquero, non sapendo cosa dire.

Varda guardò Manwë, certa che il suo splendido marito avesse una risposta adeguatissima e tagliente da rifilare a quello sporco cosacco di un Noldo.

Manwë rimase in silenzio un momento, poi disse: «La tua accusa non mi tocca, Noldo. Ti lamenti dell'acqua che invade le vostre case a Tirion, ma sappi che anche le Potenze che dimorano sulla cima del Taniquetil marciano indossando stivali di gomma e mantelli impermeabili. Abbiamo l'acqua in casa pure noi, insomma...».

La riposta sembrò spiazzare Finwë, che sospettoso si guardò intorno. Si avvide solo in quel momento che tutti i Maiar presenti in sala si stavano affaccendando con secchi e spugne per tamponare le perdite d'acqua e garantire una parvenza di normalità alla corte. La vista di questa miseria comune blandì l'ira di Finwë, ma non lo fermò.

«Ebbene, vedo che anche i più potenti in Arda abitano fra le infiltrazioni! E volete farmi credere che nessuno si è posto il problema di ricercarne il motivo?».

«Il motivo di cosa?» domandò una voce gioviale che Finwë riconobbe all'istante. Ulmo aveva appena fatto il suo ingresso a corte, più sferico che mai.

«Sono in ritardo per il torneo di burraco?» chiese.

Ci fu un momento di silenzio, poi Manwë parve illuminarsi: gli era appena venuta un'idea brillante per tirarsi fuori da quella questione spinosa. Era nota la sua capacità di diventare improvvisamente un genio quando si trattava di scaricare le responsabilità.

«Oh, carissimo, vieni, vieni, siediti!» disse affabilmente, e fece cenno a Yavanna, Varda, Oromë, Tulkas ed Aulë di spostarsi per fare sedere il Signore degli Oceani (ci voglio cinque posti liberi per fare sedere Ulmo. N.d.A.).

«Stavamo giusto discutendo con l'amico Finwë...» disse Manwë, e Finwë lo guardò con odio, «...hai notato che da un po' Valinor fa acqua da tutte le parti?».

«Da sempre, Manwë, ma io che c'entro se il tuo governo va a rotoli?» chiese innocentemente Ulmo.

Accortosi della gaffe, Manwë riformulò: «Intendevo acqua-acqua, H2O, questa insomma» e sollevò un piede, mettendo così in mostra un lucido stivale di gomma gialla che gocciolava copiosamente. «Vedi come siamo ridotti?».

Ulmo fissò lo stivale e diede uno sguardo sommario alla sala, poi sbottò: «Vedo, ma la mia domanda non cambia: io che c'entro?».

Varda, che odiava Ulmo da sempre, si irritò di fronte a tanto menefreghismo ed incrociò le braccia; Manwë invece fu convenientemente paziente: «No, siccome se c'è qualcuno che se ne intende di acqua quello sei tu, mi chiedevo se potessi fare qualcosa per rimettere a posto la situazione, dato che noi non ci capiamo niente...».

Il Re dei Valar dovette interrompersi perché Ulmo si era fatto pallidissimo.

«Che ti prende?».

«Ho paura di sapere quale sia l'origine di questi allagamenti, Manwë, e se è come temo io non posso farci proprio niente...».

«Spiega» si intromise Finwë, tagliente.

Ulmo deglutì e si rivolse di nuovo a Manwë: «Dimmi... Ti ricordi chi si è occupato degli impianti idraulici qui ad Aman?».

Cadde l'ennesimo momento di silenzio. Manwë si concentrò a fondo, quasi svenendo per la fatica impiegata, e alla fine disse: «Beh... È stato millenni fa... Ma se ne deve essere occupato Aulë, come sempre» rispose.

Valar, Maiar ed Elfo si voltarono lentamente, molto lentamente, verso Aulë. Il buon Vala artigiano aveva appena avvertito il peso enorme della responsabilità di quel disastro sulle sue spalle, e stava sudando sudori ghiacciati.

«È così, Aulë?» chiese serissimo Mandos, che fino a quel momento era stato zitto. Carezzò distrattamente con l'indice la falce che portava sempre con sé.

Aulë parlò con un filo di voce: «Sì... Sì, certo, gli impianti idraulici li ho costruiti io, ed anche le tubature nelle case, e l'acquedotto... Tutta opera mia... Ma era un ottimo lavoro, come sempre...» pigolò.

In effetti quella circostanza suonava strana perfino alle orecchie degli accusatori: se c'era un Vala affidabile su Arda quello era Aulë. Non ne aveva mai sbagliato una, tutte le sue costruzioni e le sue invenzioni erano sempre state perfette... Nani a parte, ma questo i Valar non lo sapevano mica.. Possibile che avesse combinato un tale disastro?

Ulmo scosse la testa e fissò il pavimento. Il suo timore stava per rivelarsi fondato: «E, Aulë, dimmi... Il materiale per le tubature dove te lo sei procurato?».

«Ma nella sua fucina, no?» si intromise Yavanna, offesa. «Aulë ha sempre fabbricato da solo tutte le sue attrezzature!».

«In effetti... In effetti...» mormorò il Vala artigiano, con la morte nel cuore. Yavanna lo fulminò con lo sguardo. «...In effetti... Quella volta ho accettato l'offerta di un fornitore... straniero...».

«...Chi?» chiese Ulmo con la voce che gli tremolava.

«Una biondina... Giovane... Ma sembrava molto professionale... IKEA, credo che si chiamasse...».

Ulmo fece un sospiro angosciato e si coprì il volto con le mani. Manwë sgranò gli occhi, strinse i pugni e tuonò: «IKEA?! La stessa che ha rifilato a Varda un armadio otto stagioni che si è autodistrutto dopo i primi due giorni? Aulë! Stai scherzando, voglio sperare!».

Gli altri Valar erano altrettanto scandalizzati: IKEA aveva concluso con ciascuno di loro ottimi affari, vantaggiosi solo per lei, e si era poi volatilizzata nel nulla ad ogni reclamo. Non potevano credere che l'impeccabile Aulë avesse accettato di comprare delle tubature da una tale rifilatrice di patacche! Era già tanto se avevano resistito per qualche millennio senza fare i tarli.

Mentre i commenti indignati dei Valar si sprecavano, la mente di Finwë ragionava veloce.

«Aulë!» disse ad alta voce. Il povero artigiano si voltò, mortificatissimo. «Dunque la situazione è questa: hai acquistato le nostre tubature da una spacciatrice di rottami, della quale io non comprerei nemmeno una scatola di Lego per mio figlio...».

«Hai un figlio?» chiese Varda, pettegola come sempre.

«Non ancora, ma è già incazzato a morte con tutti voi, ve l'assicuro» rispose il Re dei Noldor. «In ogni caso, vorrei che vi metteste d'accordo fra di voi, perché non mi è chiaro su chi devo addossare la mia collera».

Il suo sguardo passò da Aulë, l'ingenuo truffato; ad Ulmo, il padrino intellettuale della seminatrice di cianfrusaglie; a Manwë, il supervisore meno visore di tutti i tempi.

