Fanfic su artisti musicali > L'arc en ciel (band/solo)
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Autore: Callie_Stephanides    20/11/2010    0 recensioni
Hideto/haido: il poeta e la sua maschera più collaudata, gli anni duri di Tokyo, le solitudini assassine di una città senza cielo, e un amore svanito nel vento per amore di una voce.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: hyde, Ken, Pero, Sakura, Tetsuya
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Il primo a trasferirsi era stato Kitamura. Dal giorno in cui l’aveva incontrato, Hideto si era detto che Ken avrebbe rappresentato il simbolo di quel che non sarebbe mai stato, o non sarebbe riuscito a diventare: un uomo. Era intelligente e colto, ma non te lo faceva mai pesare. Si concedeva di giocare con il dialetto, perché non era mai a corto di argomenti di conversazione. Era alto, era brillante, era pieno di fidanzate e di amici. Soprattutto, poi, suonava la chitarra come Hideto non sarebbe mai riuscito a fare. Suonava con il cervello, con il cuore, con il pube: era un concentrato di energia e suggestioni. Era un compositore come non ne aveva mai trovati. Restava ad ascoltarlo a bocca aperta, come uno stupido. Quello che era, in fondo.
Da quando i L’Arc~en~ciel si erano costituiti, l’insegna di un’eccellenza in cui avrebbe dovuto credere gli si era ritorta contro: Hideto pensava più che mai di non valere niente. Non aveva l’energia, il pragmatismo e la faccia come il culo con cui Ogawa stabiliva relazioni e contatti. Non aveva il talento di Kitamura, che giocava con le note come faceva con qualunque gatto avesse incontrato per strada. Non il carisma di Sakurazawa, che si faceva vedere e si faceva sentire persino da dietro l’impalcatura dei piatti.
Era haido, d’accordo, ma quando grattavano via il trucco, cosa restava?
Ken se n’era andato da Osaka quasi subito. Non aveva mai parlato di quel che era accaduto dopo che aveva comunicato ai suoi la decisione di abbandonare gli studi. Aveva liquidato la questione con qualche battuta e imbracciato la chitarra. In privato, poi, Tetsuya gli aveva detto che l’avevano buttato fuori di casa. Hideto, che già lo vedeva come un eroe, aveva annuito attonito e pure incredulo: per quanto lontano potessero andare le sue ambizioni era evidente che mai si sarebbero spinte sino allo scardinamento del rispetto parentale.
A Kitamura non sembrava importare; un bel giorno li aveva salutati alla stazione di Osaka, gli aveva pizzicato una guancia e detto: “D’accordo, vado in esplorazione, trovo un buco per tutti e tre e poi ci si vede! Non fate cose zozze mentre non ci sono, perché me ne accorgo!”
Era la fine di agosto. La fine dell’agosto del millenovecentonovantatre. Nei mesi precedenti non avevano fatto altro che scorrazzare dal Kansai al Kanto, cantando ovunque. Più della metà di quello che avevano guadagnato se n’era andata per il furgone che avevano ribattezzato L’ar~car. In un impeto di euforia aveva pure proposto di dipingere un arcobaleno sulla fiancata, finché Sakura e Ken non l’avevano fatto sentire stupido per l’ennesima volta.
“Sembreremmo un’allegra comitiva di froci. Manca solo questo, davvero!”
Solo tetsu, battendogli gentilmente sulla spalla, gli aveva detto di non farci caso. Erano un porco e un gorilla, che non capivano nulla della sua poesia. Si era sentito un po’ meglio, ma ancora il pezzo spaiato di una collezione sbilenca. Non c’era modo d’inserirsi senza sbagliare almeno una volta. Era la sua maledizione, forse.
Ken, in ogni caso, se n’era andato. Sentiva la sua mancanza, in un certo senso. Si chiedeva come sarebbe stato poi: poteva tollerare Tokyo per qualche giorno, non per una vita intera. Infine, una sera, gli era arrivata la telefonata di Kitamura. Aveva trovato tre alloggi in una weekly mansion non troppo lontana dal centro. Non erano granché, ma con un po’ di buona volontà – e tenendo conto di quanto basso fosse l’affitto – potevano accontentarsi. Si aspettava di vederlo presto.
tetsu, invece, aveva ancora conti da regolare a Osaka. Li avrebbe raggiunti poi.
