Fictional Dream © 2006 (26 ottobre 2006)
I L’Arc~en~ciel (nella prima formazione major, Tetsuya Ogawa,
Ken Kitamura, Hideto Takarai e Yasunori Sakurazawa, poi Yukihiro Awaji in luogo
di quest’ultimo) sono uno dei più celebri gruppi di musica rock-pop giapponese.
L’autrice non intrattiene con i succitati artisti alcuna
relazione di tipo economico-collaborativo.
Questo testo narra eventi di pura fantasia, destinati al
diletto ed all’intrattenimento di altri fans: non persegue alcun intento
diffamatorio (né pretende di dare informazioni veritiere sulle persone di cui
tratta) o finalità lucrativa.
Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla
personalità degli artisti succitati si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright
dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa
altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
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Una delle condizioni fondamentali per vivere la vita senza
paura – per illudersi anzi esista un tempo solo, e quello sia sempre un futuro
migliore delle ore che hai davanti – è costruirsi una fitta rete di omissioni e
studiati inganni della memoria, funzionali a eludere le consapevolezze peggiori.
Tetsuya Ogawa ne era consapevole, perché non vedi il tuo
gruppo precipitare nel baratro, salvo resuscitarlo e farne un’icona mondiale, se
non hai la disciplina interiore del samurai e dello stronzo. Anche quello,
certo, perché fare il leader implica piegare la propria coscienza a una serie di
compromessi in cui la pietà non è sempre contemplata.
tetsu conosceva pure la legge non scritta per cui i vincenti,
quelli che vanno avanti malgrado tutto, non si fermano a piangersi addosso e
anzi stringono i pugni e procedono a brutto muso, sono pure quelli che alla
fine, se non è proprio vero raccolgano disprezzo, senz’altro non piacciono a
nessuno, ma aveva da tempo rinunciato a quella piccola vanità, dicendosi che
comunque non era importante. Nella massa delle voci urlanti, prima o poi, ci
sarebbe stato anche qualcuno in grado di afferrare la verità, non meno di quanto
c’era chi sapeva riconoscere la linea del basso oltre i vocalizzi della voce più
bella del Giappone e gli arpeggi di Kitamura.
tetsu si era sempre considerato più fortunato che non
competitivo, non per modestia, né per superstizione, ma perché fare il leader
implicava misurare in concreto le capacità di ciascuno e, per quanto pure si
fidasse del proprio talento e del proprio istinto, sapeva anche dove si
collocasse davvero la soglia del sogno e dell’eccellenza. Non era lontana dalla
sua portata, certo, ma non gli apparteneva. Per questo Tetsuya rammentava con
altrettanto nitore l’unico momento della propria esistenza in cui aveva temuto
davvero di veder sfumare un sogno.
Era accaduto nell’orribile primavera del novantasette,
quando, seduto sul brutto divanetto di uno studio di registrazione ormai
silenzioso e deserto, haido – che pareva poi lo specchio vivente (per quanto
fosse legittimo descriverlo in quei termini) di una simile devastazione –
gli aveva sussurrato: “Mi dispiace, Tetchan. Non me la sento più.”
E tetsu non aveva avuto bisogno di incalzarlo con domande
inopportune, per capire cosa gli dolesse e quale fosse in concreto il limite che
ora opponeva; non aveva più il coraggio di andare avanti con un gruppo che non
era solo la somma di quattro deficienti e quattro amici, ma anche di ricordi che
non avrebbe più seppellito.
E le memorie indimenticabili – soprattutto se troppo luminose
e calde – sono come l’inevitabile corruzione del fiore più bello o un cadavere
putrescente; sono un lezzo ammorbante che devasta il presente e annulla il
futuro.
Per questo, senza essere mai stato davvero in grado di
dimenticare, tetsu sapeva all’occorrenza non ricordare; era quel che
rendeva la misura della distanza profonda tra il suo cuore e quello di haido.
Era quanto spiegava perché alla fine Takarai non l’avesse abbandonato: gli aveva
offerto un guscio sterile in cui nascondersi e proteggersi proprio dal ricordo.