I tre Valar si guardarono fra di loro e per un attimo furono tentati di accusarsi a vicenda, come i bambini quando rompono i vasi Ming. Tuttavia compresero in tempo che questo avrebbero solo fatto inviperire ancora di più il già inviperitissimo Finwë.

«Manwë, tu non potresti....?» propose Aulë, sempre più intimidito.

«No, io... Lo sai che domino i venti e non ho potere su nient'altro... Ma tu che sei un artigiano così abile, potresti...?».

«No, io... Me la cavo a costruire, non a riparare... I tubi sono marci... e c'è troppa acqua... Ulmo, credo che tu...?».

«No, io... L'acqua la so maneggiare ma in questo caso non posso risolvere... non sono specializzato... Ci vorrebbero degli artigiani svelti di mano, esperti di idraulica, pazienti...».

«...i Teleri» mormorò Finwë.

Come aveva fatto a non pensarci prima? Come aveva potuto dimenticare i felici pomeriggi d'infanzia trascorsi a sfottere Olwë che giocava al piccolo idraulico con le fontanelle di casa? Come non gli era venuta subito in mente quella combriccola di esaltati che gioivano al minimo spruzzo d'acqua?

«Ma certo... I Teleri sono la soluzione!» esclamò raggiante.

«Chi?» domandò Manwë, del tutto ignaro dell'esistenza di una terza fazione di Elfi.

«Mi sa che sono quelli che abbiamo lasciato a terra... L'avevo detto che mi sembravano poco svegli» considerò Ulmo, pensieroso.

«Proprio loro! Andateli a prendere, vi garantisco che li farete felicissimi!».

«Non vedo perché qualcuno dovrebbe essere felice di riparare tubature gocciolanti per l'eternità» brontolò Manwë, poco convinto.

«Fidati, li ho visti con i miei occhi: per loro ricevere una fucilata di SuperLiquidator in un occhio equivale ad un gesto di amore eterno...».

«Oh beh, quand'è così...» bofonchiò Ulmo. «Mi dirigo subito verso la Terra di Mezzo e recupero 'sti disperati! Torno in un baleno!». Detto ciò si incamminò verso l'uscio e sparì barcollando.

«Bene, vado anche io: ho delle questioni serie a cui badare» disse Finwë, lanciando un'eloquente occhiata di sdegno alla bottiglia che Oromë nascondeva ancora dietro la schiena. Si voltò e lasciò la sala.

Non appena furono soli, i Valar si sfregarono le mani compiaciuti e cominciarono a preparare i tavolini per il torneo di burraco. Manwë si lasciò scappare un gran sospiro di sollievo mentre Aulë crollava letteralmente su una sedia, tremando. Tutte quelle emozioni non facevano per lui!

 

Così Ulmo si recò presso le bocche del Sirion, e da lontano vide che i Teleri erano tristi e sconsolati. Per quanto si fossero affrettati a raggiungere la costa, abbandonando anche la ricerca di Elwë, non erano riusciti ad imbarcarsi in tempo sull'isola-traghetto. La loro mestizia era immensa: trascorrevano le giornate fissando l'orizzonte e cantando canzoni malinconiche (quello che facevate a Cuiviénen insomma. Gran bel salto di qualità, bravi... N.d.A.).

Per consolarsi avevano cominciato a costruire un monumentale mulino ad acqua (del tutto inutile) e un complesso sistema di irrigazione per i campi nel Beleriand, ma nemmeno queste esaltanti attività ludico-idrauliche erano riuscite a risollevare l'umore degli affranti, dimenticati Teleri.

Olwë, poi, era diventato intrattabile: fra la sparizione di suo fratello e il destino di eterni imbecilli abbandonati sulla banchina con la valigia in mano, non sapeva cosa fosse peggio (io un'idea ce l'avrei, e sicuramente non è l'assenza di Elwë. N.d.A.).

La loro unica compagnia in quelle lande deserte era costituita da Ossë. Il Maia aveva cominciato a provare affetto per quei tristi Elfi che abitavano lungo le sponde a lui affidate, e spesso trascorreva il suo tempo con loro. Inoltre, con la scusa di andare a controllare come stavano i Teleri, riusciva anche a fuggire da quella lagna di sua sorella Uinen, che ultimamente stava diventando persino più piagnucolosa e complessata di prima.

Il cuore di Ossë piangeva alla vista dei Teleri così abbattuti, e per provare ad alleviare la loro sofferenza aveva cercato di distrarli: all'inizio tentò di rallegrarli con la musica, ma essendo un pessimo flautista era solo riuscito ad angosciarli di più. Allora decise di insegnare ai Teleri i segreti della pesca sportiva, e questo espediente parve funzionare meglio: se non altro le grigliate di pesce costituivano un momentaneo diletto.

Ma sempre la tristezza e l'abbandono albergavano nei cuori dei Teleri. Così, quando videro Ulmo comparire all'orizzonte trainando l'isola-traghetto, non credettero ai loro occhi ed esultarono grandemente.

«Ulmo! ULMO! È tornato Ulmo!» gridavano.

«È troppo bello per essere vero, non posso crederci!».

«Sono così felice! Ho aspettato per secoli questo giorno!».

Ulmo, che era abituato a sentirsi accogliere da esclamazioni tipo ''oh, è arrivato il panzone'', rimase perplesso e lusingato.

«Eddai, lèvati, panzone! Facci salire!» esclamò Olwë, gettando all'aria la canna da pesca e il cestino delle esche.

Ulmo, ferito nell'orgoglio, lo guardò freddamente e si rivolse agli Elfi in tono glaciale.

«Voi Teleri avete perduto la prima occasione per raggiungere Aman. Tuttavia, la generosità dei Signori dell'Occidente è grande, e vi viene offerta una seconda possibilità. Volete dunque imbarcarvi?».

«E che chiedi a fare?» rispose felicissimo un Telerio.

«Certo che sì!».

«Finalmente!».

«Non vedevo l'ora!».

«E allora poche chiacchiere e partiamo, avanti!» li esortò Olwë, che aveva già in spalla lo zainetto da campeggista.

«Ma... Sire...» si intromise timidamente un Telerio «...e il principe Elwë?». Olwë lo guardò con disprezzo.

«Ti faccio notare che è precisamente per colpa di quella piaga di Elwë che siamo rimasti qui come turisti in ciabatte per secoli!».

«Mio Sire, temo che tu non abbia compreso la mia obiezione» ribatté con calma il Telerio. «Intendi dunque partire senza aver ritrovato Elwë, e senza avergli dato tante di quelle giuste legnate da farlo pentire per sempre di essere venuto al mondo?».

La giustezza di questa osservazione ammutolì Olwë, che rimase pensieroso. In effetti l'idea che Elwë restasse impunito dopo tutte le iatture che si erano susseguite a causa sua non lo lasciava soddisfatto. Tuttavia, la prospettiva di rimanere ancora nella Terra di Mezzo sulle tracce di un abietto individuo dai capelli grigio-topo era molto più demoralizzante... Olwë si morse un labbro, indeciso.

