Fanfic su artisti musicali > L'arc en ciel (band/solo)
Segui la storia  |       
Autore: Callie_Stephanides    20/11/2010    0 recensioni
Hideto/haido: il poeta e la sua maschera più collaudata, gli anni duri di Tokyo, le solitudini assassine di una città senza cielo, e un amore svanito nel vento per amore di una voce.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: hyde, Ken, Pero, Sakura, Tetsuya
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

I Dead End erano nati tra Nagoya e Osaka, ma avevano fatto sognare anche Tokyo. La voce profonda e modulatissima di Morrie – capelli neri, tenebroso, attraente – e gli arpeggi di quel loro chitarrista fenomenale – erano gli Iron Maiden del Sol Levante? Non sembrava un confronto azzardato – riecheggiavano nell’aria persino a tre anni dal loro scioglimento. Tetsuya l’aveva accolto con l’incredulità addolorata del fanatico – li seguiva da sempre, lui. Da quando erano indie e Ogawa un ragazzino delle medie malato di musica – consolandosi forse quando aveva scoperto che Morrie non aveva deposto il microfono, ma continuato da solo ad alimentare il proprio mito. La verità era che tutti ascoltavano Morrie. Lo faceva Kiyoji Mori, prima ancora di diventare Kiyoharu dei Kuroyume, altro simbolo sonoro e sessuale insieme. Lo faceva un chitarrista talmente bello da sembrare davvero scendesse dalla Luna che aveva rubato per il suo gruppo, quel Sugizo che avrebbero chiamato Wolking Porn e identificato con un’icona quasi blasfema. Lo faceva una piccola bambola dagli occhi grandi e dalla voce profonda, accoccolata in un angolo della camera di Ogawa, a fissare nel vuoto ombre che solo il suo cuore riusciva a leggere. Valeva davvero la pena di abbandonare tutto per un pugno di illusioni? Non ne era del tutto convinto. Per la prima volta, anzi, le parole di suo padre somigliavano davvero a un oracolo cui prestare fede.
Il mondo là fuori faceva paura.
La solitudine, poi, era uno spettro ancora più doloroso.
“Ha detto che non gli interessa,” aveva scandito senza troppo sentimento, in replica all’unica domanda si ponessero da tre giorni almeno e che era stata pure il refrain con cui quel millenovecentonovantatre si era inaugurato.
Un ritornello inevitabile, in fin dei conti, considerando che Pero li avesse abbandonati proprio il trenta dicembre, dopo un live memorabile.
Perché?
Hideto lo conosceva da un arco di tempo sufficiente ad alimentare dubbi amletici; era rimasto al suo fianco quando il gruppo sguazzava in una pozza di pochi centimetri e lo abbandonava ora che erano a un passo dalla registrazione di un album vero.
Indie, d’accordo, ma dieci tracce autentiche.
Aveva tentato di lusingarlo e blandirlo e allettarlo con promesse che sapeva per primo quanto suonassero inverosimili, ma era stato irremovibile: gli aveva battuto piano sulla spalla e forse detto la verità.
“Non ho niente contro di te, Hideto. Sei fantastico e sono sicuro che diventerai qualcuno. Ma non chiedermi di sopportare il tuo Tetchan. Quelli come Ogawa non mi piacciono. Non voglio trasformarmi in un ingranaggio alle sue dipendenze.”
Hideto non aveva capito. Si era detto fosse probabilmente troppo stupido o troppo egoista per indossare i panni di un altro, ma non avrebbe mai potuto lamentarsi di Tetsuya, persino quando lo costringeva a fumare in veranda. Ogawa lavorava per tutti e risolveva ogni problema.
Quando erano stati sull’orlo del baratro per il lancio del primo singolo non aveva dormito per settimane, ma se l’era cavata da solo, rendendo nota la situazione solo quando il futuro era già sgombro di nubi. Era quello che aveva sempre desiderato, in fondo, eppure c’era chi non la pensava allo stesso modo.
Ken aveva tratto un profondo sospiro e aveva portato lo sguardo su Tetsuya, che strimpellava il proprio basso seduto in terra, i capelli troppo lunghi raccolti alla base della nuca.
“Siamo nella merda un’altra volta, Tetchan. Non sarà che il tuo nome del cazzo porta pure sfiga?”
Hideto non aveva detto nulla, chiuso nel disagio sordo di una responsabilità inesistente, eppure pienamente avvertita. Pero era una cellula del suo passato e si era ribellata. Aveva avuto l’opportunità di rendersi utile in qualche modo, ma non c’era riuscito. I sogni per cui aveva sacrificato il suo cuore erano in agonia e neppure riusciva ad avvertire il minimo coinvolgimento. Peggio, era quasi felice di possedere una scusa per tornare da lei, tornare al sicuro in una quotidianità senza trucco e senza luci.