Di quella brutta primavera, di un’estate ch’era stata quasi
peggio ancora, di un esilio coatto, di ansie soffocate e lacrime nascoste, tetsu
ricordava alla perfezione anche qualcosa che non avrebbe mai diviso con nessuno
che fosse diverso dal ragazzo appannato di tante mattine nello specchio: la
nostalgia. Era quasi se la perfetta e solida unità del suo ego si fosse scissa
davanti all’inevitabile; c’era un Tetsuya Ogawa, leader dei Laruku, obbligato a
un ruolo pubblico e all’imposizione di una disciplina quasi militare, che non
poteva concedersi né errori, né debolezze e dunque aveva l’obbligo di potare i
rami morti, innestarne di nuovi e attendere fiori meno belli forse, ma meno
corruttibili, di quelli di un poderoso ciliegio.
Era quello che rinvigoriva le speranze dei compagni di
squadra, che allungava un complimento al momento giusto o fustigava l’orgoglio
per ottenere una reazione.
Era quella specie di comandante Gundam che non piaceva a
nessuno, ma di cui pure nessuno poteva fare a meno. Tutto in linea, insomma, con
la macchina della produzione.
Ma c’era anche un altro Tetsuya Ogawa: quello vero.
Quello che non aveva neppure trent’anni quando si era sentito
all’improvviso troppo vecchio per cominciare dal principio e che aveva visto un
amico distruggersi e poi cancellarsi dalla storia, per qualcosa che non aveva
potuto impedire.
Un ragazzo che aveva visto sostituirsi alla rabbia la
disperazione, la nostalgia e un vuoto che era costretto a inghiottire, perché
gli mancava l’egoismo di haido, dunque non avrebbe mai chiesto compassione per
sé, ben sapendo di trovarsi comunque dalla parte giusta della storia.
Era anche un tetsu molto arrabbiato, molto deluso, forse
incredulo, perché non aveva mai chiesto di fare il leader, ma erano stati gli
altri tre a volerlo così, dunque si era pure aspettato che avessero fiducia in
lui; ne avessero tanta da prenderlo in considerazione di quando in quando, non
colare a picco senza dargli neppure una chance di riafferrarli al volo.
Quello era stato il primo crimine di Yasunori Sakurazawa;
quello era anche l’unico gli avesse mai rinfacciato, nel corso di una
conversazione penosa, che non avrebbe mai sanato le ferite di nessuno. L’ultima
avessero mai avuto, per le troppe che avevano eluso. Anche quella memoria era
infissa nel suo encefalo come un radicamento tumorale; a tratti Tetsuya Ogawa si
chiedeva piuttosto come, malgrado tutto, gli fosse riuscito di andare avanti lo
stesso. Quasi bene, persino.
C’era già stato l’arresto e tanta carta vomitata
gratuitamente – quasi per il gusto di seppellire un’utopia già decomposta – che
tetsu si chiedeva pure a che pro flagellarsi con accenti ulteriori dal sapore di
disfatta, ma essere leader ed essere onesti voleva dire anche quello, forse
soprattutto quello. Oppure era anche il desiderio profondo di non dimenticare
del tutto, perché, malgrado la recrudescenza inevitabile del dolore, il filo del
ricordo l’avrebbe anche condotto in isole piene di luce.
La verità era avesse agito anche in quel contesto d’impulso,
guidato dal desiderio di proteggere il gruppo e proteggere haido, forse; haido
che non si arrendeva all’ipotesi di perdere Sakura, senza perdere al contempo la
consapevolezza d’appartenere all’arcobaleno. tetsu aveva inghiottito un solido
grumo di rancore e forse invidia persino in quel contesto, perché a ragione si
era chiesto chi contasse di più a quel punto, se chi aveva fatto di Hideto
Takarai hyde, oppure il batterista che l’aveva perso inesorabilmente. Ma come
ogni buon leader aveva tratto da parte le questioni più penose, riconoscendo che
sì, lo faceva anche e soprattutto per se stesso.
A tetsu Ogawa, nei fatti, Sakura era sempre piaciuto non meno
di quanto l’avesse affascinato quella ch’era diventata la voce del gruppo dei
suoi sogni. Probabilmente era la ragione profonda che gli aveva fatto riporre
ogni gelosia; erano belli e stavano così bene insieme, chiusi entro la
conchiglia di un’amicizia impenetrabile, che poteva pure contentarsi della luce
riflessa.