«Sto ancora aspettando una risposta, Elfi» bofonchiò Ulmo, giusto per semplificare le cose ed allentare la tensione.

In quel momento un piccolo gruppo di Teleri si fece avanti, con un'espressione determinata. Uno di essi si rivolse ad Olwë: «Sire, abbiamo compreso il dubbio che lacera il tuo cuore. La nostra gente deve partire per l'Occidente, e non può farlo senza la guida di Olwë, il più amato e il più nobile Re dei Teleri».

Olwë li fissò in silenzio, cominciando a capire.

«Eppure i Teleri hanno un altro Sire, un Telerio infimo e odiato da tutti, la cui esistenza ha offeso l'occhio stesso di Eru. Noi resteremo qui, e lo cercheremo, e lo troveremo, e ti giuro solennemente che le nostre mani lo percuoteranno fino a che il nostro capriccio ci sosterrà».

Questo discorso fu accolto da un applauso commosso da tutti i Teleri. Olwë, molto emozionato, si rivolse all'Elfo che aveva così degnamente parlato: «Dunque voi rinunciate all'Occidente, vi sacrificate per seguire una più nobile causa. Olwë non dimenticherà quanto state facendo per lui e per il suo popolo», e gli strinse solennemente la mano.

Ulmo rimase un po' in disparte, ad osservare confuso quello strano giuramento. Infine si schiarì la voce ed intervenne: «Voi sarete da ora chiamati Eglath, che vuol dire ''Il Popolo Abbandonato Nonché Molto Impaziente di Menar Le Mani'', e non vedrete mai la Luce degli Alberi di Aman. Ma ora è tempo che si parta, Elfi. Imbarcatevi sull'isola!».

Udito ciò, i Teleri trotterellarono allegri verso la gigantesca imbarcazione. Ma Ossë li guardava, e piangeva dentro di sé. La sua espressione addolorata colpì Olwë, che facendo sfoggio di grande pazienza indugiò ancora una volta e lo interrogò: «Che ti prende, Ossë, perché stai per piangere?».

Il Maia si sforzò di trattenere le lacrime, mentre Olwë gli faceva gentilmente ''pat-pat'' sulle spalle, buttando gli occhi al cielo, impaziente.

Infine rispose: «È che mi mancherete! Era bello stare con voi Teleri, tutti in compagnia... Il barbeque sulla spiaggia... Le gare di pesca alla triglia con te, Olwë... E adesso questo posto sarà di nuovo vuoto, e queste sponde di nuovo silenziose... e io di nuovo solo... Non avevo mai avuto degli amici!».

Olwë rimase un attimo imbarazzato, non sapendo cosa rispondere. In fondo era vero: il Maia era stato un buon amico per loro durante tutti quei secoli di solitudine. Non se la sentiva di rispondergli ''va' al diavolo e lasciaci partire'', gli sembrava in qualche modo indelicato.

Un secondo gruppetto di Teleri si scambiò delle occhiate colme di comprensione (''occhiate colme di comprensione'' significa che si guardano con aria compassionevole, non che si stanno lanciando l'un l'altro dei pesci altruisti. Bisogna sempre specificare, quando si tratta dei Teleri. N.d.A). Gli Elfi si annuirono a vicenda, poi cercarono con lo sguardo l'approvazione di Olwë, che alzò le spalle come a dire ''prego, tanto oramai...''.

«Ossë, non piangere, dài... Restiamo noi con te!».

Ossë, che si era seduto su un sasso nascondendo la testa fra le mani, sollevò il volto con un sorriso raggiante.

«Davvero? Restate?».

«Sì... Tu sei nostro amico! E poi in fondo che ci sarà mai di così bello a Valinor? La Luce, la beatitudine, la pace, vabbè... Ma no, noi preferiamo bivaccare in eterno su una spiaggia gelida, senza un riparo, cibandoci solo di pesce, da soli in tutto il continente... ah!, e al buio, dato che abbiamo solo 'ste quattro stelle a farci luce!» rispose allegro un Telerio.

«E va bene...» disse Ulmo, sempre più perplesso. «Allora voi da oggi vi chiamerete Falathrim, che significa ''Elfi delle Falas e Contenti Voi Contenti Tutti''. Adesso possiamo per favore partire? A Valinor vi aspettano, e dubito che siano disposti a pazientare ancora per molto...».

Olwë sospirò e diede un'occhiata al suo popolo. Fra Eglath e Falathrim ne aveva perso un bel pezzo, ma in quel momento non se ne preoccupava molto. Voleva solo partire, non gli importava di quanta gente che avrebbe lasciato nel Beleriand (Olwë, stai diventando egoista ed odioso come tuo fratello, stai attento e sappi che ci metto cinque minuti a rovinarti il personaggio per sempre. N.d.A) (Ma è colpa di Elwë se sto peggiorando così, mi ha rovinato la vita e il carattere e tu lo sai. N.d.Olwë) (Vedi? Già cominci ad addossare le colpe agli altri... Andiamo male, malissimo! N.d.A.).

 

Accadde così che i Teleri cominciassero finalmente, in ritardo di millantamila anni, la traversata verso Occidente. La giornata era serena e l'umore generale era disteso, ed Olwë si stava finalmente godendo un momento di relax, pregustando la pace delle Terre Beate (povero illuso. N.d.A). I Teleri erano felicissimi: avevano raggiunto la Baia di Eldamar ed erano già in vista delle Montagne di Aman - stavolta prive di sculture di piedi – , quando una voce risuonò alle loro spalle.

«Amici! Amici, fermatevi!» gridò Olwë, nuotando a tutta velocità dietro di loro.

Nello scorgere la famigliare faccia barbuta emergere dal mare, i Teleri furono invasi da preoccupazione.

«Oddio, e questo che vuole ora?».

«Non lo so, ma ha detto ''fermatevi'' ed io non voglio fermarmi!» strillò Olwë, improvvisamente isterico. «Ulmo, per carità, accelera!».

Ulmo ci pensò un attimo: era meglio realizzare il desiderio del fedele Ossë e fermarsi, oppure dare retta al consiglio urlato di Olwë ed accelerare?

«Amici Teleri, per favore, fermi! Voglio solo fare una foto d'addio...!» piagnucolò il Maia.

«Ti prego, ti prego, accelera o non ce lo togliamo più di torno!» ululò Olwë.

Ulmo decise di assecondare l'Elfo e tirò in avanti la leva che regolava l'accelerazione dell'isola-traghetto. Quest'ultima ebbe un sussulto, emise un rumore di ferraglie stridenti e si arrestò di colpo. Ulmo rimase con la leva in mano, pietrificato. Sarebbe bastata una sola parola, «IKEA» per spiegare la situazione, ma nessuno la pronunciò.

«Sapevo che vi sareste fermati» esclamò radioso Ossë, raggiungendoli. «Adesso potrò venire a trovarvi su quest'isola ogni volta che vorrò!» gongolò.