Tetsuya aveva fatto il gesto di lanciare il basso a Kitamura, prima di squadrarli in silenzio e tirar fuori l’ennesima soluzione.
Hideto a volte pensava che a Ogawa avrebbe donato un cilindro, perché come un mago materializzava dal nulla la risposta a tutto.
“Quando sono stato a Tokyo l’ultima volta, ho incontrato un tipo molto interessante. Un batterista davvero bravo.”
Ken aveva fatto per accendersi una sigaretta, salvo riporla sotto lo sguardo carico d’odio del bassista.
“Sarebbe?”
“Sakurazawa. Yasunori Sakurazawa.”
“Mai sentito,” aveva commentato Ken.
“Perché sei ignorante. O distratto. O stupido. Ha già inciso, s’è per questo. E ha lavorato con i Dead End.”
Tetsuya aveva un modo tutto suo di catturare l’attenzione: poche frasi. Secche. All’improvviso un sorriso strano, a tratti freddo, degno di chi possiede una verità essenziale e ha poca voglia di dividerla con gli stupidi.
“E ha la nostra età,” aveva aggiunto dopo una piccola pausa, fissandoli poi come per valutare l’effetto.
Ken aveva esclamato un ‘cazzo’ molto partecipe. Hideto aveva sollevato lo sguardo e mormorato distratto: “D’accordo. Ma a noi cosa importa?”
Ogawa lo detestava in momenti come quelli, lo sapeva. Odiava la sua vacuità improvvisa, l’apatia pigra e indifferente che lo attraversava a tratti. Non l’aveva ancora mai visto perdere davvero la pazienza, però, forse perché i suoi sogni gli rubavano una quota di energie ben più significativa.
“Gli ho già inviato le nostre demo, e l’ho invitato a provare con noi. Mi è sembrato piuttosto incuriosito. Potrebbe diventare il nostro nuovo batterista.”
Ken era esploso in un urletto felice e aveva lanciato a Tetsuya un bacio di apprezzamento autentico. Hideto era rimasto immobile, con gli occhi sgranati, sospeso tra sollievo e desolazione. Non c’erano più scuse valide per smettere: per l’ennesima volta esisteva qualcosa che decideva al suo posto, una rete che lo avviluppava e lo trascinava in un sogno che non aveva elaborato, senza che potesse opporsi o tradurvi le proprie illusioni.
“Ma è del Kanto?”
“E allora? Tanto è evidente che qui non possiamo restare. Prima o poi dovremo trasferirci a Tokyo. Tanto vale cominciare dalle basi.”
“No!” aveva quasi gridato Hideto, alzandosi di scatto e percependo come un’onda lontana il rinculo dell’imbarazzo.
No a cosa? Alla musica, al gruppo, a Tokyo? No all’acquiescenza con cui aveva lasciato naufragare persino la storia d’amore della sua vita? No alla scelta dolorosa e inevitabile di una crescita che implicava anche scelte di campo?
Era il primo a non saper qualificare la propria ansia, ma a esserne attraversato in onde successive di ansia e incredulità.
Se n’era andato senza dare spiegazioni, rifugiandosi in un brutto blocco che ancora conservava l’odore di una vecchia felicità e l’impronta fuggevole di un amore abortito.
“Hideto, noi siamo una squadra. E siamo appena all’inizio. Possiamo diventare abbastanza importanti da dettare le regole, ma per cominciare dobbiamo adattarci. Si tratta solo di stringere i denti per un po’. Possiamo farlo. So che lo vuoi anche tu.”
Tetsuya era tornato a cercarlo; poche parole, almeno in apparenza, gli erano state sufficienti per suturare la crepa con cui l’insicurezza gli aveva leso il cuore. Poche parole, in fin dei conti, bastavano sempre a comprarlo.
Aveva accettato di incontrare Sakurazawa. Aveva cantato al meglio delle proprie capacità, forse godendo in fondo al cuore di quello sguardo impenetrabile che si faceva via via più acuto e non lo abbandonava. Si era sentito appagato e grato per l’abbraccio con cui tetsu l’aveva stretto poi, sussurrandogli un ‘Ce l’abbiamo fatta’ che suonava più caldo di un semplice ‘Grazie’. Poi, poco prima che salisse sullo Shinkansen per Tokyo – un borsone con pochi abiti, perché in sala di registrazione era inutile portare haido la bambola – lei si era fatta trovare sulla banchina della stazione, con il suo bel sorriso e una candida sciarpa bianca.
