Fictional Dream © 2006 (26 settembre 2006)
I L’Arc~en~ciel (nella prima formazione major, Tetsuya Ogawa,
Ken Kitamura, Hideto Takarai e Yasunori Sakurazawa, poi Yukihiro Awaji in luogo
di quest’ultimo) sono uno dei più celebri gruppi di musica rock-pop giapponese.
L’autrice non intrattiene con i succitati artisti alcuna
relazione di tipo economico-collaborativo.
Questo testo narra eventi di pura fantasia, destinati al
diletto ed all’intrattenimento di altri fans: non persegue alcun intento
diffamatorio (né pretende di dare informazioni veritiere sulle persone di cui
tratta) o finalità lucrativa.
Nessuna violazione dei diritti legalmente tutelati in merito alla musica ed alla
personalità degli artisti succitati si ritiene intesa.
L’intreccio qui descritto rappresenta invece copyright
dell’autrice (Callie Stephanides - http://fictionaldream.iobloggo.com). Non ne è ammessa
altrove la citazione totale né parziale, a meno che non sia stata autorizzata
dalla stessa tramite permesso scritto.
******
Aveva serrato forte le palpebre, arricciandosi con più forza
contro il cuscino. Se gli avessero chiesto di esprimere un desiderio in momenti
come quelli, forse avrebbe domandato che il sole smettesse di sorgere. L’aveva
sempre pensato, in fin dei conti; negli ultimi anni aveva forse qualche ragione
in più.
Una quantità di buone ragioni.
Con gli occhi chiusi la luce non poteva raggiungerlo. Poteva
fingere che non fosse già mattina, che non fosse già arrivato il momento di fare
i conti con tutto il resto. C’era una quantità di dettagli che voleva trattenere
sotto le ciglia e sulla pelle, abbastanza da rendere il mattino un accidente
superfluo. ‘Sakura,’ aveva mormorato, allungandosi là dove sapeva
restasse sempre una conca calda, o una forma accogliente contro cui stringersi,
rotolando con la prepotente indolenza di chi sa che non potrà essere rifiutato.
In alcun caso.
Con gli occhi chiusi, quella e frammenti di mille altre notti
tornavano a scomporsi e a incollarsi in un rondò di incredula accettazione.
Esistevano segreti che non avresti potuto confidare neppure al vento; erano quei
segreti che la luce del sole non colorava di dolci rimpianti, né di sfumature
accettabili, ma mostrava per quel che erano. Forse un errore.
Era così, in fin dei conti, che Sakura aveva liquidato la
prima volta e haido non avrebbe potuto dargli torto. Era il primo ad averlo
realizzato, fosse pure perché la natura non l’aveva fornito di nulla che potesse
rendergli meno traumatico o doloroso un risveglio come quello ch’era seguito.
Era accaduto tra il maggio e il giugno del novantacinque. Non
avrebbe mai potuto dimenticarlo, perché quell’estate di fuoco era stata anche
una delle più importanti, per il gruppo e per la sua stessa esistenza. Quasi
ventimila chilometri da un estremo all’altro del Giappone, fari sempre accesi su
di una vita più scintillante di un palco. Alberghi dopo alberghi e urla
entusiaste e quei suoi capelli ormai lunghissimi che s’impigliavano ovunque;
nell’aria l’odore inebriante e quasi tossico di un successo da lasciare
increduli.
haido era sfacciato, egoista, prepotente, coccolato, prima
donna, protagonista; era la summa di tutti i doni e le depravazioni del
mondo.
Era il suo volto più profondo cui poteva dar libero corso,
perché nessuno osava porre freni a una stella tanto brillante. A volte, a
guardarsi nello specchio, gli sfuggiva un sorriso cattivo e trionfante: la
gavetta era stata durissima, ma ora su quel vento d’oro planava con ali d’aquila
e senza paura.
No, non era vero affatto.
La paura era tale e tanta che tenersi stretta una maschera di
convenienza era pure l’unica via per respirare ancora, un po’ come bere e ridere
e fare persino battute volgari, se quello era il mezzo per riaffermare una
virilità ormai inghiottita dal trucco di scena.