Ulmo non ebbe il coraggio di contraddirlo. I Teleri avevano l'aria disperata di chi avrebbe accettato anche l'apocalisse immediata senza la minima obiezione. Olwë se ne stava in piedi, rigido come un nano da giardino, e guardava le ormai vicinissime terre di Aman con il cuore a pezzi. Solo il suo alto lignaggio gli impedì di piangere di fronte a tutti... Sentiva comunque che da quel giorno avrebbe odiato Ossë e il suo affetto fuori luogo. .

 

L'isola non fu mai più rimossa e rimase là, sola, nella Baia di Eldamar; e fu chiamata Tol Eressëa, l'Isola Solitaria (tutte le cose che riguardano i Teleri hanno nomi allegrissimi: il popolo abbandonato, l'isola solitaria... N.d.A.). Lì i Teleri dimorarono come desideravano sotto le stelle del cielo, e tuttavia in vista di Aman e della riva immortale; e questo lungo soggiornare appartati nell'Isola Solitaria causò la separazione della loro lingua da quella che parlano i Vanyar e i Noldor (tanto per cominciare i Noldor parlano in Noldorin e i Vanyar in Vanyarin... E poi me lo voglio proprio godere questo primo incontro fra gli Elfi di Aman ed i Teleri analfabeti e balbettanti! N.d.A.).

 

Nello stesso momento, nel Beleriand, alte voci risuonavano fra gli alberi.

«Elwëëëë! Elwë!».

«Dove sei, Elwë? Rispondi!».

«Elwë Thingol, Cappuccetto Grigio, esci fuori! Elwë».

Fedeli al loro giuramento, gli Eglath si erano messi sulle tracce dell'odioso fratello di Olwë. Nonostante il mistero che aveva circondato la sua sparizione, una cosa era certa: quel citrullo era troppo pigro e troppo sprovvisto di orientamento per essersi allontanato oltre il bosco di Nan Elmoth. Fu dunque lì che i suoi inseguitori concentrarono le ricerche.

Prevedibilmente, Elwë si trovava proprio in mezzo al bosco, intento a rubare le ghiande dalla dispensa invernale di uno scoiattolino: ce l'aveva con gli scoiattoli da quando uno di loro aveva osato deridere i suoi capelli.

«Tesoro, credo che qualcuno ti stia chiamando» disse Melian, che era invece impegnata a masticare chewing-gum e a limarsi le unghia - e quindi non era affatto impegnata.

Elwë drizzò le orecchie, sorpreso ed incredulo.

«Elwë, per favore, rispondi!» sentì gridare. Il cuore gli balzò in gola.

Allora non l'avevano abbandonato... Allora era importante per il suo popolo, erano rimasti a cercarlo!

«Melian! Hai sentito? I miei compagni Teleri sono tornati a cercami!» esclamò, la voce colma di emozione.

«Vuoi andare da loro?» gli chiese la Maia.

Elwë aprì la bocca per risponderle, ma non disse nulla. La tentazione di riabbracciare i suoi amici era forte, soprattutto ora che si stavano dimostrando così affezionati... Ma se fosse uscito da quel bosco, Melian...

«Se vuoi riunirti al tuo popolo, io verrò con te, Elwë» disse Melian. L'Elfo le rivolse uno sguardo carico d'amore e di gratitudine ('sti due si amano davvero... Non li capisco. Non capisco Melian, più che altro... N.d.A).

Felice di aver salvato capra e cavoli, Elwë fece per uscire dalla radura, camminando a grandi passi impazienti, ma proprio in quel momento il gruppetto degli Eglath emerse dagli alberi. Si accorsero subito di Elwë e Melian e li guardarono in silenzio, indecisi sul da farsi.

«S... salve!» disse infine Elwë, con un gran sorriso.

«Salve a te, straniero» rispose cortese uno degli Eglath. «Ma questo chi è? Credevo che fossimo gli ultimi Elfi rimasti sulla Terra di Mezzo...» chiese sottovoce ad un compagno, che scosse le spalle perplesso. Elwë sgranò gli occhi.

«Straniero?» ripeté, deluso. «Ma... Teleri, non mi riconoscete? Sono io, Elwë Thingol, il vostro principe!» esclamò, tornando a sorridere. Forse il tempo aveva indebolito i ricordi della sua gente, e forse era per questo che non l'avevano riconosciuto subito... Di certo ora gli sarebbero corsi incontro gioiosi e commossi di averlo finalmente ritrovato...

Gli Eglath scoppiarono a ridere sguaiatamente in coro. Melian guardò Elwë, che la guardò di rimando, senza capire. Alla fine uno degli Elfi, trattenendo a malapena le risate, disse: «Non essere ridicolo, fratello! Ci ricordiamo benissimo della faccia da schiaffi di Elwë, non gli assomigli affatto! Non hai neanche i capelli color topo come lui, era l'unico ad averli così!» e alla menzione della capigliatura di Elwë gli Eglath scoppiarono a ridere nuovamente, piegandosi in due.

«Ma... Ma...» balbettò Elwë, basito.

Due domande gli affollavano la testa, e stavano larghissime data la vacuità della testa di Elwë: uno; perché quegli Elfi parlavano di lui in toni tanto offensivi? E due... com'era mai possibile che non assomigliasse a se stesso?

Entrambe le domande sarebbero sicuramente rimaste senza risposta se Melian non fosse accorsa in aiuto dell'ottuso marito: «Tesoro, ti ho mai parlato della Proprietà Intransitiva della Beata Strafigaggine?» chiese.

Elwë, ancora assorto, si voltò verso di lei con aria smarrita.

«No, mai» rispose.

«Beh, la Proprietà Intransitiva della Beata Strafigaggine è un potere magico dei Maiar» spiegò lei. «Consiste nel fatto che se un Maia trascorre molto tempo con una creatura di rango inferiore come un Elfo (Melian, non è che tutti gli Elfi siano inferiori come tuo marito, eh. N.d.A) gli trasmette un po' della sua figaggine leggendaria. Nel tuo caso... Beh, sei meno brutto, e più alto».

Elwë, allibito da quella rivelazione, si affrettò a controllare la propria altezza: in tutti quei secoli di convivenza con Melian non ci aveva mai fatto caso.

«Ma... e quindi anche....?».

«Sì, anche i capelli. Ti sono diventati argentati!» concluse Melian, chiaramente soddisfatta degli effetti della Proprietà Intransitiva della Beata Strafigaggine su quello sgorbio di suo marito. Essere una Maia dava tante soddisfazioni, dopotutto.

Elwë non riusciva a parlare. Il sogno di una vita intera... Sbarazzarsi dei suoi capelli color topo... Incredulo, si prese una ciocca fra le dita e la osservò: erano argentati! Nessuna traccia di grigiume!