Gliel’aveva avvolta attorno al viso con la tenerezza di sempre, sussurrandogli qualcosa che l’aveva incoraggiato più degli yen di un qualunque ingaggio. “Tokyo è fredda. Ma pensa che ti aspetto,” gli aveva detto. L’aveva baciata tanto a lungo e con un trasporto così assoluto che aveva quasi perso il treno.
Kitamura l’aveva agganciato al collo e trascinato dentro, sogghignando per quell’espressione un po’ ebete e un po’ offesa con cui era rimasto incollato al vetro, a cercare una mano e il filo rosso di un destino che non voleva dimenticare.
Hideto non poteva fare a meno di pensare a quel giorno; alla speranza che si era riaccesa all’improvviso solo per spegnersi altrettanto repentinamente e fargli ancora più male. Gola spiegata in gorgheggi virtuosi, ore e ore di prove, senza il minimo errore, solo stringendo nel cuore l’ansia di riabbracciarla e raccontarle tutto: di quanto fredda davvero e sporca e spaventosa fosse Tokyo, stronza e snob la gente che vi viveva, false le luci e desolante la solitudine che ti stringeva sino a farti male.
Ma quando appena una settimana dopo era tornato a casa, il niente era di nuovo ad aspettarlo, assieme a una lettera che era solo un addio.
Scusami se sono stata tanto vigliacca. Volevo dirtelo quel giorno, ma non mi sembrava giusto per te. O forse avevo solo paura. Mi sposo, con un ragazzo scelto dai miei genitori. Mi vuole bene e mi rispetta. Forse non sono fatta per le stelle. Quelle le lascio a te.
Le aveva spente tutte, invece, per accendergli dentro una rabbia inumana, mutata in quella freddezza codarda con cui un cuore ferito si chiude all’esterno e non dimentica.
Colmo d’odio, sì, e di risentimento purissimo: nei confronti di tetsu che anelava solo a Tokyo, di Ken che non aveva legami e non aveva incubi ed era tanto bravo a suonare e comporre che nessuno gli avrebbe mai imposto di piazzarsi davanti a un microfono e dimenticare l’emozione di un riff. Soprattutto ce l’aveva con quel Sakurazawa, alto, bravo, bello e figlio della città maledetta che gli aveva tolto tutto, senza offrirgli in cambio altro che quello stupido kawaii destinato a un haido che non era lui. Un haido stupido e odioso come il suo riflesso di bambola nello specchio.
Aveva stretto tra le labbra la forcina, strattonando tra le dita i capelli sempre più lunghi, tinti di un rosso chiaro, che conferiva qualcosa di volpino al suo mantello d’ebano. Un giro e un altro giro, per appuntare la prima ciocca. Poi seguiva un largo velo di chiffon bianco, intonato all’abito e ai guanti. Li avrebbe infilati con cautela, ben attento aderissero e non sfiorassero il viso imbiancato dalla cipria. haido nasceva lentamente contro la superficie riflettente, bello di quel suo splendore ambiguo e corrotto, che cozzava con il candore delle sue spoglie più superficiali.
Alla fine di quel rito che officiava solo avrebbe evitato l’ultimo sguardo, per impedire a se stesso di identificarsi con la sposa troppo bella che l’avrebbe irriso dall’altra parte. Una sposa ch’era lui e forse una senpai che ne aveva ragioni ben più consistenti ed emozioni senz’altro più pulite di quelle di un palco in cui chiunque sembrava attendere solo che cambiasse sesso.
Ecco Tokyo: aveva rinunciato all’amore e ora anche al diritto di essere un uomo.
Lungo il vestibolo che l’avrebbe condotto sul palco dell’ennesimo club qualche sguardo obliquo lo raggiungeva sorpreso. Camminava a testa bassa, intimidito, scontroso, muto. Persino tetsu l’aveva rimproverato per quei silenzi esasperanti, le distrazioni studiate e le frecciate che stoccava a Sakura, quasi facesse il possibile per provocarlo, o per definire un fossato che lo isolasse da tutto, persino dai compagni di squadra. Gli aveva risposto con distanza studiata, quasi sgarbata, come mai sino a quel momento. Gli aveva chiesto di fare il leader e non lo psicologo, come faceva il cantante, non l’amico.
Poi, quando srotolava il futon nei pochi metri quadri di un alloggio temporaneo, contava le lacrime che cadevano in terra senza che nessuno potesse raccoglierle, vederle o consolarle, come se fossero altrettanti frammenti di identità e sicurezza e futuro che vedeva stemperarsi nel nulla.

Dune aveva sbancato. Il primo tour era andato tanto bene che ne era stato finanziato subito un altro. Era stato costretto a trasferirsi davvero: una vita in poche scatole e un brutto alloggio a poco prezzo, in una città che continuava a inghiottirlo senza dargli nulla.
