Litigare con Hideto è impossibile, come impossibile diventa
tenergli il muso. Tetsuya Ogawa regola gli amplificatori con la consumata
esperienza del dilettante scrupoloso e intanto si chiede com’è che sono arrivati
a questo punto: al punto quasi di odiarsi e dirsi verità non proprio gradevoli.
Ma sono verità, poi?
Tetsuya Ogawa non ne è più tanto sicuro, perché in fondo
anche Hideto è sempre pieno di entusiasmo quando c’è da cantare e fare ore di
prove ed è sempre lui a cercare un altro studio quando tutta Osaka sembra piena
di strimpellatori promettenti.
haido non è un lavativo, come gli ha sibilato contro senza
pietà in uno di quei momenti stronzi di scazzo che pure ti prendono, a volte.
Perché Tetsuya sa pure di aver fatto una grossa scommessa che è una brutta
scommessa, visto che chiama in conto il buonsenso. Nel mondo della musica, a ben
vedere, di bluff se ne sono visti tanti, ma mai, probabilmente, uno di queste
dimensioni. Per quanto poi si possa parlare di dimensioni se c’è di mezzo Hideto.
Tetsuya si muove nervoso sul palco e pensa che in questo
momento non vorrebbe proprio essere il leader ed essere il bassista – che dovrà
riempire i vuoti di un dilettante di troppo ai piatti – e magari gli piacerebbe
la coscienza pulita da puttaniere di Ken, che si scola l’ennesima birra offerta
dalla casa – ma sarebbe più giusto dire da una delle cameriere della casa come
anticipo sul resto – e sembra non avere il più piccolo pensiero, la più piccola
preoccupazione, il più piccolo niente. Ken non è affatto uno stupido, ma gli
piacciono gli equilibri superficiali. haido gioca tanto a farlo, ma è così
complicato che non immagina neppure quanto sia difficile stargli dietro.
E non solo perché è daltonico e vede il mondo a modo suo.
Non solo per quello.
Tetsuya Ogawa pensa che forse è stato davvero tutto un errore
e che c’è anche un po’ di crudeltà dietro, perché Hideto ha ragione a dire che è
una farsa pietosa, che non ha per niente voce e che sta male, e non c’è un sogno
che valga la dignità e la salute di qualcun altro. Ma Tetsuya non è meno
orgoglioso di haido e non pensa per niente di avere tutta la colpa. Che Takarai
non fa nemmeno una vita tanto sana, a fumare in continuazione e bere in
continuazione e tirare tardi con la scusa dell’Apple. E poi Hideto non può
neppure avere sempre ragione perché è quello che ci mette la faccia, come dice
lui. Perché è anche haido a volercela mettere, a tutti i costi, e sarà pure
haido quello a diventare più famoso di tutti, se questa strana, surreale impresa
andrà in porto.
A Tetsuya non importa, perché Tetsuya, a differenza di Hideto,
è anche un buon gregario ed è uno che se ne frega della notorietà facile.
Tetsuya è uno che fa il lavoro duro, il lavoro sporco e se può vedere un bel
risultato malgrado tutto si contenta. Sicché haido potrebbe pure smetterla con
le sue lagne da primadonna del cazzo e darsi una mossa, perché la live-house si
sta riempiendo e nessuno pensa di poter ascoltare chissà quale divinità scesa in
terra, solo la solita troietta che si è pure schiarita i capelli, come se quel
suo rossiccio strano e volpino possa farla sembrare più adulta e più porca.
A volte Tetsuya pensa che il daltonismo gli fa fare delle
cose davvero stupide e davvero squallide e davvero comiche, come il fatto che
non voglia portare gli occhiali, pure se sanno tutti che non ci vede nemmeno
benissimo. A volte Tetsuya pensa che l’essere figlio unico, con quel carattere,
l’abbia reso peggiore di quello che già prometteva, perché non conosce nessuno
più vanitoso e più egocentrico di lui. Basta guardarlo mentre si trucca e ci
mette una vita, come se fosse una cazzo di maiko o di geisha di Kyoto e
aspettasse nel suo mondo fluttuante l’Imperatore in persona.
E poi fuma, come se non sapesse che il fumo gli fa schifo e
gli fa schifo anche chi è così debole da cercare in una cherokee una specie di
scudo impenetrabile levato sulle proprie paranoie, sulle proprie fragilità e sul
proprio disperato bisogno di darsi un tono.
