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Autore: Leireel    16/11/2010    34 recensioni
"Dev'essere così, questa cosa dei figli, pensò Horeau: nascono con dentro quello che, nei padri, la vita ha lasciato a metà." (A. Baricco)
Certe volte, per quanto si provi a cambiare il corso degli eventi, il destino è già tracciato. Certe volte, le colpe dei padri non possono essere dimenticate.
Prima classificata al New Generation Contest indetto da Only_Me sul forum di EFP.
Genere: Malinconico, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Albus Severus Potter, Harry Potter, Hermione Granger | Coppie: Albus Severus Potter/Rose Weasley, Harry/Hermione
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
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∙Nick Autore: silvershiver (Leireel su EFP).
∙Titolo: Pulvis et umbra.
∙Prompt: 8. Albus Severus Potter.
∙Personaggi: Harry Potter, Hermione Granger, Albus Severus Potter, Rose Weasley.
∙Pairing: Harry/Hermione, Albus/Rose
∙Genere: Malinconico, Triste, Romantico.
∙Rating: Giallo.
∙Avvertimenti: What if…?
∙Introduzione: Certe volte, per quanto si provi a cambiare il corso degli eventi, il destino è già tracciato. Certe volte, le colpe dei padri non possono essere dimenticate.
∙NdA: Pensare ad Albus senza Rose è pressoché impossibile per me; sin da quelle poche righe nell’epilogo, i loro destini sono indissolubilmente intrecciati. Questo è il mio omaggio a loro, e alla coppia che a mio parere li precede implicitamente. Il prologo e l’epilogo sono visti rispettivamente dal punto di vista di Harry e di Hermione, la storia centrale da quello di Albus; la parte in corsivo prima dell’epilogo, invece, riporta i pensieri di Rose.
∙Credits: La canzone che ha fatto da sfondo all’intera storia è senza dubbio ’74-’75 dei The Connells, sebbene anche Merry Christmas Mr Lawrence di Ryuichi Sakamoto abbia fatto la sua parte; l’idea del Torneo Tremaghi mi è venuta, devo ammetterlo, dalla fantastica storia di DiraReal, Ab umbra lumen, sebbene le sue coppie siano decisamente diverse dalle mie; la citazione finale viene da L’animale morente di Philip Roth, mentre il titolo è preso dal Carmina IV, 7 di Orazio.
Un grazie speciale a Briseide, che sebbene non mi conosca mi ha regalato delle emozioni indescrivibili con le sue Harry/Hermione; questa storia deve molto a lei. E una dedica anch’essa speciale a Mia e a Maru, le prime a leggere questa storia; senza di voi l’avrei probabilmente cestinata, quindi grazie, grazie davvero per il supporto. Questa storia è per voi.
La storia ha partecipato al New Generation Contest indetto da Only_Me sul forum di EFP, classificandosi prima. Inutile esprimere la mia gioia nel vedere il risultato e nel leggere il suo splendido giudizio, che trovate qui. Grazie mille una volta ancora per le magnifiche parole, davvero.

 

Prologo

Se qualcuno gli avesse chiesto quale fosse il suo ricordo più bello – quello che conservava là, in quell’angolo di cuore meno esposto alle intemperie, quello che andava a raccogliere con le mani che tremavano quando il buio sembrava aspettarlo al varco, quello che gli strozzava qualcosa nelle viscere se solo tentava di pensarci – non era certo che avrebbe risposto, ma in cuor suo sapeva che si trattava di quell’ultimo pomeriggio spensierato a Hogwarts, quando ancora non aveva dovuto assistere all’assassinio di Silente e tutto il peso della sua ingombrante vita era sostenuto da spalle più adatte delle sue a portarlo; in quel momento lui era solo un ragazzino, solo Harry. C’era Ginny al suo fianco, una presenza radiosa che sapeva di sere d’estate e di risate nascoste; e Ron accanto a lei, steso pigramente al sole, che canticchiava tra sé qualche vecchia canzone di Celestina Warbeck e giocherellava distrattamente con Arnold. E poi c’era Hermione, con la testa reclinata all’indietro e gli occhi chiusi, a lasciare che i raggi di sole le baciassero un po’ la pelle prima di tornare alle pergamene che aveva intorno; sembrava irradiare lei stessa luce ed elargirla all’intera scena con quella grazia tutta sua e con quel sorriso disarmante e sincero, senza neanche accorgersene. Era quello il suo ricordo più bello.
Se solo si fermava a pensarci, in effetti, tutti i suoi ricordi più belli coinvolgevano in qualche modo Hermione; ma lui non ci si soffermava mai più di tanto – era qualcosa di troppo doloroso, ed era sicuro di non voler sapere cosa significasse, non ora che erano entrambi sposati, avevano avuto dei figli e un cumulo di occasioni sprecate da guardare con indulgenza e rimpianto nelle notti d’inverno. Lei era nei suoi ricordi come un sole di metà mattina, discreto e silenzioso, sempre pronto a riscaldarlo un po’ quando ne aveva bisogno. E lui, lui ne aveva ancora bisogno – sempre, sempre, fino all’ultimo istante della sua vita, per favore – ma non aveva mai trovato il coraggio e la volontà di dirglielo; e anche se era sicuro che lei l’avesse capito – lei capiva sempre tutto, lo conosceva così bene che era impossibile non lo sapesse – Hermione aveva fatto la propria scelta, e così lui, e quel sole di metà mattina era solo un ricordo un po’ sbiadito, da conservare con cura in un armadio polveroso insieme a qualche vecchia foto scolorita e a un vestito ormai troppo stretto.