“Non ti preoccupare, Hideto. Tokyo è uno spasso,” gli aveva detto con l’aria di chi non mente. Hideto, però, sapeva che la situazione era più complessa di come la si poteva leggere sulle superfici.
Non era Kitamura: tutto qui.
Del resto, poi, in quelle settimane ch’erano rimasti lontani, Ken e Sakura si erano legati ancora di più. Birre e donne e uscite e battute. Si intendevano alla perfezione; non aveva neppure provato a infilarsi nel mezzo.
Si arricciava nel futon, ascoltava un po’ di musica, disegnava o chiudeva gli occhi, chiedendosi come fare a essere felice, se la situazione lo imponeva e il suo cuore stentava a rendersene conto. Poi, una notte, aveva sognato lei: non come l’aveva conosciuta, ma com’era diventata.
Un’ombra sfocata, desolata, dolorosa. Una macchia che fissava senza riuscire a decifrarne la forma, come se i suoi occhi fossero appannati da una maledetta cataratta. Non aveva carta a portata di mano, così aveva cominciato a scrivere sulla superficie di formica del kotatsu.
Blurry Eyes.
Impressioni e frammenti estemporanei. Ricordi e ansie galleggianti, destinate a espandersi come un tumore dalla superficie al suo cuore.
Blurry Eyes.
Per la prima volta si era sentito un po’ meglio: fissato in quelle parole che gridavano dentro e si perdevano nello sguardo senza sguardo con cui fissava il tramonto troppo rosso di una città estranea.
I giorni, le settimane, i mesi si erano succeduti con una rapidità spaventosa, dandogli l’impressione d’invecchiare e avvizzire senza essere neppure riuscito ad esistere nel frattempo. Si svegliava, a tratti, con il cuore che batteva all’impazzata, schiacciato da ansie opprimenti e senza nome. Accendeva una cherokee, accoccolato a terra davanti a una brutta finestra, pieno di immagini e suggestioni improvvise, che non sapeva neppure più se uscissero dalla follia della solitudine o da una metamorfosi imminente. Avrebbe voluto scambiare due parole con haido, ma quella troia snob gli ricordava solo di radersi bene, perché la pelle del suo viso doveva essere liscia e compatta, al fine di accogliere al meglio la cipria con cui avrebbe dato l’ennesimo colpo di spugna alla sua identità.
Settimane di assenze emotive e sorrisi falsi e pose e atteggiamenti studiati. Non poteva dire non fosse divertente, ma un’ora di gloria erano ventitré rintocchi di un pendolo morto. Scendere dal palco voleva dire tornare in un brutto camerino, fare mattina in uno studio, cadere dal sonno, ma non poter smettere. Senza tregua. Non voleva sentirsi una palla al piede, ma era umiliante realizzare di non saper tenere il passo degli altri.
Ken era inesauribile. Sakura e tetsu, a volte, non dormivano affatto. Solo Hideto finiva con il cercare un angolino in cui sonnecchiare un po’, senza che gli altri se ne accorgessero, ma capitava sempre e ne rideva tutta la Danger Crue.
In quella notte plumbea di dicembre una cherokee si era consumata ancora una volta tra le dita di una sposa delusa, intenta a rovistare nello scrigno dei ricordi alla ricerca di un segno o di un’identità che potesse salvarla dal buio desolato del silenzio. L’unico rumore avvertisse nettamente, per contro, era ancora una volta il battito irregolare del suo cuore, nel silenzio di una notte che moriva con le ultime luci del Penny Lane.
Aveva schiacciato la cicca quasi con rabbia, prima di sollevarsi di nuovo e decidere fosse meglio svegliare Hideto, che mettesse a letto haido e approfittasse della notte per respirare.

Alla fine del dicembre del novantatre erano già tre o quattro le majors che avevano proposto il proprio appoggio al lancio definitivo dell’Iride. Tetsuya ne parlava con il suo entusiasmo dirigenziale, ma Hideto faticava a stargli dietro: era felice della soddisfazione di Ogawa, perché si diceva ch’era in fondo anche un po’ merito suo, ma non aveva ben chiaro quel che sarebbe accaduto. Sicuramente avrebbero avuto più soldi, più impegni, registrazioni vere e persino un appoggio di keyboard, ma si rendeva conto di non essere nato con quel piglio che aveva fatto di tetsu il leader; sembrava, piuttosto, sempre l’Alice di turno nello specchio sbagliato.