Quella vista gli fece mancare il fiato e quasi gli fermò il cuore. Si voltò verso Melian, ed ancora una volta la guardò con una gratitudine al di là di ogni parola (ok, io tralascio il fatto che Elwë non si accorge neanche dei capelli che gli cambiano colore... Però ho un dubbio: questa influenza benefica dei Maiar sugli Elfi funziona un po' come i morsi dei vampirla in Twilight? Se un vampirla ti morde diventi un pezzo di figo stratosferico anche se prima eri una cozza indicibile... È la stessa dinamica, no? Professore! N.d.A.) (Signorina, la mia coscienza è pulita: il fenomeno da lei descritto è una sua personale invenzione, nella quale io non ho alcuna responsabilità. N.d.MaestroTolkien) (No Professore, mi duole contraddirla ma 'sta cazzata l'ha proprio partorita lei. Pagina 85: ''...i capelli grigi come l'argento, e di statura superiore a quella di tutti i Figli d'Iluvátar...''. N.d.A) (… .N.d.MaestroTolkien).

Gli Eglath, ancora scossi dalle risate, non si erano accorti di questa conversazione. Quando si furono riscossi dalla loro ilarità, Elwë si rivolse loro: «Ditemi, perché state cercando il principe minore dei Teleri?».

Essi gli risposero: «Perché abbiamo prestato giuramento presso il Re Olwë, e non conosceremo pace fino a che non avremo ritrovato suo fratello».

Il petto di Elwë si gonfiò di felicità.

«E quando lo avremo trovato gli infliggeremo tante legnate quante se ne è meritato con la sua stolta esistenza» conclusero gli Eglath. La solennità con cui parlavano lasciava intendere che avevano preso molto sul serio la loro missione.

Elwë credeva che la terra si stesse sbriciolando sotto i suoi piedi, ma forse era semplicemente il suo cuore a sbriciolarsi (precisiamo che queste sono frasi di Elwë e che io non sono responsabile per le vaccate che dice o che pensa. N.d.A). Stava per abbandonarsi ad uno sfogo disperato, urlando tutta la sua rabbia e la sua delusione agli Elfi, ma Melian lo fermò in tempo.

«E voi e il vostro Re avete ragione a desiderare la persecuzione di Elwë Thingol, essendo egli un Elfo sciocco e davvero miserevole» disse in tono fermo, sotto lo sguardo scandalizzato di Elwë. «L'Elfo che mi sta a fianco e che è il mio sposo si chiama infatti Welwë Mantogrigio: grande è il suo valore, e mai vorrebbe che lo si confondesse con l'ignobile fratello di Olwë, che da sempre è conosciuto come Cappuccetto Grigio».

Gli Eglath rimasero molto colpiti dal discorso di Melian - ma soprattutto rimasero colpiti da Melian, la cui divina bellezza di Maia li incantò: ella pareva infatti Monica Bellucci, sebbene più giovane e più abile nella recitazione.

«E dunque se tu lo permetterai resteremo con te e con il nobile Welwë in questi boschi, giacché non desideriamo abitare da soli nella vasta Terra di Mezzo» disse in tono ossequioso uno degli Eglath. Gli altri annuirono e si inchinarono con riverenza.

Melian, soddisfattissima di aver rigirato la frittata così magistralmente, si voltò non vista verso Elwë e gli strizzò l'occhio, facendo per battergli il cinque. Elwë parve offeso, ma un istante dopo scrollò le spalle e batté il cinque alla sua sposa: meglio la farsa di Welwë Mantogrigio che le legnate interminabili che altrimenti l'avrebbero aspettato...

 

Welwë Mantogrigio divenne un re famoso e il suo popolo fu l'insieme di tutti gli Eldar del Beleriand; Sindar erano detti, gli Elfi Grigi Ma Non Troppo, gli Elfi del Crepuscolo (e di nuovo con i nomi allegri... Che poi ''crepuscolo'' = ''twilight''! Professore, vede che le mie supposizioni di poco fa erano corrette? N.d.A.) (In tutta onestà non saprei cosa dirle... Però se non altro i miei personaggi hanno il buongusto di non luccicare al sole. N.d.MaestroTolkien) (Non è vero, Galadriel lo fa. E anche Lúthien, credo... N.d.A.).

 

Così accadeva che Elwë rimanesse a vivere nella Terra di Mezzo, e che Olwë con i Teleri restasse suo malgrado sull'isola di Tol Eressëa, con la non richiesta compagnia fissa di Ossë. Ulmo aveva infatti ancorato l'isola al fondo del mare (o meglio, non c'era più stato modo di farla ripartire) e se ne era lavato le mani, salutando i Teleri e scomparendo nell'Oceano.

 

I Valar furono ben poco soddisfatti di apprendere ciò che aveva fatto, e Finwë si addolorò quando i Teleri non giunsero, e ancora più quando capì che avrebbe dovuto trovare un altro modo per risolvere quello strazio delle tubature che perdevano. Il più addolorato di tutti fu tuttavia Aulë, che fu costretto dal governo e dal popolo congiunti a riparare casa per casa tutti gli impianti idraulici, pena la lapidazione. Aulë, per altro, soffriva da sempre di reumatismi cronici ed il lungo lavoro fra tubi e idranti ne compromise per sempre la salute.

 

Ai Vanyar e ai Noldor i Valar avevano dato una terra ed una dimora. Ma persino tra i fiori radiosi dei giardini di Valinor illuminati dagli Alberi essi talvolta desideravano vedere ancora le stelle (piccoli bastardi incontentabili. N.d.Manwë) (Più che altro apprezzo l'acume di Varda, che ha sospeso le stelle solamente sopra la Terra di Mezzo e non sopra Valinor, costringendo me e il Professore a contorti artifizi narrativi pur di fare rivedere le stelle agli Elfi. N.d.A) (Smentisco: io me ne sono uscito semplicemente con «fu aperta una breccia nelle grandi muraglie dei Pelóri» e tanti saluti. N.d.MaestroTolkien).

Un dì alcuni Noldor particolarmente versati per le arti pirotecniche (i talenti dei Noldor: le esplosioni, l'industria bellica, i gioielli maledetti... N.d.A.) si stavano esercitando su una collina. In loro compagnia c'era anche un gioviale vecchietto dalle origini non troppo chiare chiamato Olórin, ma che da tutti era conosciuto come Gandalf.

«Allora ragazzi» disse l'anziano signore, dando una grande boccata alla sua pipa «al mio tre sparate, d'accordo?».

«Gandalf, sei sicuro che questo sia proprio il posto giusto per provare i tuoi nuovi fuochi d'artificio a forma di drago?» domandò un Noldo, non molto convinto.

«Sciocco di un Tuc!» sbraitò Gandalf irato, ma nessuno dei Noldor capì con chi ce l'avesse - e non si posero nemmeno il problema, abituati com'erano alle affermazioni incomprensibili di Re Finwë. Il vecchietto afferrò una miccia collegata ad un colossale razzo e le diede fuoco.

Un gigantesco drago di folgore esplose sulla collina e si lanciò diritto verso la montagna davanti a lui. Ci fu un boato terrificante e quando i Noldor riaprirono gli occhi e si stapparono le orecchie videro un'enorme breccia nel fianco della sacra Montagna di Aman.