Tetsuya pensa che invece di guardarsi tanto allo specchio,
qualche volta, haido dovrebbe darsi un’occhiata dentro e cercare tra le pieghe
del suo egoismo e imparare a guardare anche un po’ meglio gli altri. Capire
quando sono stanchi, esasperati, quando hanno smesso di stupirsi e divertirsi
con il ‘Tetchan, posso venire da te?’ del telefono pubblico; quando sono
incasinati e un ‘Tetchan, sei cattivo’, detto con la vocetta da bambino di
quattro anni non ti fa tenerezza, ma ti fa solo incazzare, perché nella musica
non ci sono i buoni e i cattivi come sulla lavagna delle elementari.
Nella musica ci sono solo quelli che ricordano tutti e quelli
che non conosce mai nessuno, e Tetsuya ha ventiquattro anni e una vita ipotecata
a un sogno che ha sempre più paura di non poter realizzare.
E non è una paura tanto per dire: è il dispiacere autentico
di un ragazzo che sa di essere stato persino più aiutato del previsto dagli
amici e dalla famiglia, ma che al dunque comincia a misurarsi con la paura folle
di restare al palo.
Tetsuya Ogawa controlla per l’ennesima volta l’asta del
microfono e si sforza di ricordare che scarpe si è portato haido, perché senza i
suoi stivaletti con dieci centimetri di tacco non lo vedrebbero neppure quelli
della prima fila. Poi si guarda intorno e pensa che Sakurazawa non la berrà mai:
non si berrà mai la storia della troia con la voce da tenore e neppure la
leggenda dei Lark, perché nessun gruppo decente, forse, suonerebbe a Tokyo in un
simile locale. Perché nessun gruppo decente, probabilmente, litigherebbe
esasperato a un passo dal traguardo.
Tetsuya Ogawa si toglie gli occhiali e lascia che tutto
intorno assuma contorni nebbiosi e tanto sfumati da non fargli neppure ricordare
dove si trova. A volte pensa che sarebbe davvero bello vivere in un mondo così,
privo di linee nette e di spigoli, di risse inutili e questioni di principio che
ti assaltano alle spalle e ti mordono alla gola prima ancora che tu possa
capirlo.
A volte si ricorda di come sognava il mondo da bambino,
assieme a Ken, e a quell’espressione che usa sempre haido per descrivere momenti
come questi, sensazioni così indefinite e visioni indotte da una specie di
miopia che ti salva, per contro, perché sembra ridurre il contrasto tra le cose
e le situazioni e gli esseri umani.
Blurry Eyes. Occhi sfocati, occhi vacui.
Tetsuya Ogawa pensa che forse è solo geloso di haido e che
non ce l’ha neppure per niente con lui. Che lo farà fumare pure sdraiato sotto
il kotatsu per farsi perdonare – magari, però, quando gli sarà passato il
raffreddore, perché Hideto, a volte, è proprio un bambino che non sa badare a se
stesso e ha il bisogno disperato di qualcuno che faccia la voce del padre e del
buonsenso.
haido, però, sa anche essere una donna troppo bella per
essere vera e maledettamente troia, se vuole, con lo sguardo duro e cattivo che
hanno certe femmine dannate sempre troppo sicure di quello che provi e quello
che senti e quello che potrebbero ottenere. Lo pensa anche in questo momento,
perché haido si è deciso finalmente a uscire e le ciocche dense di quei capelli
che gli sfiorano il culo danzano come serpenti impazziti lungo i fianchi
stretti, le anche appuntite e crudeli. Come il suo cuore.
Dal fondo della live-house, tra il brusio generale, poco alla
volta si sente miagolare il suo nome, come se fosse l’incarnazione di una
qualche divinità finalmente decisa a concedere udienza. Tetsuya Ogawa torna a
cancellare i propositi migliori e le strategie di pace e persino le blandizie di
circostanza, perché quell’aria da attricetta tradita sul viso da kokeshi di
haido gli dà i nervi. Tetsuya Ogawa si trova quasi a sperare che sia un fiasco e
che non piaccia per niente a Sakurazawa, che la trovi anzi rozza e dozzinale
come donna, abbastanza da umiliarlo e restituirlo a quello che era, forse,
qualche secolo fa. Ma dalla parete di destra, poco a poco, un’ombra si stacca
dalle altre e si fa avanti.