Dicevano ch’era parte integrante del suo fascino, perché nessuno, in fin dei conti, si ricordava fosse un ragazzo e il quarto di secolo si appressasse.
La sensazione più vicina a una specie di consapevolezza era stata la leggera punturina che l’aveva staffilato com’era parso evidente che la macchina della grande produzione si era già avviata, stringendogli attorno al collo il suo guinzaglio: non c’erano pause, né vacanze, né la speranza di lasciarsi Tokyo alle spalle. C’era da preparare il debutto, lo stile, l’aura di un gruppo fatto per scalzare dal cielo dell’Oricon chiunque avesse solo provato a opporsi all’Arcobaleno.
Hideto aveva formulato un stentato, poi si era sforzato di non piangere al telefono, quando suo padre l’aveva chiamato per dirgli che non vedevano l’ora di riabbracciarlo per la pausa invernale.
Perché c’erano le vacanze, vero? No. Non c’erano vacanze. Non c’era tregua. Restavano seicento chilometri e l’ombra dolorosa del rimpianto e dell’assenza.
Aveva stretto i denti e finto la sicurezza che non possedeva. Si era detto che se avesse piagnucolato, in fin dei conti, avrebbe dato ragione a quelle perplessità con cui l’avevano sempre guardato, solo perché la natura si era divertita a tirargli lo scherzo infame di una voce illimitata in una piccola conchiglia. Doveva vincere l’ossessione di quella maschera, o non sarebbe mai stato libero. Poi, quando un bel giorno sarebbe definitivamente crollato, arrendendosi all’invincibilità del parassita, avrebbe ripensato a quei giorni in cui si sentiva ancora così piccolo e così fragile, eppure non aveva ancora rinunciato a lottare.

Il Natale di Tokyo era un tappeto di luci ipocrite e abbaglianti; si poteva anzi dire tanto più ipocrite quanto più si divertivano a negare ostinatamente il buio. Sembrava quasi che ci fosse un terrore parossistico e latente per tutto quel che importava il vuoto; era una città che costruiva rubando spazio al cielo persino dove non v’era che un fazzolettino di terra buono al più per la cuccia di un cane.
Tetsuya adorava i grattacieli; erano il simbolo del successo, diceva, perché chi poteva permettersi di vivere sulla testa degli altri era qualcuno che aveva già raggiunto il suo Paradiso.
tetsu era pieno di immagini concrete, a volte quasi grette, ma era un vero uomo e non si faceva distrarre dai sentimentalismi. Non gli importava non tornare a casa, era sicuro che la sua famiglia avrebbe capito e avrebbe anzi apprezzato l’energia con cui permetteva ai suoi sogni di realizzarsi.
Hideto avrebbe voluto dirsi altrettanto, perché in fin dei conti anche i suoi non gli avevano mai fatto mancare appoggio, ma avrebbe preferito averli e sentirli vicini. Quello era l’unico successo potesse interessargli.
Aveva raccolto i pochi effetti personali nella borsa da cui non si separava mai e che insieme a quel suo aspetto così indifeso aumentava a dismisura l’equivoco sessuale – ma non l’aveva mai realizzato.
Qualche fermata della metropolitana e avrebbe raggiunto il centro, si sarebbe confuso con la folla di Shibuya, inventandosi un’identità per una notte e fingendo di dimenticare altrettanti momenti in cui lei, con il suo viso largo e il suo sorriso, l’aveva abbracciato, traendo dal nulla un regalo semplice, eppure bellissimo. Aveva indugiato per qualche momento sulla balconata esterna, sospeso tra il desiderio di coltivare la propria solitudine e quella di bussare a una porta amica, fosse solo per capire se c’erano ancora sentimenti da difendere o a cui donarsi senza schermi. Aveva vinto la vigliaccheria per l’ennesima volta; si era tratto la sua sciarpa bianca sul viso sino a coprirne una buona metà. A testa bassa, mani in tasca, verso la solitudine affollata di un’anonima stazione.