 

Pulvis et umbra

I was the one who let you know
I was your sorry-ever-after
It’s not easy, nothing to say ‘cause it’s already said
It’s never easy
(The Connells, ’74-’75)

Sin da quando era bambino, l’immagine sorridente di Rose si era sempre fatta strada prepotentemente nei suoi ricordi fino a occupare quasi tutto lo spazio che c’era, una presenza continua e leggera, indispensabile, indimenticabile. Forse era quello il motivo per cui da piccoli erano così inseparabili. E poi, ogni cosa era più semplice da bambini: i sorrisi non nascondevano significati segreti, la pelle che si toccava era una delle tante maniere per stare vicini, le mani che si intrecciavano un modo per non perdersi. Era più semplice dirle come fosse molto carina con quel vestito nuovo di lino bianco, per poi vederla illuminarsi e sorridergli radiosa – a dir la verità, era più semplice anche pensarlo, quanto Rose fosse carina (anche con i capelli scarmigliati, anche con gli occhi gonfi dal pianto dopo che James e Fred le avevano fatto uno scherzo, anche con l’espressione stropicciata di chi si è appena svegliato e vuole ancora dormire), era così semplice, e non doveva chiedersi nulla, non doveva pensare a quanto tutto quello fosse sbagliato, erano solo Albus e Rose, niente di più.
Lei aveva sempre avuto un ruolo fondamentale nella sua vita; tra tutte le insicurezze e le debolezze che lo contraddistinguevano, lei era l’unica che sapesse rassicurarlo, quasi conoscesse sempre in anticipo cosa lui stesse provando e avesse già pronta la soluzione ai suoi problemi, in quel modo goffo e impacciato che era così da lei e che aveva visto spesso riflesso nel comportamento e negli atteggiamenti di suo zio Ron. Avevano avuto anche loro litigi e sfuriate, ovviamente – che finivano inesorabilmente con Albus rinchiuso testardamente in camera sua a trattenere le lacrime (di rabbia, certo) e Rose sempre la prima a chiedere una tregua, perché sapeva benissimo quanto suo cugino fosse orgoglioso e ostinato – ma erano tutte cose di poco conto, che Albus ricordava con un sorriso e con un po’ di imbarazzo, passandosi magari una mano tra i capelli e dicendosi che sapeva davvero essere scemo, da bambino.
Avrebbe dato tutto quello che possedeva per tornare a quei giorni in cui tutto era facile come respirare, e non gli importava neanche di rivivere i battibecchi e gli scherzi di James e le lunghe estati interminabili alla Tana, neanche di non avere una bacchetta e non poter fare magie; gli bastava tornare a quei momenti felici, invece che stare fermo a chiedersi da quando tutto fosse diventato così maledettamente complicato.