Nei corridoi della Danger Crue ora lo conoscevano tutti: era haido. Un grande cantante. Una promessa mantenuta.
Oppure haido-la-sposa. haido-la-troia. haido-davvero-minuscolo. haido-sarà-davvero-un-uomo.
Forse non sapevano neppure che si chiamava Hideto, che moriva di nostalgia ogni giorno, che odiava quel viso così bello che chiunque avrebbe desiderato baciare – non possedere, no. Non era piacevole somigliare ad una donna. Un giorno – era ormai novembre e Tokyo si preparava a una di quelle nevicate squallide con cui si annuncia l’inverno – aveva sfiorato inavvertitamente un’ombra che sapeva di passato e di futuro insieme.
Morrie gli aveva regalato un sorriso enigmatico, quasi animato da un riconoscimento del tutto consapevole, prima di oltrepassarlo e curare le proprie registrazioni. Si era sentito ancora più fuori fuoco e mal centrato in una cornice in cui sembrava il pezzo d’arredo sbagliato, infilato con forza in un’armonia di forme che la sua stessa esistenza spezzava. Volava sotto brutti faretti di luci dozzinali, ma la verità era fosse del tutto privo di equilibrio. Del palco sposava la comoda menzogna di essere diverso, poi si ritrovava sulle scale di un orrendo blocco a guardare il cielo plumbeo e a chiedersi se stava davvero assecondando il destino, oppure tradendo la propria felicità.
Non c’erano risposte; solo una routine fatta di incontri casuali e contatti di comodo e lunghi silenzi. Era arrivato ad amare quasi gli infernali ritmi di prova e registrazione, perché implicavano almeno vedesse qualcosa di diverso da quattro pareti imbiancate e opache come le sue emozioni. In modo intollerabile.
Dita lunghe avevano accarezzato il suo collo per qualche istante, prima di ritrarsi dopo un suo gesto insofferente.

“Scusa?” aveva sibilato polemico. Sakura era indietreggiato di un paio di passi, per quanto fosse evidente che non avesse ragioni per sentirsi minacciato. Non si era mai lamentato con tetsu; al più era stato Ogawa a fargli la morale, a chiedergli d’essere un po’ più gentile e collaborativo, visto che essere compagni di squadra si risolveva in accenti più cordiali dell’indiscutibile ostilità con cui guardava al batterista.
Per quale motivo, poi?
A quel punto Hideto scrollava sempre il capo e negava. Negava sempre. Gli diceva che era una sua impressione. Che non tutti avevano la faccia come il culo di sentirsi subito amichetti. Che aveva problemi ad arrivare alla fine del mese, a non morire di fame.
E di solitudine, ma quello non l’avrebbe mai ammesso.
In ogni caso Sakura non aveva alcun diritto di toccarlo, né di essere gentile, né di provare a fare amicizia. Tanto sapeva cosa pensasse di lui: poteva leggerlo in quegli occhi troppo scuri, di un maschio maschio, senz’altro sorpreso e ilare all’idea di accompagnare la sposa fino all’uscita.
“La cerniera. È solo a metà,” aveva detto senza troppo coinvolgimento. Hideto aveva fatto scorrere le dita lungo la propria schiena, lasciando sfilare il cursore con violenza quasi rabbiosa.
“I vestiti da donna sono una bella seccatura,” aveva detto Sakura con un mezzo sorriso.
“Tanto sono io a metterli, no?” aveva replicato con un tono meno neutro di quello che gli sarebbe piaciuto. In fin dei conti non gli interessava mantenere nulla, non la forma e neppure il minimo sindacabile che la civiltà avrebbe richiesto.
Il successo era la sua umiliazione definitiva; la sua maschera, in fin dei conti, il simulacro di una condanna già data.
L’ansia si era stemperata al primo attacco. Aveva seguito il basso di tetsu con gli occhi chiusi, fingendo di ignorare i risolini offensivi con cui stupide ragazzine credevano di omaggiare la sua essenza, negandola piuttosto fin dalla radice. Il canto era doloroso come un orgasmo: un turbine di sensazioni incoerenti, montate sull’onda trascinante di una passione combusta nel suo zenit.
Hideto annegava nel liquido amniotico in cui haido cresceva più forte e più crudele, fino a spegnere ogni sua sensazione. Fino a estinguersi debolmente: neppure ridotto a pura voce.
Quella, in fin dei conti, era ancora haido.
A Hideto restava un cielo nero, di stelle spente e soluzioni abortite: era la sposa delusa, candida e bella, che accendeva una cherokee sul gradino di una brutta live-house, soffiando nella notte le ultime illusioni.

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > L'arc en ciel (band/solo) / Vai alla pagina dell'autore: Callie_Stephanides