Hideto non era effeminato. Lo sarebbe diventato a breve in modo persino grottesco, sulla scolta degli incentivi della produzione, della pressione dello showbiz, di quella stupida troia di haido e persino della sua debolezza, incapace di porre un freno al meccanismo che l’avrebbe stritolato, ma non lo era allora. Aveva fatto il cameriere, il commesso, scaricava casse di birra per l’Apple: era più forte di Ken e tetsu messi insieme. Forse solo Sakura avrebbe potuto dargli del filo da torcere – perché era un judoka, beninteso, non perché sembrava più maschio di lui. La lacerazione tra la verità e la sua maschera era totale e stridente in modo grottesco e lo autorizzava a ignoranze di comodo. Nessun ragazzo di quasi venticinque anni, del resto, avrebbe tratto lustro dal sembrare una ragazzina di dodici, bellissima, senz’altro, ma falsa in ogni sua piccola cellula. haido era al contempo un’impostura e un atto di volontà: non poteva rendere verisimile l’inganno fino a farsi crescere il seno, ma a nessuno sembrava importare.
Si era fatto una permanente leggera, su suggerimento della produzione – sarebbero arrivati anche boccoli ben più consistenti e acconciature quasi classiche, ma all’epoca non erano che piccole onde su un manto che virava a un rosso cupo, volpino. Contro il candore della sciarpa e del cappotto erano piccoli bioccoli eleganti, che davano al tatto l’impressione di una morbidezza estrema. Era diventato più schivo, però: Hideto non era più il primo ad abbracciare o a farsi abbracciare; ci pensava haido e solo sul palco, altrimenti chiunque si sarebbe sentito autorizzato a pensar male di lui.
Parlavano già abbastanza, in fin dei conti, da quando Kiyoharu l’aveva baciato davanti a tutti, con la lingua. Faticava ad ammettere con se stesso fosse stato uno dei suoi baci migliori, ma l’imbarazzo e un po’ di schifo non si erano stemperati comunque.
Somigliare a una donna non implicava affatto esserlo: Hideto rifletteva su quest’inevitabile verità a capo chino, lasciando che la memoria lo riportasse ai tempi della Matsue, quando un Tetchan che non era Ogawa lo sbeffeggiava davanti a tutti, perché si permetteva un amore innocente per una bambina che non era femminile un decimo di quanto non lo fosse il suo riflesso nello specchio.
Le maledizioni ti colpiscono alla nascita e puoi esorcizzarle solo morendo, aveva pensato quando era diventato abbastanza adulto da verbalizzare le proprie impressioni: una ferita che non si sarebbe più rimarginata e gli avrebbe lasciato dentro l’ombra di un’ossessione sinistra per la falce che, sola, avrebbe potuto liberarlo.
La folla sciamava ai suoi fianchi. Impiegati nei loro tristi completi e office-ladies dalle pettinature austere si confondevano con le belle ragazze di Shibuya, con le loro divise prestigiose e le gambe lunghe di chi già immagina di arrivare lontano. Schermi al plasma trasmettevano senza soluzione di continuità CM e idols, mentre dal cielo, lenta e inesorabile come una promessa esaudita, la neve scendeva con la sua quieta maestà. Aveva teso la mano e ne aveva raccolto qualche fiocco, pensando somigliassero alle illusioni, e come le illusioni di spegnevano in un nulla.
Si era incamminato in direzione della Yamanote quando qualcuno l’aveva strattonato per un lembo della sciarpa. Si era irrigidito immediatamente e aveva impresso più decisione al suo passo, trattenendo il fiato. Non era la prima volta capitasse qualcosa del genere, e in ogni occasione frenare la rabbia irragionevole del momento era tanto doloroso da straziare.
“Ehi, bella! Vogliamo solo farti compagnia.”
Hideto non era bello e desiderava non essere solo, ma aveva la sua dignità e un’identità oltre la maschera che non voleva rinunciare a esistere. Un’identità squallida e umile, forse, ma tutto quello che era dal giorno in cui era nato, piacesse o meno a chi aveva rovinato tutto con la pellicola scadente di un film per esaltati.
Aveva cominciato a correre in direzione della metropolitana, con il fiato corto e una paura strana, che nasceva più dai suoi incubi che dalla situazione. Avrebbe potuto replicare – con il suo timbro più basso e profondo – che non gli interessavano i pervertiti, ma quella soluzione avrebbe forse solo peggiorato le cose; le avrebbe trasformate nell’incubo dei giorni infantili in cui qualcuno cercava di abbassargli i pantaloncini, per capire la sostanza del suo sesso.