Quella sera tetsu l’aveva supplicato di smettere di bere che
non era neppure a metà del cumulo indecoroso di bicchieri che avrebbe poi
inghiottito. Era stato Ken ad aprire il giro di bevute e Sakura gli era andato
dietro.
haido si era scoperto geloso di quella loro amicizia,
rafforzata dai giorni in cui se n’erano andati insieme a promuovere Vivid
Colors; era un sentimento strano, che tuttavia gli apparteneva nel profondo.
Non voleva correre il rischio di perdere la presa dalla realtà. Non voleva
correre il rischio di trovarsi ancora una volta soppiantato.
Ken, in un certo senso, gli aveva già sottratto parte
dell’attenzione univoca di Tetchan: a quel punto pretendeva che almeno il
batterista restasse suo.
Non era un discorso accettabile in un consesso adulto, ma
haido aveva già deciso che sarebbe morto di lì a poco, dunque non avrebbe
neppure tentato di prendersi il disturbo di fare qualcosa che associava alla
perdita di ogni sogno. Crescere. Perciò non aveva seguito il suggerimento
di tetsu, non li aveva lasciati soli a ubriacarsi e divertirsi e stringersi in
un nodo che l’avrebbe lasciato spettatore periferico.
Non avrebbe permesso al buonsenso di sussurrargli ch’era
venti centimetri e dieci chili in meno del più esile dei due, dunque non certo
altrettanto resistente all’ebbrezza pericolosa di quel che avrebbe inghiottito.
Era haido.
Era la stella, e doveva brillare in ogni circostanza.
Aveva bevuto e chiacchierato e riso e permesso alla lingua di
sciogliersi come in ogni circostanza in cui la lucidità si fosse trasformata in
uno stato di allucinazione persistente, dandogli una vista diversa, meno
consapevole, eppure quasi profetica. Accanto a Sakura, era tornato in albergo
ch’era notte fonda – o forse un mattino ancora non troppo convinto – stordito e
accaldato, eppure sveglio.
Si era liberato dei propri abiti, appallottolandoli o
calciandoli via, per restare poi nudo sul letto, lunghe ciocche rossastre che
gli scivolavano lungo i fianchi, lambendo le creste iliache e quasi fondendosi
al nido scuro e caldo che riposava tra le sue cosce magre. Sakura l’aveva
imitato, prima di sedergli accanto.
Di quella notte che poteva ricostruire a stento, haido
ricordava con certezza assoluta un solo e indimenticabile dettaglio: il momento
in cui gli aveva stretto le dita, le aveva guidate contro il suo pube e, senza
permettergli di fare una sola domanda o recuperare il controllo del più
pericoloso dei giochi, l’aveva baciato, con la vischiosa profondità del
possesso.
Come davvero una troia.
haido aveva affondato con più forza ancora il viso contro il
cuscino, sforzandosi di ricomporre un quadro fatto solo di pennellate nervose,
distratte, lanciate quasi con rabbia.
Quando si era svegliato, nel tardo pomeriggio del giorno
successivo, con un orribile senso di nausea – secondo forse solo alla tremenda
emicrania – Sakura lo fissava ad almeno due metri dal letto che avevano diviso.
Fumava in terra e neppure lo guardava davvero. haido aveva chinato lo sguardo,
si era diretto barcollando in bagno e aveva chiuso con forza la porta alle
proprie spalle.
Non voleva ascoltare alcuna scusa, non avrebbe sopportato che
gliene facesse; preferiva restare sospeso sull’impalpabile filo di due opposte
ipotesi.
Non gli era piaciuto affatto.
Gli era piaciuto troppo.
Era haido, cazzo. Non poteva smettere di guardarlo in
alcun caso, di desiderarlo, in alcun caso. Dunque era cominciata una giostra
perversa, a tratti crudele, baci rubati e quasi agguati proditorii. Sakura
diceva ch’erano solo amici, ma al dunque non rifiutava un solo bacio.
Era sempre al suo fianco, con una persistenza che infondeva
un naturale sentimento di fiducia e sicurezza.
Era troppo egoista per chiedergli cosa ne pensasse; haido era
schiavo del suo stesso bisogno.
Si era stirato pigro, annaspando nel vuoto: la certezza che
Sakura non ci fosse l’aveva costretto a fare i conti con la realtà di una
solitudine imprevista.