Persino s’era quella di un’agonia.
haido, con gli occhi rossi, si tormenta le unghie,
arricciato sul divanetto dello studio. Strimpella con la chitarra di Ken e
vorrebbe rimproverarlo perché gli strumenti di lavoro non sono giocattoli per la
sua vanità frustrata di chitarrista a metà. Ma poi si accorge che singhiozza in
silenzio e che ogni accordo suona come un patetico alibi per azzerare sentimenti
che gli muoiono in gola e lo strangolano senza pietà. Allora gli si siede
vicino, gli passa il braccio contro le spalle e gli pizzica appena la guancia,
come a stiracchiare un sorriso che non viene. haido si piega sulla chitarra e
singhiozza sempre più forte e a quel punto tetsu non sa più cosa fare o cosa
chiedere, ma la verità lo ama e viene da sola.
Cazzo, se viene da sola; gli arriva addosso e lo travolge.
“Sakura si buca.”
Tetsuya avrebbe voluto mentire e raccontare a se stesso che
non provava la minima emozione, ma che poteva condurre quella conversazione con
la leggerezza di una qualunque transazione commerciale.
Cos’era in fondo, se non quello?
Doveva capire quali fossero le intenzioni del batterista; non
che la produzione avesse parlato per metafore, ma tetsu aveva pure posto
un’obiezione intelligente: era vero, Sakura aveva infranto la legge, le regole
del mercato e del buonsenso, ma era il miglior percussionista del Giappone.
Era bello – lo era stato, almeno, prima che l’alcool e
l’eroina non ne lasciassero che lo scheletro cauterizzato – e aveva un mucchio
di fan. Soprattutto quello: dopo haido, Sakura era senz’altro il più amato dei
quattro. I manager avevano tratto più di un sospiro, perché era vero, era tutto
vero, e dunque, per quanto neppure tetsu fosse entusiasta di dover giocare in
modo tanto sporco con un principio di puro buonsenso (potare in ramo
infradiciato dall’infezione, ricordava la voce impietosa di un’infezione
chiamata razionalità), si era lasciato guidare da una specie di ricatto
emotivo.
Non voleva perdere haido e non voleva perdere Sakura.
I sogni non vivono di sostituzioni senza mutare del tutto la
propria impronta; tetsu aveva sognato un arcobaleno modellato su quattro ragazzi
ch’erano diventati amici. E fratelli. Fino in fondo.
Dunque gli aveva domandato qualcosa che poteva essere un
colloquio privato, una resa dei conti, una preghiera al contempo.
Sakura l’aveva inteso, ma pure già deciso, senza la minima
speranza che si potesse tornare indietro: tetsu l’aveva capito sin dalla cornice
in cui l’incontro si era avuto, che non era quella prevedibile e forse persino
scontata di uno studio di produzione o del suo appartamento privato – e forse
quella era un’evenienza persino paventata, perché era stato lì che l’avevano
arrestato e quel luogo richiamava ora sulla retina di Ogawa solo quell’entropico
caleidoscopio di luci e parole sbagliate, gridate da uno schermo buono a vendere
ed a far male.
No, si erano visti a casa della sorella di lui, quasi Sakura
cercasse di nuovo in Yuki e Hidetaka quell’orizzonte che la vita del gruppo gli
aveva mangiato. Quelle prospettive che tetsu non aveva saputo dargli.
E in quel guscio di nuovo così stretto e protettivo,
arricciato in difesa, Sakura gli aveva detto che avrebbe abbandonato il gruppo,
senza altro pentimento che non quello del modo in cui la separazione si era
consumata. Aveva gettato al vento gli anni migliori della sua vita, ma non
avrebbe sopportato di viverne altri con quel peso di un’indegnità soverchiante a
gravargli sulla coscienza.
Nell’estremo nitore di pensieri e sensazioni, che sempre
l’aveva contraddistinto, tetsu faticava a trovare un ordine per quelle che aveva
invece provato in un simile momento; non poteva dire fosse sorprendente in sé
l’esito di una parabola in fondo incisa in mille circostanze diverse, eppure era
quasi metabolizzasse all’improvviso che non ci sarebbe più stato un domani.