Aveva venticinque anni e non era mai stato bravo a fugare le ombre della coscienza; al dunque aveva sempre cercato una via di fuga, una porta concreta o metaforica da spalancare e poco importava si aprisse sull’abisso. Meglio cadere, che soffrire. Meglio persino morire. Forse.
“Che stronza,” aveva detto uno dei suoi inseguitori, stringendo con violenza un lembo della sua sciarpa bianca, ultimo brandello di una mezza felicità. Si era volto per qualche istante, nel tentativo disperato di riafferrarla, ma le sue dita si erano chiuse sul niente, mentre la terra mancava da sotto i suoi piedi.

Yasunori Sakurazawa non aveva mai avuto problemi a relazionarsi con chiunque. Hidetaka, che a tratti gli faceva più da padre che non da fratello, dall’alto dei dieci anni che lo separavano, ne faceva un pretesto per rimproverarlo con una certa veemenza. Persino Yuki se ne lamentava – Yuki che era maggiore solo di un anno, ma amava quel ruolo di vice-madre che aveva sempre vestito con grande trasporto – ricordandogli che a dare corda a chiunque si finiva impiccati. Ma Yasunori – Yacchan come lo chiamavano gli amici, o Sakura, com’era noto da quando era davvero un poppante, eppure già dominava la scena underground di Tokyo – sorrideva e scrollava il capo: era un animale sociale, un panda compagnone che si donava agli altri e ne veniva ricambiato; non c’era nulla che gli sembrasse scorretto fino al punto da suonare deprecabile.
Se proprio doveva lamentare qualcosa, a dirla tutta, quello era la manifesta sconfitta sul fronte haido: era evidente che non gli piacesse per niente, ma ancora non era venuto a capo del problema.
Tetsuya era stato un mediatore gentile, ma non del tutto convincente. Hideto era timido, d’accordo, ma da lì a fare scena muta come se lo ritrovava davanti, dopo mesi che suonavano insieme, ce ne correva abbastanza per preoccuparsene. Aveva lavorato con chiunque, aveva mediato tra le richieste dei tipi più strani, alcuni abbastanza famosi da permettersi pure di essere stronzi impuniti come tutti quelli troppo vicini al cielo per ricordarsi di chi calpestava la terra. Eppure non gli era mai capitato di trovarsi davanti un muro di cemento armato – posto pure che doveva piegarsi a squadra per essere fissato con autentico odio. Ogawa gli aveva suggerito di non forzare i suoi tempi, perché Takarai era un cocco di casa, un pulcino coccolone e guai a chiedergli di fare l’uomo della situazione. Sakura non era del tutto convinto la ragione fosse quella: c’era qualcosa che gli correva sotto la pelle – un brivido, un’idea, una specie di violenza latente – che gli suggeriva tutt’altro.
E poi aveva talento, quello vero; quello che non ti inventi per fortuna o su due piedi, ma con cui nasci, e non importa se hai un accento del sud che rende greve la parlata e quasi buffo ritrovarla in un cosino così.
Quando saliva sul palco era l’epifania di un sogno che li coinvolgeva tutti.
Quel Natale del millenovecentonovantatre Yasunori aveva trascorso una buona metà del pomeriggio a trastullarsi con Kitamura, bevendo birra, parlando di donne e di musica come avrebbe fatto qualunque coetaneo in un giorno noioso di vacanza e lavoro insieme. Ne era uscito a notte inoltrata, fidando sull’indipendenza che gli nasceva da una moto appariscente e costosa, non dall’alea di una metropolitana da sfigati.
Stava fumando la prima seven star della sera, quando si era accorto di Hideto. Camminava come al solito a testa bassa, neppure volesse sembrare più piccolo di quello che era. Non aveva la sua solita sciarpa bianca, però, e a guardarlo bene zoppicava vistosamente, mentre arrancava per la ringhiera del blocco. Gli era andato incontro con indifferenza studiata, tentando per l’ennesima volta di dare l’impressione di quello amichevole, gentile, affidabile, per quanto certi vezzi da bambino piccolo e viziato di Takarai gli suggerissero atteggiamenti assai meno concilianti.
Hideto gli aveva regalato un grugnito stentato, oltrepassandolo e movendosi in direzione del proprio appartamento. Aveva fatto spallucce, proseguendo a propria volta nella direzione opposta e rassegnandosi a un Natale privo di miracoli e sostanziato su quelle che sembravano certezze già date: il vocalist non poteva vederlo.