Hogwarts aveva rappresentato l’inizio e la fine di ogni cosa, nel modo agrodolce che ha l’adolescenza di scivolare lentamente nella maturità con il suo seguito di rinunce e perdite. In realtà, Albus non aveva mai voluto fare un bilancio di vittorie e sconfitte; sapeva che quanto aveva guadagnato non sarebbe mai bastato a compensare quanto si era lasciato per strada, e preferiva chiudere gli occhi e non vedere. Erano stati anni felici, in fondo, se trascurava i se e i ma che tormentavano le sue notti e il senso di bruciante sconfitta che li accompagnava; erano stati anni felici, e tutto sommato spensierati, sereni.
Era stato Smistato a Serpeverde, complice un nome oneroso da portare sulle spalle e da borbottare tra i denti, nonché una certa debolezza di carattere che, unitamente a un’intelligenza sottile, l’avevano condannato a essere il primo Potter da generazioni, se non da sempre, a seguire le orme di Salazar; a Serpeverde, inaspettatamente, aveva trovato amici, una famiglia un po’ contorta e ambigua che si andava a sommare ai numerosi Weasley che affollavano la scuola, e ci si era pure scavato una tana, finendo per sentircisi addirittura a proprio agio. Rose era toccata ai Grifondoro, come prevedibile.
Si era ritrovato, col tempo, a doversi destreggiare tra formule e incantesimi, una strana abilità come pozionista che sembrava aver saltato una generazione per arrivare sino a lui da Lily Evans, e la naturale evoluzione del suo rapporto con Rose da amicizia fraterna a quel qualcosa che gli agitava viscere, cuore e cervello e gli impediva quasi di respirare, se solo c’era lei nella stanza. Non aveva mai voluto chiamarlo col suo nome – era molto meglio che un nome non ce l’avesse affatto, che sparisse e basta, che tornasse tutto come prima. D’improvviso era diventato difficile guardarla, difficile rivolgerle la parola e comportarsi come al solito, ancor più difficile starle accanto, sfiorarla inavvertitamente, controllare l’impulso di baciarla, perché dannazione, era sua cugina, non aveva importanza quanto lui la volesse, la realtà non sarebbe cambiata, e Merlino, se c’era qualcuno lassù doveva avere un senso dell’umorismo piuttosto perverso, se lo condannava ad avere accanto la persona perfetta per lui e non poterla neanche sfiorare, non poter neanche sperare che lei si accorgesse di lui; perché in cuor suo sapeva che lei se n’era accorta eccome, ma era tutto così dannatamente sbagliato che non avevano neanche lo spazio per pensarci, figurarsi sperare. L’aveva vista – era stato costretto a vederla, maledizione – crescere e sbocciare timidamente come una rosa tardiva, lei e quei suoi lineamenti spigolosi e un po’ infantili che lo mandavano fuori di testa, con quella massa di capelli cespugliosi e crespi e quell’andatura goffa che nemmeno nell’adolescenza era riuscita a lasciarsi dietro; l’aveva vista diventare semplicemente splendida, ed era stato costretto a notare come anche gli altri se ne fossero accorti e a non reagire, nonostante tutto ciò che volesse fosse affatturare chiunque si fosse azzardato anche solo a guardarla in un certo modo.
L’aveva vista scendere la scalinata di fianco a Robert Goldstein, meravigliosa nel suo abito blu oltremare, la sera del Ballo del Ceppo nel dicembre del loro settimo anno, e aveva sentito che non sarebbe più riuscito a tollerare oltre. Era stato in quella sera, in fondo, che tutto era iniziato e finito.