Si era guardato intorno, intorpidito dal sonno, schiavo pure
di un presente in cui i giorni dell’ebbrezza parevano lontanissimi. Una mano tra
i capelli corti, piccole ciocche d’ebano sui suoi occhi appannati. “Sakura?”
l’aveva chiamato a più riprese, senza trovare tracce che gli dicessero ancora di
lui, di una presenza accogliente e di un’evidenza piacevole.
Stronzo.
tetsu aveva concesso una pausa che suonava tanto generosa
quanto più sospettava che l’avrebbero usata in modo inaccettabile; haido sperava
in ogni caso che si riferisse alle sigarette, perché non avrebbe potuto
tollerare di guardare ancora in viso Ogawa se avesse immaginato ch’era al
corrente di tutto il resto.
Eppure, nei momenti in cui il suo ego buffone e prepotente
tornava a farsi avanti, haido avrebbe davvero desiderato vuotare il sacco
davanti a quel leader così irreprensibile e così saldo, così lontano dai
giudizi, perché scevro di ogni debolezza.
Avrebbe voluto cogliere forse la gelosia nei suoi occhi e la
stizza di un possesso perso.
Avrebbe forse cercato in quella sfida aperta al buonsenso la
prova provata d’essere unico. Per tutti.
La verità, però, era che sapeva pure di non poter rinunciare
al tetsu che amava di più, che gli riconosceva le sue debolezze, ma lo trovava
carino. Carino come non era affatto, perché viveva solo di quei suoi
inconsulti e prevaricatori appetiti per non amare davvero che se stesso. E anche
Sakura, sì, nero come il calore dell’abbraccio di una notte complice e
protettiva.
Gli si era posto accanto, ciccando oltre la ringhiera del
piccolo balcone affacciato nel vuoto aereo dell’ennesimo grattacielo di Tokyo,
colonne d’oro in quei tramonti che parevano schizzati dalla tavolozza di Dio.
“Perché non mi hai aspettato questa mattina?” gli aveva detto
inalando la prima boccata. Sakura non gli aveva risposto, intento com’era ad
accarezzare la sua Seven Star come non faceva più con le sue labbra.
“Erano le due, forse le tre, quando me ne sono andato.”
haido si era limitato a fissare la punta dell’anfibio per
qualche istante. Poteva avvertire i palpiti del proprio cuore con un nitore
spaventoso, ma ignorarli non avrebbe condotto a nulla; sapeva già quale voce
celassero: somigliava a quella di tetsu, una coscienza che non voleva ascoltare.
“Se ti stai chiedendo da quanto ti tradisco, haido, la
risposta è da sempre,” aveva aggiunto Sakurazawa senza accenti particolari,
prima di passargli le dita tra i capelli e poi prolungare la carezza lungo la
curva della sua schiena, fino alle natiche alte e compatte.
“Te l’ho detto da subito. Io non sono uno di quelli.”
haido si era sgretolato, frammento dopo frammento, ma senza
darlo a vedere; senza lasciare nel proprio sguardo che una vaga indifferenza,
per quanto pure potesse renderlo credibile il leggero tremito delle sue mani.
Aveva perso la presa sulla cherokee, inghiottita dal vuoto
dell’ennesima profondità urbana: per qualche secondo si era pure detto, nel
complesso, che avesse fatto una fine più dignitosa di quella che toccava ai suoi
sogni – s’erano poi tali.
“Questi mesi, allora?” aveva mormorato, sforzandosi di tenere
la voce ferma, per quanto pure morisse tra le maglie di sentimenti collassati in
un nulla.
“Quando offrono, è da stupidi rifiutare.”
Sakura aveva allungato quell’ultima stoccata senza il minimo
tremito, come se fosse anzi buono e giusto imputargli una debolezza che non era
innocente, ma senz’altro autentica. Una debolezza ch’era proprio lo stronzo
che gli aveva spezzato il cuore. Una debolezza ch’era anche il suo essere
scoperto, sempre troppo fragile o troppo disponibile o troppo vero. Anche
semplicemente quello. E falso insieme.