Per fortuna, a dirla tutta, che la batteria era ben lontana dal fronte del palco!
Era quasi arrivato alla propria moto, quando aveva sentito un rumore sordo, come di colpi ripetuti, affondati con rabbia mal trattenuta, oppure esplosa all’improvviso, con energia insopportabile. Spinto dalla curiosità aveva ripercorso le scale che aveva appena disceso, fermandosi in un punto imprevedibile – e al contempo scontato – dello spazio.
“Scommetto che hai perso le chiavi. Hai provato con la parola magica, prima di prenderla a calci?” aveva detto per celia.
Hideto, per contro, era scivolato in ginocchio davanti a quella porta chiusa e aveva cominciato a piangere con una disperazione tale da spezzarti il cuore.
“Ehi!” gli aveva detto pieno d’imbarazzo, piegandosi su di lui, senza avere però davvero il coraggio di toccarlo, per quella specie di persistente rifiuto che aveva sempre percepito in lui. Infine, nondimeno, si era detto ch’era inutile pensare dove solo il cuore aveva il diritto di dire la sua.
Hideto, in ogni caso, non aveva fatto nulla, solo mormorato, con una tenuità indifesa e carica di dolore insieme: “Quanto odio questo cazzo di posto.”
“Lo so. È per questo che ci siamo noi,” aveva replicato, prima di chiudersi su di lui. Come una conchiglia.

“Non ti preoccupare. Domani mattina andrò a fare la denuncia. Non è successo nulla di irreparabile.”
Hideto aveva pensato che la voce di Tetsuya non gli era parsa mai tanto consolante, come la stretta di quelle braccia e la delicatezza con cui quelle dita scivolavano piano tra i suoi capelli, in una carezza leggera. Aveva medicato con cautela le abrasioni che si era procurato cadendo dalle scale della metropolitana, circondato solo dagli schiamazzi degli stronzi che l’avevano perseguitato e dall’indifferenza di una città troppo ordinata e troppo ordinaria per uno come lui. Gli aveva chiesto persino scusa, visto che continuava a piangere quasi lo stesse scorticando vivo e non bendando una parte delle ferite che la lama della solitudine gli aveva inciso dentro fino a sfigurare il cuore. Forse aveva pianto tutta la notte, arrotolato in un futon che Ken aveva steso per lui proprio vicino al kotatsu – e dunque era caldo e tiepido come quella prova gratuita d’amicizia – svegliandosi con lo stupore intorpidito di chi ha dormito abbastanza per svegliarsi in un altro tempo.
Forse era davvero così, in fin dei conti, perché per la prima volta si era sentito ancora in grado di respirare davvero e non per una specie di brutto riflesso condizionato. Aveva battuto più volte le palpebre, per mettere a fuoco la scena. Nella sua direzione si era mossa una macchia nera dalla fisionomia inequivocabile.
Yasunori aveva un bel sorriso, mentre gli porgeva un’enorme tazza di caffè: un sorriso che non aveva nulla di minaccioso, o derisorio, neppure per quel suo aspetto che doveva suonare tanto malmesso da essere ridicolo, con quei capelli da bambola sciolti lungo le spalle ossute, piccole colline appuntite oltre una t-shirt troppo grande per lui. O il viso un po’ livido come le sue braccia, oltre qualche cerotto di fortuna.
“Forse preferivi tetsu, ma Ogawa ha deciso di terrorizzare la polizia di Tokyo finché non verrà fatta giustizia. Ken, invece, è andato a cercare qualcosa per colazione. Così… Insomma… Sono rimasto solo io.”
Hideto aveva abbassato lo sguardo. “Sono contento,” aveva mormorato imbarazzato, prima che il batterista gli si inginocchiasse davanti e gli sollevasse il mento.
“Fammi guardare Hideto, una volta tanto. È molto più carino di haido,” gli aveva detto con tenerezza non simulata.
Aveva abbassato di nuovo il viso, arrossendo in modo ignominioso e al contempo percependo con nettezza quella verità che l’insicurezza e l’ansia dolorosa di quei mesi gli aveva mangiato.
Le emozioni non erano morte, doveva solo cercarle scollando i bordi di una maschera di comodo, ch’era al contempo emblema di vincita o rinuncia; un dado che solo il banco poteva trarre, agli inizi di una partita dagli esiti imprevedibili.

   
 
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