«Cazzo, i Pelóri no... Quelli ci tengono un sacco!» esclamò preoccupatissimo un Noldo. L'attaccamento dei Valar alla loro catena montuosa personale era famosissimo presso tutti gli abitanti di Aman.

«Gandalf! È stata una tua idea!» disse infuriato un altro Noldo. Il vecchio dinamitardo era tuttavia occupato a riporre il proprio sacchetto di erba-pipa al sicuro: nel suo caso il sacchetto era stato sostituito da un più capiente borsone. Canticchiava canzoni in lingue ignote e faceva anelli di fumo a forma di dodecagono (mi rendo conto che l'espressione ''anello a forma di dodecagono'' non abbia alcun senso, ma neanche Gandalf ne ha molto. N.d.A).

I Noldor si stavano consultando sul disastro ambientale appena provocato, quando udirono un sibilo nell'aria. Il fischio si fece sempre più intenso, e all'improvviso qualcosa attraversò sfrecciando la breccia nei Pelóri.

«Via, via, via!» urlò un Noldo. Fecero appena in tempo a disperdersi quando un enorme tonno atterrò con uno schianto al centro della radura.

«Credo che i Teleri non abbiano gradito il drago... e nemmeno l'esplosione e la frana» considerò un Noldo, benché perplesso. In effetti Tol Eressëa si trovava proprio al di là della catena montuosa, per cui era probabile che i giochi pirotecnici di Gandalf, oltre ad aprire un cratere nella montagna, avessero anche fatto precipitare tonnellate di roccia addosso agli abitanti dell'Isola Solitaria.

Un po' meno comprensibile era che questi ultimi avessero manifestato la loro collera catapultando tonni su Valinor, ma tutto sommato era una rappresaglia adeguata allo stile dei Teleri.

 

...Così fu aperta una breccia nelle grandi muraglie dei Pelóri, e là, nella profonda vallata che scendeva verso il mare, gli Eldar innalzarono un alto colle verde: Túna, lo chiamarono, in onore del tonno che vi era precipitato (''tuna'' significa ''tonno'' in inglese e l'immagine degli Elfi che abitano sulla schiena di un tonno mi ha sempre fatto ridere moltissimo. N.d.A.). Da ovest la luce degli Alberi cadeva su di essa e la sua ombra si proiettava sempre verso est; e a est dava sulla Baia della Casa degli Elfi, sull'Isola Solitaria e sui Mari Ombrosi (panorami felicissimi. Era quasi meglio se dava direttamente sul Monte Fato. N.d.A). Poi, attraverso il Calacirya, il Passo di Luce, si riversava lo splendore del Paese Beato accendendo d'oro e d'argento le onde scure, lambendo l'Isola Solitaria la cui riva occidentale diveniva verde e chiara, con grande gioia dei Teleri della zona orientale che avrebbero gradito almeno un po' di luce e invece si sono beccati l'ombra e il freddo... e pure Ossë.

Sulla cresta del TúnaTonno venne costruita la città degli Elfi, le mura e i contrafforti bianchi di Tirion: ovviamente fece tutto Aulë come al solito, dato che quei radical chic degli Elfi non mossero un dito. La la più alta delle sue torri era la Torre di Ingwë, Mindon Eldaliéva, anche se questo fu sempre un mistero per tutti, data l'inutilità sociale di Ingwë. Egli, pur non avendo alcuna rilevanza ai fini della storia, fu proclamato Re Supremo degli Eldar.

«È un mistero anche per me, non ve lo nascondo», sospirò Ingwë.

A Tirion sopra il Tonno i Vanyar e i Noldor vissero a lungo insieme, e di tutte le cose di Valinor essi amavano sopratutto l'Albero Bianco...

«Vi piace? Ve ne faccio un altro uguale!» esclamò un giorno Yavanna, felice di potersi rendere utile. Le sue buone intenzioni vennero però guastate dalla sua grande incapacità: creò sì una copia di Telperion, ma fu veramente una pessima copia. Non emetteva luce, perdeva pezzi e puzzava anche un po' di colla.

I Vanyar e i Noldor finsero tuttavia di apprezzare il dono, anche se i Noldor fallirono miseramente nel tentativo di dissimulare il disgusto. Chiamarono quel brutto albero Galathilion, che in Quenya significa ''Ora ci tocca tenerci 'sto aborto per sempre o Yavanna si offende a morte''. Galathilion venne piantato nelle corti sottostanti la Mindon e il lavoro fu affidato ai Noldor, con la speranza che essi lo piantassero così sgarbatamente da renderlo incapace di riprodursi. Disgraziatamente invece l'albero fiorì, con grande disappunto di tutti, e ad Eldamar i suoi polloni furono numerosi.

Per Natale i Noldor regalarono un germoglio di Galathilion anche ai Teleri, che accettarono quel dono con riluttanza e non riuscirono mai a rigirarlo ai parenti. Fu piantato su Tol Eressëa, dove prosperò e venne chiamato Celeborn...

«La sua fantasia in fatto di onomastica mi sgomenta, Professore» disse acido Celeborn, quello di Lothlórien. Il fatto di essere stato chiamato come l'orrido albero dei Teleri non lo rendeva affatto felice.

«Quante storie... È un nome nobile ed antico, dovresti apprezzare» ribatté imbronciato il professor Tolkien.

«Apprezzare? Come no! Lei, Professore, si ricorda che si è preso la briga di inventare una dozzina di dialetti elfici, vero? Quenya, Noldorin, Vanyarin, Telerin, Sindarin...».

«Sì... Piccoli divertimenti perversi da filologi, lo ammetto. Ma che c'entra?».

«C'entra, perché in Sindarin ''Celeborn'' si dice ''TELEPORNO''! Le sembro un canale a luci rosse, Tolkien?!» urlò furioso Celeborn.

Il Professore arrossì fino alle orecchie e si affrettò ad allontanarsi, borbottando qualcosa sulle rotazioni consonantiche e sulle isoglosse del Sindarin (qua mi sono concessa un paio di chicche che solo i linguisti e i filologi fra i lettori potranno apprezzare appieno. Gli altri si ritengano fortunati in quanto scampati ad un destino atroce... N.d.A).

Altri semi dell'Albero Bianco vennero piantati in giro per il mondo. Ciò che né Yavanna né gli Elfi né nessun altro ad Aman poteva sapere era che Galathilion ed i suoi germogli, oltre ad essere bruttissimi ed inutili, portavano con sé una maledizione spaventosa: spandevano infatti tutt'intorno una tale sfiga da condurre alla rovina sicura gli sfortunati proprietari.

Si vedano, al riguardo, i catastrofici destini di Aman (devastata da Melkor di lì a breve, Alberi compresi); dei Teleri (Fëanor che arriva e taglia la testa a tutti ad Alqualondë); di Númenor (disintegrata da un'Alabarda Spaziale di Iluvátar e sprofondata nell'oceano) e soprattutto di Gondor (Aragorn... e ho detto tutto). In seguito a queste vicende, oggi gli Elfi e gli Uomini sono molto timorosi del potere funesto dell'Albero Bianco, e rabbrividiscono ogniqualvolta scorgono qualcosa che gli assomigli, anche un innocente giglio.