Sapeva già che Rose sarebbe andata al ballo con Goldstein – era stata lei stessa a confidarglielo con quel sorriso che solitamente dedicava solo a lui – lo sapeva, come sapeva che chiederle di andarci con lui, invece, sarebbe stato stupido, insensato e decisamente compromettente. Aveva invitato Lisa Humphrey, una ragazzina smilza del quinto anno con due grandi occhi castani e una risata contagiosa, e aveva sperato che bastasse.
Non era bastato, ovviamente. Non appena aveva scorto Rose in procinto di scendere, nella sua mente non c’era stato spazio per altro – e come avrebbe potuto, diamine? Rose occupava tutto lo spazio che c’era, nella sua mente, nel cuore, nello stomaco, non c’era spazio per altro, era tutto per lei; Albus era tutto per lei, e l’unica cosa che voleva era che anche lei fosse tutta per lui, in un modo o nell’altro, tutta per lui, e Merlino se gli sarebbe bastata, per tutta la vita non avrebbe avuto bisogno d’altro. Sapeva che l’unica scelta che avesse era allontanarsi e magari bere fino allo stordimento, perché sentiva il bisogno di urlare e spaccare qualcosa e rintanarsi nella sua stanza sbattendo la porta come faceva da bambino; ma Lisa l’aveva trascinato sulla pista da ballo e lui l’aveva seguita, docile e un po’ intontito, mentre accennavano entrambi qualche passo incerto e qualche sorriso imbarazzato. Si era staccato qualche valzer dopo con la scusa di avere bisogno di un po’ d’aria, rifugiandosi al di fuori del portone di Hogwarts con la testa in fiamme.
Non sapeva quanto tempo avesse trascorso da solo là fuori, nascosto dietro un cespuglio di rododendri a osservare di sfuggita coppiette che si allontanavano alla ricerca di un po’ di intimità e sperando ardentemente che non ci fosse lei, tra queste; alla fine era rientrato, sentendosi un miserabile misantropo a guardare Lisa danzare con qualche ragazzo di Durmstrang e tutti i suoi compagni divertirsi a una festa che lui aveva già iniziato a odiare, e se n’era sceso nei Sotterranei, maledicendo Torneo Tremaghi, Ballo del Ceppo e un Corvonero in particolare.
Aveva trovato Rose ad aspettarlo davanti all’ingresso per la Sala Comune dei Serpeverde, lo sguardo preoccupato e ansioso. E a quel punto non sapeva cosa diamine gli fosse preso, aveva definitivamente smesso di ragionare; non le aveva lasciato neanche il tempo di chiedergli che fine avesse fatto, neanche il tempo di un respiro, e l’aveva baciata con forza in quel corridoio deserto. E Rose aveva risposto, aggrappandosi tenacemente a lui, lasciandolo stordito e confuso, e c’era Rose dappertutto, non sentiva che lei, il suo profumo, i suoi capelli tra le dita, il suo corpo che premeva contro il suo e per una volta non si allontanava, e per Morgana, quello doveva essere il Paradiso, doveva essere morto, non c’era dubbio.
A quel punto avevano finto entrambi di essere ubriachi, perché così era più semplice rintanarsi in un angolo della Sala Comune e annegare l’uno nell’altro e pretendere poi l’indomani di non ricordare più nulla – come se fosse stato anche solo possibile dimenticare lei e il suo odore, Merlino, il suo odore, ce l’aveva appiccicato ovunque, sulla pelle, sui vestiti, e non voleva andarsene, stava lì, a condannarlo alla pazzia. Come se fosse stato possibile ubriacarsi di qualcosa che non fosse lei.
In quel preciso istante, tutto era finito; Albus l’aveva compreso nel momento stesso in cui Rose si avvinghiava a lui come se non potesse fare altro che stare là con lui per sempre, come se ne dipendesse la propria vita. Era la fine di tutto: della loro infanzia, della loro spensieratezza, della loro amicizia, di quelle pretese di felicità che avevano entrambi accampato negli anni, nonostante fossero così sbagliate da non poter neppure essere sussurrate a mezza voce.
Rose. Rose. Rose e Albus.

Non era poi tanto difficile prevedere come sarebbero andate le cose: finiti i M.A.G.O. e la sua adolescenza – finita Hogwarts e quei sette anni di sconsideratezza e tuffi nel lago e lunghe corse per i corridoi in ritardo per le lezioni e quell’aria di magia che gli riempiva i polmoni – non ci sarebbe più stato posto per i suoi desideri e i suoi sogni infantili, non se non riusciva a inquadrarli in una cornice di normalità che li rendesse accettabili per il mondo reale. Rose, lei non la si sarebbe mai potuta inquadrare, neanche a provarci, era come cercare di forzare un raggio di sole in una scatola di cartone, stupido anche pensarci: così aveva dovuto mettere anche lei da parte nel suo cuore, e sperare un giorno di riuscire a ricordare senza rimpianti.
Non era un caso che fosse un Serpeverde, dopotutto. Perché se solo fosse stato un po’ più coraggioso e impulsivo – un po’ più avventato, più Grifondoro, come James – forse non si sarebbe fatto tutti quei problemi e avrebbe semplicemente allungato una mano per acchiappare ciò che voleva; se solo avesse avuto più fegato, non avrebbe perso tempo a rimuginare sui pro e contro, non si sarebbe perso in inutili grovigli mentali, non avrebbe rinunciato ai suoi desideri per amore delle convenienze. Ma lui non era James, non era un Grifondoro, e anche provandoci non ci riusciva proprio, ad allungare quella mano: e Rose era già di un altro, splendente davanti all’altare, e a lui non erano rimasti che stralci di una felicità ormai passata e assaporata di sfuggita, e parole non dette a scivolargli tra le dita.

***

Fin da quando ho ricordo, nella mia vita c’è sempre stato lui, nel bene o nel male, a rubarmi pensiero e respiro; non c’è mai stato spazio per altro. A lui ho donato la parte di me che ritenevo più importante – quella che gli apparteneva di diritto fin da quando eravamo bambini – e ho lasciato semplicemente che la vita si prendesse il resto. Non mi importava; da che ho ricordo, sono sempre stata sua. Non sarebbe bastata una fede a cambiare la realtà.