Non ci sarebbe più stato Yasunori Sakurazawa, quello che si
era fidato della sua voce e aveva rubato un po’ il cuore alle sue sorelle e
distrutto i suoi nervi strimpellando la chitarra a ogni ora del giorno e della
notte – ed era bravo anche in quello. Il gorilla che gli aveva rubato haido e
gli aveva rinnovato l’acconciatura e che scherzava sempre e rendeva tutto così
speciale nei backstage che non ci sarebbero più stati. Sakura che si bucava, ma
era solo uno dei mille Yasunori diversi di quattro anni clamorosi e
indimenticabili.
Più della tossicodipendenza, più ancora dello scandalo che
aveva travolto e stravolto il gruppo, forse era proprio quello il nucleo
profondo di un perdono che tetsu non sapeva risolversi a dare: il vuoto che gli
aveva lasciato dentro, colmandolo poi di amarezza e delusione.
Ma quella primavera del novantasette era uno ieri da
seppellire nell’ottica di un vincente, ed era stato quanto tetsu Ogawa aveva
tentato di fare. Poco importava che quel suo silenzio fosse stato associato a
sentimenti crudeli e deviati, per un giudizio che non si era mai concesso fino
in fondo, finché non era stato haido a strapparglielo con le unghie e con i
denti, appropriandosi anche di una quota di dolore che non era stato solo il
suo; a quel punto aveva scoperto tutte le carte, senza curarsi le leggessero o
meno.
L’aveva scritto, del resto; molti dei cosiddetti fan
non avevano neppure il coraggio della verità, per questo non apprezzavano il
suo, ma gli preferivano haido, ch’era emotivo e si lasciava andare, perché tanto
c’era sempre un Tetchan a suturare quella spaventosa emorragia di sentimenti.
Poi, quando il tempo aveva sbiadito il cordolo di una
cicatrice tanto profonda e tanto amara, ma innocua pure per chi avesse
desiderato andare avanti e vivere malgrado le difficoltà di un momento, tetsu
aveva di nuovo intrecciato i suoi passi a quelli di un antico e maestoso
Ciliegio, così radicato in profondità nei suoi ricordi che la semplice vista
poteva riaccendere la magica lanterna delle memorie dorate.
Poteva davvero chiamare in conto il caso? Forse sì.
O forse era solo l’inevitabilità di un tracciato non scritto,
in cui le pedine si disponevano in variabili ch’erano imprevedibili solo in
tempi brevi, ma sulle lunghe distanze non erano che un ciclo dalla regolarità
circadiana di ricorrenze scandite.
In quello specifico contesto, nei fatti, il tutto si riduceva
a un corridoio illuminato da una luce asettica in una stazione radio sin troppo
famosa; una stazione in cui ciascuno giocava un ruolo lontano dal passato,
eppure a esso congiunto in modo inequivocabile.
Tetsuya era TETSU69 e Sakura un DJ come gli altri – o più
amato degli altri – il batterista di una indie in piena ascesa e
una voce della notte.
All’inizio non era stato che uno sguardo obliquo, tra
l’incredulo e il divertito, carico dell’ansia sotterranea che contorna a volte
le relazioni troppo complicate, allorché viene il momento di riallacciarle. Poi
sulle labbra sottili di tetsu si era allargata la cicatrice di un sorriso vero,
accogliente e imbarazzato, perché quello di Sakurazawa era stato un saluto che
non odorava di passato, ma travalicava all’improvviso la distanza di un lustro
intero.
Tetsuya non avrebbe mai detto che sarebbe accaduto sul
serio; non avrebbe mai detto che a vederlo il cuore non gli avrebbe fatto
male, non avrebbe punto in qualche misura sino a fargli rimpiangere di aver
seppellito chissà dove l’ultimo fiore di una vecchia amicizia. Invece era stato
quasi sollevato nello scoprire di possedere una scusa per smettere di indossare
la maschera dell’implacabilità e della vendetta. Ed era certo, chissà perché,
che anche Sakura l’avesse capito, perché gli aveva chiesto di bere insieme, come
mille volte era accaduto. Mille volte in cui gli toccava fare la mamma –
mamma-Ogawa – e riportare a casa quei suoi tre figli debosciati, che non
capivano mai quando fosse il tempo di smettere.