Sotto la pioggia di settembre aveva ripercorso settimane di
una storia tutta sbagliata, un blocco dopo l’altro, fino al parco Yoyoji, dove
mille volte si era detto che con Sakura al fianco e certi tramonti d’oro non
aveva nessuna ragione per essere infelice.
Il problema era piuttosto la felicità non esistesse da
nessuna parte e stupido a cercarla oltre il bordo scrostato di una maschera di
scena.
Passo, dopo passo, dopo passo: un cane bagnato e senza
lacrime, un deficiente che aveva solo tanta voglia di morire. Troppa voglia di
morire.
Si era svegliato scosso dai tremiti di un corpo che bruciava
più di un tizzone, ma che sapeva di poter imporre alla storia anche solo in
forza di una determinazione che non aveva nulla di buono e nulla di sano, ma
somigliava a una specie di ansia soffocata: non poteva dargliela vinta. In fondo
era haido.
Sakura avrebbe inghiottito strisciando quella sincerità non
richiesta, perché come non aveva avuto bisogno del suo consenso per baciarlo,
così non gli avrebbe permesso di buttarlo via.
La testa gli doleva al punto che quasi non riusciva a sentire
la musica, ma non per questo avrebbe smesso di cantare, fosse pure perché era
l’unico modo conoscesse per gridare davvero e liberarsi fino in fondo di una
sofferenza inaccettabile.
tetsu aveva socchiuso gli occhi, senza smettere mai di
fissarlo per tutta la durata delle prove. Stava cantando per quel che era, un
cane abbandonato. Solo quando il leader era riuscito a spezzare una delle corde
del basso, aveva capito d’essere un attore pietoso. Era per quello che la sua
recita era già finita. Nel peggiore dei modi.
“Facciamo una pausa,” l’aveva sentito sospirare scontento,
senza che tuttavia quel dettaglio riuscisse a colpirlo davvero. Si era seduto
sul divanetto dello studio, la testa rovesciata contro lo schienale. Stava
crollando e non poteva negarlo altrettanto bene di quanto non gli fosse dato con
la tosse o con l’influenza.
Tetsuya aveva posato la fronte contro la sua, così vicino che
avrebbe potuto baciarlo, se solo quella storia non l’avesse costretto a crescere
davvero, cercando alla voce ‘rispetto’ qualcosa che poteva persino
somigliare a un sinonimo per ‘amore’.
“Cosa ci fai qui, Doihachan? Sei bollente.” Aveva abbassato
lo sguardo.
Io sono haido. Esisto solo qui. E da nessun’altra parte.
Aveva preferito tacere; esistevano parole che la luce rendeva
più evidenti e più vuote.
La verità era sospesa su sussurri appena accennati, come il
manto impalpabile delle nubi poteva stringere d’assedio la luna. Così erano i
sentimenti, nulla che potesse essere stretto senza rompersi.
Si era alzato barcollando, alla ricerca della propria borsa;
prima che potesse realizzarlo, c’era già un altro pronto a porgergliela.
“Cosa vuoi?” Sakura non gli aveva risposto, perché rifiutava
di qualificare in tal senso quel braccio forte stretto contro le sue spalle, e
il calore di una pelle che non era la sua.
“È inutile che ti senti in colpa. Non c’entri in nessun caso.
Lo sai che mi raffreddo con niente,” aveva considerato.
L’altro aveva sospirato un poco, prima di chinarsi su di lui
e cercarne lo sguardo oltre la frangia troppo lunga.
“L’ho fatto per tutti e due. Possibile che tu sia così
stupido?” aveva replicato gelido.
haido aveva intrecciato le braccia contro il suo collo, prima
di cercarlo ancora con il cuore e con la lingua.
Stava offrendo ancora. Non poteva tirarsi indietro. Mai.
“Perché ci fai questo?” l’aveva sentito scandire tetro.
Ci fai: quasi parti di un’unità indissolubile.
“Perché non voglio restare solo,” aveva replicato, lo sguardo
fisso alle luminarie di una strada intossicata dal traffico, come corrotto era
ogni suo istinto e fiacca quella pulsione che altri chiamavano ‘vita’.