 

Manwë e Varda prediligevano i Vanyar, gli Elfi Chiari, ed odiavano i Noldor che erano troppo al di sopra delle loro capacità intellettive; i Noldor però erano cari ad Aulë, ed egli e il suo popolo si recavano spesso tra loro.

«Ignoro quale sia il popolo di Aulë qui citato, spero solo non si tratti dei Nani...», disse il Professore.

Grande divenne la sapienza e l'abilità dei Noldor; ma ancora maggiore fu la loro sete di conoscenze nuove ed in molte cose superarono ben presto i propri maestri. Operavano mutamenti linguistici giacché per le parole nutrivano una vera passione (oh... mi sento molto Noldo! N.d.A.), ed erano sempre alla ricerca dei nomi più adatti per tutte le cose che conoscevano o che immaginavano.

«Ehi, Ingwë! Qu'est-ce qu'it is what sinä sie gehen chomh tapaidh?».

«EH?».

«Ciupa!».

«Ehi, Yavanna! Cofomefe lafa vafa ofoggifi?».

«Ehi, Manwë! Vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, trentatrè trentini entrarono a Trento tutti e trentatrè trotterellando, al pozzo dei pazzi una pazza lavava le pezze, andò un pazzo e buttò la pazza con tutte le pezze nel pozzo dei pazzi... li vuoi quei kiwi? Filastrocca sciogligrovigli con la lingua ti ci impigli ma poi te la sgrovigli basta che non te la pigli».

Scambi di battute come questi, che spesso costarono quasi l'esilio a Finwë ed alla sua razza di linguisti mentalmente deviati, erano fra i passatempi più amati dai Noldor.

 

E accadde che i muratori della casa di Finwë, cavando pietre tra le colline (poichè essi si dilettavano a costruire alte torri), scoprissero per primi le gemme della terra e le estraessero in quantità innumerevoli.

«Sire, sire! Guarda cosa abbiamo trovato!» gridò un giorno un Noldo operaio (ah, siete organizzati come le api? Noldo operaio, Noldo soldato, Noldo regina... Dormite anche nelle cellette? N.d.A.) correndo verso Finwë. Quest'ultimo stava supervisionando la costruzione di una torre in compagnia di Míriel, sempre più in dolce attesa. Si voltò verso l'operaio e rimase abbagliato dalle gemme splendenti, magnificamente colorate, che quest'ultimo portava in mano.

«Poffarbacco» disse Finwë, affascinato.

«Ahi!» gridò Míriel.

«Che succede?»

«Il bambino... Mi ha tirato un calcio!».

«Al principino piacciono le gemme, Signora?» chiese cortese l'operaio.

Míriel si incupì senza sapere ancora perchè...

 

Va qui narrato di come i Teleri giunsero alla fine nella terra di Aman.

«Buongiorno, amici! Magnifica giornata, vero?» esclamò un giorno Ossë sorgendo dall'acqua davanti a Tol Eressëa.

«Cia' »bofonchiò abbattuto Olwë. Lui ed i Teleri se ne stavano sulla spiaggia, mogi mogi e con un broncio che arrivava al terreno.

Maia di grande acume, Ossë domandò: «Che vi prende?».

«Ossë, per carità, risparmiaci almeno il teatrino... È da secoli che ce ne stiamo su quest'isola a girarci i pollici. Non desideriamo altro che andare ad Aman, ma ormai... Dovremmo rassegnarci e basta». Olwë era davvero tristissimo. Ragionando a lungo sulla sua esistenza, si rese conto che tre quarti del suo tempo li aveva trascorsi ad aspettare, e che lui e il suo popolo erano gli unici Elfi a non avere ancora messo piede sulle Terre Beate. Eppure erano così vicini!

L'isolamento era già abbastanza deprimente, ma a peggiorare le situazione erano intervenuti come al solito i Noldor: essi si dilettavano infatti ad inviare messaggi di luce tramite il faro di Tirion. Il messaggio più recente che i Teleri avevano ricevuto da Aman diceva: «Ciao, mattacchioni! Abbiamo inventato uno nuovo nome per il vostro popolo: ''CheBarbaCheNoia!''. Baci da Tirion».

La vita si stava rivelando davvero un fardello pesante per Olwë e la sua gente. Da quando erano stati costretti ad abitare su Tol Eressëa Ossë era diventato ancora più morboso: li andava a trovare cinque volte al giorno e li stordiva di chiacchere fastidiose ed assolutamente non richieste.

Molte volte i Teleri avevano tentato di costruire delle zattere per attraversare il breve braccio di mare che li separava da Aman, ma erano pessimi artigiani e le loro imbarcazioni si rompevano sempre e colavano a picco. Come se non bastasse, ogni volta che Ossë sospettava che gli Elfi stessero per lasciare l'Isola, abusava dei suoi poteri di vassallo del mare e scatenava violente tempeste, costringendoli a restare.

Vivere era ormai un incubo ad occhi aperti per i Teleri (poveri, in fondo provo solidarietà per loro. Anche io sono relegata su un'isola che odio con tutto il cuore... N.d.A). La speranza li aveva abbandonati da tempo, così quasi non credettero alle parole di Ossë quando egli parlò loro.

«Beh... Dovreste rallegrarvi, allora. Ho qui un documento ufficiale da Manwë, dice che vi devo portare subito a Valinor».

«Risparmiaci almeno gli scherzi se ci vuoi un po' di bene, Ossë...».

«Vi garantisco che non sto scherzando!» ribattè il Maia. Era diviso fra sentimenti contrastanti: questa volta avrebbe dovuto salutare i Teleri per sempre, e la cosa lo addolorava moltissimo. Tuttavia non si sarebbe mai sognato di disobbedire ad un ordine di Manwë: era pur sempre un Maia, e la cieca obbedienza al potere faceva parte della sua stessa natura.

Così, sebbene increduli e scoraggiatissimi, i Teleri diedero fede alle parole di Ossë.

«D'accordo, ti credo, ma come pensi che potremo raggiungere Valinor?» domandò Olwë. «Quest'isola da due soldi non si muove più, e noi non siamo capisci di costruire qualcosa che non vada a fondo dopo trenta secondi...».

«Ho pensato anche a questo» rispose il Maia. Sollevò il braccio sopra il mare e subito apparvero moltissimi grandi volatili bianchi.

«Quack!» dissero.

«Papere?» chiese Olwë, sgomento.

«Sono cigni! Non si vede?».

«Onestamente no... A me sembrano proprio papere».

«Ah, diamine, nessuno vi leggeva le favole da piccoli? Diventeranno dei cigni stupendi!» sbottò il Maia, ferito nell'orgoglio. Detto ciò balzò in groppa ad una papera, che protestò irritata, e le si aggrappò saldamente.

«Fate come me!» esclamò. I Teleri, la cui volontà era ormai ridotta ad una tabula rasa, scrollarono le spalle e fecero come Ossë diceva loro.