Quando fosse il tempo di crescere.
E lì, davanti ad una birra e persino a quell’immancabile
sigaretta che poteva perdonargli, il passato era tornato presente e il vuoto,
poco a poco, si era colmato con qualcosa di diverso da una brutta nostalgia.
tetsu non avrebbe saputo dire da cosa discendesse, se dal
fatto di essere più vecchio o più saggio o più placato e persino più disilluso,
esasperato anzi da una prima donna che alla fine gli aveva aperto gli
occhi su troppe sfumature che nel passato non aveva colto, ma aveva davvero
sentito con forza la stessa attrazione che in un tempo – tanto lontano da
somigliare ad un secolo prima – l’aveva spinto verso Yasunori.
La sua carica, il suo senso della musica e persino la sua
strana etica da joker, scommettitore per vocazione e per passione. Magari anche
scoprire che il cattivo ragazzo di un lustro prima, il puttaniere bello e
dannato di troppi servizi di genere fosse ancora single, si fosse disfatto della
sua celebre moto e vivesse con un cagnolino non tanto più grande di un topo. Era
il segno di una vita che andava ben oltre la carta patinata e persino la
naturale distorsione del ricordo, in cui tutto era sempre troppo brutto o troppo
bello insieme. E durava poco.
Così, davanti al tracciato di una canzone dal nome icastico,
tanto in fondo diceva anche di quel loro strano rapporto, Reverse, si era
detto fosse davvero possibile: far marcia indietro e fissare l’irripetibilità di
quella conquista con un atto che avrebbe cancellato tutto il resto.
“Me lo presti per un po’, Ken?” e dallo sguardo che
Kitamura gli aveva rivolto, per una volta, almeno, si era specchiato in un
riflesso che gli era piaciuto; e poco importava se nessuno se ne sarebbe
ricordato, quando al dunque gli avrebbero ancora dato del franco tiratore.
Tetsuya Ogawa conosceva la verità e se l’era sempre assunta
con tutto il coraggio del mondo.
Così insieme, chiusi in uno studio come secoli prima, tra un
accordo e una registrazione, il filo del ricordo si era snodato e intrecciato
come qualcosa di lontano dal rancore che strangola e non pacifica alcuno; era
piuttosto una rete che salvava dal baratro profondo del rimpianto e del rimorso.
E a vederlo oltre un vetro, a studiare tabs e pentagramma,
con su gli occhiali da miope e così lontano – com’era per primo – da un’icona
glam, era facile abbandonarsi alla deriva della memoria, all’improvviso
ricettiva e pronta ad accogliere gli echi della nostalgia.
tetsu tornava anzi sino a quel principio glorioso degli anni
novanta, al backstage del gruppo dei suoi sogni in cui tutto era cominciato.
C’è un ragazzo alto e bellissimo, che scherza e ride con
Morrie come se fosse un suo pari – e tetsu neppure immagina che i suoi sogni
saranno reali. Che un giorno capiterà anche a lui. Non fa parte dei Dead End, ma
lavora con loro. Ha un bello sguardo, diretto e limpido; è qualcuno che farà
strada.
C’è un posto vuoto dietro la batteria e tetsu non esita. Ha
sempre avuto l’ottima abitudine di chiedere e raccogliere i numeri e le voci che
contano – benedetto Asashi e pure i suoi taccheggiatori. Yasunori è perplesso,
ma non si fa pregare; li conoscerà e non se ne andrà più. tetsu ne è sicuro e ha
ragione. Smetta di fare la lagna haido, piuttosto, perché nessuno ha voglia di
mangiarlo.
La laruku-car macina chilometri su chilometri e i soldi che
non ci sono vogliono dire convivenze impreviste: è così che Sakura per un po’ si
trasferisce in casa Ogawa e le sue due sorelle sono anche troppo felici. I
vicini un po’ meno, perché quell’idiota soffre d’insonnia e può suonare la
chitarra tutta la notte. Per fortuna che anche tetsu ha quel problema, e allora
hanno qualcosa di cui parlare e sognare sino a mattina.
tetsu galleggiava su di un’onda di sentimenti imprevisti e
malinconie innaturali, sorprendendosi di come la carta si fosse mangiata troppe
volte la verità, sino a stravolgerla del tutto; sino a cancellare, ad esempio,
il fatto che Sakura non fosse stato sempre e solo la controparte di haido, ma
che al contrario ci fosse stato di mezzo quasi un intero anno in cui haido era
piuttosto una conchiglia chiusa e impenetrabile per chiunque. Per Yacchan prima
di tutti.