Epilogo

Nonostante in questi anni io sia stata incondizionatamente e certe volte immeritatamente felice, ci sono stati - e ci sono ancora – momenti in cui lo sconforto ha la meglio sul mio naturale ottimismo, e non posso fare a meno di pensare che alla fine abbiano ragione quelle vecchie tragedie greche che tanto piacevano ai miei genitori, e le colpe dei padri si riversino inesorabilmente sui figli, senza che nulla possa mettere loro un freno. Non è qualcosa che mi faccia piacere ricordare; dopo aver riportato alla mente quelle parole, il senso di impotenza e di frustrazione impiega almeno qualche giorno a farsi da parte quel minimo che mi consenta di alzarmi in piedi di nuovo, e sono certa che nei miei occhi sia sempre possibile vedere quell’ombra scura che ottenebra la mia felicità. Ho sempre paura a incontrare lo sguardo di Ron, in quei giorni.
Perché in quei momenti, nonostante i miei sforzi, non posso fare a meno di pensare che la colpa sia esclusivamente mia se mia figlia è così innaturalmente, disperatamente infelice; e a nulla servono le sue rassicurazioni e il suo sorriso, perché nascondo quel suo stesso sguardo da una vita, e non potrei non vederlo neanche se chiudessi gli occhi. In quei giorni mi assale la certezza di aver condannato Rose a un cuore pavido e codardo, abituato da sempre a scegliere la strada più sicura, a proteggersi dietro discorsi tanto razionali quanto intimamente sbagliati, a continuare a fare errori senza guardarsi indietro; ed è un pensiero così terribile da non lasciarmi neanche la forza per piangere.
La verità è che, nonostante quel coraggio che tanti mi attribuivano e che mi aveva portato a diventare un orgoglioso membro dei Grifondoro, nel momento in cui più avrebbe avuto importanza essere davvero coraggiosi, ho avuto paura. Mi sono tirata indietro accampando scuse che non risultavano convincenti neanche alle mie stesse orecchie, e ho rinunciato. In fondo, cosa sono io, se non un po’ di nozioni messe insieme dai libri e una buona dose d’ingegno? Per qualche attimo, durante i miei sei anni a Hogwarts, mi sono quasi convinta che ci fosse qualcosa di più – quando ci eravamo trovati di fronte Sirius ed ero riuscita a non vacillare, quando all’Ufficio Misteri non mi ero tirata indietro, quando ero rimasta a combattere nella battaglia contro i Mangiamorte a Hogwarts la notte che Silente era morto – ma erano solo scuse inconsistenti per un coraggio che, quando si trattava di venire a patti coi miei sentimenti, non avevo mai avuto, e non credo di avere ancora.
Vederli insieme, lei e Albus, a gravitarsi intorno e a non sfiorarsi mai, neanche per sbaglio, è un po’ come osservare i miei stessi errori da vicino e non far nulla per rimediare – il dolore che provano è così palpabile da infettare qualsiasi cosa si trovi loro intorno, me per prima. Ci assomigliano così tanto… la sensazione di essere solo a qualche passo di distanza da quel che si vuole e non riuscire ad avanzare è qualcosa cui mi sono abituata nei lunghi anni passati insieme a Harry, a respirare la sua aria e a cercare un modo per respirare anche lui. Non sono mai riuscita a stargli davvero vicino, per quanto lo volessi: era sempre qualche passo avanti, perso in un inferno che a stento riuscivo a immaginare, e per quanto mi muovessi stavo sempre indietro a contemplarlo senza neanche poterlo toccare. Forse non c’era altro modo per viverci, mi dico a volte, che cercare di continuo un modo per essere felici insieme e perdere tempo a farlo, e non essere felici e non essere insieme; amare Harry è sempre stata un po’ come una fuga disperata senza uscite, senza altra realtà che il terreno duro sotto i piedi e il miraggio di un sole lontano a dar loro forza. E per quanto lo sappia che non ci sia speranza, non ci riesco proprio, a rassegnarmi e smettere di correre.

 

«Cosa crede la gente, che basti innamorarsi per sentirsi completi? La platonica unione delle anime? Io la penso diversamente. Io credo che tu sia completo prima di cominciare. E l'amore ti spezza. Tu sei intero, e poi ti apri in due.»

Philip Roth

   
 
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