 

E i cigni trassero i Teleri sul mare senza vento; e così in ultimo e da ultimi (eh vabbè, ma che bisogno c'è di infierire? N.d.I Teleri) essi giunsero ad Aman e alle sponde di Eldamar.

«Ehilà, mattacchioni! Ce l'avete fatta!» dissero i Noldor vedendo giungere Olwë e la sua gente dal mare.

«Però... Sapevo che avevate una perversione per l'acqua, ma addirittura arrivare a dorso di papera...» ghignò un Noldo.

«Sono... cigni» disse altezzosamente Olwë, ignorando la frecciata.

Lì ad Aman essi dimorarono, e se lo desideravano potevano vedere la luce degli Alberi, calpestare le strade dorate di Valmar e calcare le scalee di Tirion sul Túna, il verde colle del tonno; ma soprattutto essi solcavano, con le loro navi veloci (quali navi, visto che non siete capaci di tirare su nemmeno un castello di sabbia? N.d.A.) le acque della Baia della Casa degli Elfi; oppure camminavano nelle onde sulla battigia, con i capelli scintillanti alla luce che promanava da oltre il colle.

Molti gioielli diedero loro i Noldor, opali, diamanti e cristalli pallidi...

«Ho una bruttissima sensazione. Me ne pentirò subito, lo so, lo sento, lo avverto...» disse Finwë fra sè e sè guardando Olwë che si allontanava con un gran cesto di gemme fra le braccia, tutto sorridente.

...ed essi li spasero sulle rive e li disseminarono negli specchi d'acqua.

«L'avevo detto! Che, non l'avevo detto?! Lo sapevo! Me lo sentivo, proprio! Sono deficienti, io lo dico da sempre che i Teleri sono tutti degli IRRIMEDIABILI DEFICIENTI, porco Melkor, porco Manwë, ah Varda Elentári, io gli do le gemme e quelli le buttano in acqu - UN ICTUS! Sarò il primo Elfo a crepare di ictus...!».

E molte perle essi strapparono al mare, e le loro aule erano di perla, e non poteva essere altrimenti: essi sapevano che se si fossero presentati ancora a Finwë richiedendo altri gioielli sarebbero andati incontro a morte sicura; e di perla le dimore di Olwë ad Alqualondë, il Porto dei Cigni (delle Papere. N.d.A.), illuminato da molte lampade.

Quella infatti era la loro città (bella città... è tutta di perla? Se arriva uno con una boccetta di aceto vi si squaglia tutto in dieci minuti, ne siete consapevoli? N.d.A.) e la darsena delle loro navi, le quali erano fatte a guisa di cigni (...dovreste farvene una ragione ed accettarci per ciò che siamo, sarebbe molto maturo da parte vostra. N.d.Papere), con becchi d'oro ed occhi di ambra nera.

«Non so dove questi stolti si siano procurati l'oro e l'ambra, io di sicuro non glieli ho dati», precisò Finwë.

 

Con il trascorrere delle ere, i Vanyar giunsero ad amare la terra dei Valar e la luce piena degli Alberi, e abbandonarono la città di Tirion sul Tonno per abitare di in poi sulla montagna di Manwë, e così si separarono dai Noldor, che non soffrirono affatto della separazione, anzi. Finwë regnava a Tirion e Olwë ad Alqualondë, ma Ingwë era sempre considerato il Re Supremo di tutti gli Elfi, per motivi ignoti a chiunque, Professore compreso. Ed egli abitava quindi ai piedi di Manwë sul Taniquetil, ed il suo popolo dovette sopportare grandi fetori, dato che i piedi di Manwë non erano proprio un bel posto presso cui abitare.

 

Il capitolo si conclude qui: so di aver elegantemente glissato sulle stirpi dei Noldor, ma l'ho fatto solo perchè intendo dedicare loro una gustosa appendice (no, che schifo... L'appendice di chi? N.d.Noldor) quanto prima.

 

***

Note:

 

(*) «Vitti 'na crozza supra nu cannuni, e cu sta crozza mi misi a parra-aari...» = Canzone tipica siciliana, intitolata “Vitti 'na crozza”, “Ho visto un teschio”. Parla di un tizio che fa amabile conversazione con un teschio poggiato su un cannone, non fatemi domande sulla logica di tutto ciò perché non saprei cosa rispondervi.

(**) «Eeeeh, ma vui siti cristianu ranni, io sugnu carusu e va'a purtari rispettu!»= affermazione plausibilmente utilizzabile anche in contesti reali. Chi parla pone in risalto la propria condizione gerarchicamente subordinata («sugno carusu», «sono solo un ragazzino») e di contro sottolinea l'importanza dell'interlocutore («vui siti cristianu ranni», «lei è una persona di una certa età»).

 

Post Scriptum:

 

Buongiorno a tutti voi, lettori e lettrici!

Mi metto nei vostri panni: l'arrivo di questo capitolo deve avervi sorpreso come lo sbarco degli alieni sul terrazzo di casa.

Credetemi, io sono molto più sorpresa di voi. In questi tre anni ed otto mesi ho ricevuto tanti solleciti a continuare la parodia. Ora posso dire che se non l'ho continuata per tutto questo tempo non è stato né per mancanza di tempo né per pigrizia. La motivazione è molto più semplice, anche se meno credibile: non riuscivo a tirare fuori una singola, buona idea. Qua sotto vi allego le foto di tutte le pagine che ho scritto e cancellato in questi anni nel tentativo di scrivere un capitolo che sembrava non dover mai uscire dalla mia penna.

Le ventiquattro pagine che avete appena letto sono il frutto di... una decina di giorni di lavoro. Un paio di settimane fa me ne sono andata con la mia copia del Silmarillion e il bloc-notes nel(l'unico) parco della mia non troppo amata città e nel giro di due ore lo schema del capitolo era bello che finito. Mi è sembrato un miracolo.

Non so perché non sono riuscita a scrivere un accidenti dal 2007 ad ora. Se però adesso sono uscita dal tunnel del nulla letterario, ne sono felice. Questo per me è un periodo molto, molto creativo e mi sono resa conto che non c'è nulla che mi faccia sentire bene come creare. Sarà che la mia vita si è improvvisamente svuotata di tutto, e che nel vuoto totale ho ritrovato me stessa, i miei talenti, la mia fantasia. Sono sicura che non mi capiterà più di non scrivere per quasi quattro anni.

Non so quando leggerai questo capitolo: spero non ti sia passata del tutto la voglia di controllare i miei aggiornamenti di tanto in tanto. Mi auguro che lo leggerai presto e che ti faccia divertire almeno come ha fatto divertire me!

 

Alla prossima,

Mary

 

http://img199.imageshack.us/img199/1857/dis3k.jpg

http://img844.imageshack.us/img844/7501/dis2c.jpg

http://img526.imageshack.us/img526/2264/dis1r.jpg

 

Vi rimando anche al blog, così chiacchieriamo: http://deignotosilmarillion.splinder.com/

Edit: ho tolto un po' di N.d.A e parentesi varie, dato che infastidivano la vostra lettura e in verità anche la mia...
   
 
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