Poi no, poi a Tokyo c’erano state altre luci e altri
equilibri. C’era stato di mezzo qualche brutto blocco, troppe solitudini e un
improvviso radicamento ove il terreno sembrava più morbido e più fertile. Lì era
capitato che haido si accorgesse di Sakura e glielo togliesse, come, in fin dei
conti, aveva fatto con tutto e sempre preteso – già, haido era una splendida
pianta carnivora che gli aveva mangiato persino quei ricordi in cui non riusciva
a essere protagonista.
“A cosa pensi, Tetchan?”
“A quando ti sei improvvisato parrucchiere.”
E Sakura rideva e ne aveva anche tutto il diritto, perché il
tour di quell’estate esplosiva del novantacinque era stato davvero il vertice
della loro parabola. Non si erano più divertiti così tanto. Non si erano mai più
sentiti tanto vicini a un grado d’invincibilità totale e irreversibile: un’acme
prima di una discesa repentina, ma un’acme irripetibile.
In una camera d’albergo ancora ingombra di bagagli, Tetsuya
impreca perché la ricrescita gli ha quasi mangiato tutto il rosso e non è
proprio possibile cominciare il primo vero tour con un aspetto tanto arruffato.
Ken ride, quando Sakura irrompe con la sua solita foga da
imbecille divertito, un flacone di colorante e la buona volontà di chi combinerà
qualche guaio irreparabile. “Non ti fidi di me, Tetchan?”
Ovvio che no.
Eppure alla fine le armi vengono rese e l’esito non è proprio
del tutto indecoroso. Sono un po’ troppo rossi, magari, ma non gli stanno male.
E allora anche haido mette il broncio e strattona il batterista con quel suo
modo d’essere bestiolina e bambino viziato insieme.
“Anch’io, anch’io.” Sakura ha voglia di giocare e Ken quasi
muore dalle convulsioni, quando Takarai si ritrova con due alti codini ondulati,
che lo fanno somigliare a un’eroina dei manga o a una bambina della scuola
primaria.
“Ma che stronzi!”
Eppure quei sorrisi erano tutti autentici.
tetsu si diceva pure che un giorno avrebbe dovuto rendere
pubbliche le fotografie di quel periodo; non quelle del palco, ma quelle che si
scattavano per gioco, come se fossero ragazzini in gita.
Forse qualcuno sarebbe riuscito a leggere dietro la maschera
e a cogliere non quel brutto mondo inventato dalle illazioni, ma quella piana
dalle tinte tenui e dalle memorie calde ch’è una verità dimenticata.
“Ma che avete da chiacchierare fitto fitto voi due, si può
sapere?”
La voce polemica di haido l’aveva raggiunto senza
sorprenderlo. Era l’ennesimo capitolo di un intero anno di irritazioni mal
trattenute; forse teneva a fargli sapere come Sakura fosse e dovesse restare un
suo territorio esclusivo.
Era Natale, comunque – già il Natale del duemilacinque, però.
Dieci anni dopo la memorabile chiusa degli Heavenly, a ben vedere – e
poteva fingere d’ignorare quell’egoismo.
Aveva visto haido sedersi accanto a Yasunori, vicino e
stretto come sempre, con quella sua espressione di abbandono e felicità totale,
fatta di omissioni scaltrite e pretese morbose, degne di lui fino in fondo. Ma
l’occhiata che Sakura gli aveva rivolto, prima che facesse per abbandonare il
camerino e unirsi a Morrie – già, Morrie –rinnovava con forza una morbida
consapevolezza.
Reverse: la ferita si era sanata. L’importante era che lo
sapessero loro due; loro che, almeno, possedevano il coraggio della verità,
sebbene anche haido, forse, la intuisse. Per questo era tanto geloso.
E faceva bene.