Sakura non gli aveva risposto subito; per qualche attimo,
anzi, non detti sospesi erano rimasti a galleggiare sui loro capi, minuti
fantasmi pronti a scortarli sino all’Inferno. Lì, nei fatti, sarebbero finiti.
Il batterista aveva sterzato bruscamente, puntando l’alveo sbagliato di una
corrente ormai irresistibile. “Questa è l’unica eternità che posso darti, haido,”
aveva mormorato.
Gli aveva sorriso, sfiorandogli le dita.
Sarebbe bello anche cadere. Tenendoci per mano.
E poi sarebbe stato solo notte.
Per sempre.
Si era svegliato madido e stravolto in un letto che non
riusciva a riconoscere. Il fiato corto, condensato in piccole nuvole di vapor
d’acqua, non bastava a fugare il peggiore dei sospetti che gli si era acceso nel
cuore; la sua mente deteriorata non gli aveva regalato un incubo, cucendo con
vivido sadismo brandelli di memoria e paura, no, gli aveva inciso sulla retina
una verità per cui ora non era che un’ombra vagante nel buio anelato.
Senza chi ve l’aveva abbandonato, però.
Senza davvero nessuno.
“Sa…”
Si era morso le labbra, senza dire niente. Con la lucidità
terrorizzata della veglia tornava tutto il resto.
Tornava soprattutto la desolante certezza che quel nome non
aveva più alcuna ragione d’esistere sulle sue labbra.
Per quante volte pure l’avesse accarezzato, esistevano riti e
catene da spezzare; peccato, forse, non fosse mai stato crudele come il suo
cuore si divertiva a dipingerlo: se avesse posseduto almeno un po’ di
risentimento, forse, quella piaga si sarebbe cicatrizzata prima.
Il pavimento era freddo sotto i suoi piedi nudi, distante ed
estraneo come tutto quel che lo circondava.
A ben vedere, in fin dei conti, la Death Valley era quanto
gli somigliava di più. Caldissima o fredda da morire. Sterile, in ogni stagione.
Finirà, prima o poi?
Nella cucina deserta non era che una piccola ombra scura,
arricciata tra la sedia e il tavolo, a cercare riparo nel buio come aveva sempre
fatto, senza realizzare fosse un errore, allora e in quei giorni di timide
riprese e albe impalpabili.
tetsu gli aveva accarezzato i capelli, senza provare davvero
il desiderio di svegliarlo. La verità era che non sapeva per primo cosa
aspettarsi e cosa chiedere, intossicato dalla sua vulnerabilità come lo era
stato dal suo carisma e dalla sua forza; roso dal tarlo della gelosia o
consumato da una pietà strana, che non sapeva davvero a chi volgere, se era il
primo ad avere il cuore a pezzi senza poterselo permettere.
haido aveva mosso le palpebre, prima di sollevare il capo e
fissarlo, quelle mandorle castane e liquide, così incredibilmente eloquenti.
“Perché sei qui? Non dirmi che il tuo letto non è abbastanza
comodo. Hai fatto un mucchio di storie per…”
“Ho sognato di morire, Tetchan. È stato bello,” l’aveva
sentito sussurrare piano.
Aveva deglutito a fatica, chiedendo solo che l’incubo non
avesse un nuovo inizio, dopo che tanto era stato fatto per seppellirlo da
qualche parte: dove dolesse meno, dove non artigliasse più a tradimento il cuore
quanto più le difese erano abbassate, dove non fosse più possibile trovarlo,
neppure volendo.
Non era quel che cercava haido, però, che pure negli
autoritratti baciava le labbra senza vita di un teschio, sognando forse le ossa
calcificate di un altro amore e di un’altra verità.
Ossi di seppia alla deriva di una memoria che non poteva
sostituire con i giorni di Osaka e spiagge baciate dal sole.
“Ora ti senti abbastanza sveglio?” gli aveva detto senza
inflessioni particolari. haido non gli aveva risposto, ma preso la mano con
forza.
Quando si era accorto del suo stupore, aveva accennato un
sorriso e mormorato: “Andiamo a vedere l’alba, Tetchan?”
Un’alba su una valle di morti che valore simbolico poteva mai
avere?
Ma un’alba era un’alba, pur sempre l’inizio di qualcosa.
Vero?