Tetsuya indossa di nuovo gli occhiali, mentre Ken raffina gli
ultimi accordi e gli occhi appannati di haido esplorano il terreno di caccia.
L’ombra prima indistinguibile diventa consistente e Tetsuya si sorprende per la
forza con cui il suo cuore batte alla vista di Sakurazawa e pensa che è proprio
kakkoi e sexy e che ha l’aria giusta per la musica che gli piacerebbe fare. Lo
pensa anche haido, però, che ha seguito il sussulto del suo mento e ora fissa
Yasunori come se fosse la preda più grassa del mucchio. Sakura è impenetrabile,
ma qualcosa nel suo sguardo ti dice che non staccherà per un solo secondo la
propria attenzione dal vocalist.
Ed è quanto sollecita peggio l’ego da troia di Hideto.
Tetsuya lo sa, e all’improvviso non comprende se è rimorso o
gelosia quello che strappa brandelli del suo cuore e del suo orgoglio, mentre
Hideto piega le labbra nella smorfia cattiva che ha sempre quando sta per tirare
fuori la lingua e cominciare il gioco più pericoloso del mondo.
Sakurazawa resta a braccia conserte e non si scompone per
nulla, neppure quando haido comincia a ondeggiare sugli arpeggi di Ken e a fare
l’amore come se l’asta del microfono fosse lo stelo del fiore della corruzione e
del peccato.
Quando lo bacia, però, sfiorandolo appena con le sue labbra
troppo rosse, Yasunori abbassa le palpebre e forse, senza darlo a vedere,
comincia a sudare.
Ken Kitamura si domandava davvero se essere l’unico ad aver
fatto l’università e ad aver provato pure l’ebbrezza di scappare da un sogno
meraviglioso – ma da geek fissati – fosse la ragione intrinseca per cui
ancora riusciva a vedere il confine neppure troppo labile tra la musica e una
ripicca da prima elementare. Perché quella che pendeva tra haido e Tetchan era
troppo squallida e inconsistente persino per essere definita una questione di
principio.
Che principi volevi trovare in una successione di musi lunghi
e silenzi inquietanti?
Ken Kitamura non si sentiva perfetto e neppure aveva voglia
di fare il padre di nessuno, ma rispetto a simili situazioni il provare una
compiaciuta superiorità era l’effetto più fisiologico. Tetsuya ci avrebbe
rimesso il sistema nervoso, prima o poi, e haido gli sarebbe andato dietro,
perché Hideto era una zoccola con il vocione, in buona sostanza, ma della vita
non sapeva abbastanza per fare a meno delle coccole di mamma a Wakayama.
Comunque fosse, Ken Kitamura socchiudeva gli occhi, concentrava tutta la propria
energia nelle dita e si sforzava di offrire il massimo, con l’intensità e la
dedizione e la voglia di abbandonare quei piccoli locali da piccole ambizioni e
volare alto fino a una Capitale per cui già aveva mollato gli ormeggi del
proprio equilibrio e di una famiglia rassicurante.
I vibrati alti e potenti. I bassi armoniosi. I virtuosismi
contenuti entro le maglie di un’impalcatura ritmica europea, di sezioni auree e
picchi incendiari.
Ken Kitamura era pieno di ritmo e di sogni non meno brillanti
di quelli di Tetsuya e haido, ma aveva un modo diverso per arrivare a sfiorarli,
senza esaurirsi nel frattempo, eppure sapeva giocare pulito e darsi al massimo
per coprire le fragilità di quell’ambizione che non poteva volare se non nella
sintesi perfetta della loro voglia e dei loro doni.
E Hideto era salito sul palco che aveva più di trentanove di
febbre, con la stupida sicurezza dei momenti migliori e con quell’orgoglio del
cazzo che neppure un muro avrebbe scalfito. Neppure se avesse replicato la sua
antologica musata. No.
‘Sarò solo più caldo, Kenchan. E vi farò sciogliere.’
E Tetsuya l’aveva capito troppo tardi e ora guardava più il
vocalist che il suo basso, forse roso dal rimorso o dall’interesse, ma non
dall’unico tarlo che avrebbe potuto suggerirgli le scelte giuste, quelle del
buonsenso e delle note autentiche.
E Sakurazawa era uno che fissava tutto con troppa attenzione,
senza concederti di fare altrettanto e lasciandoti la sgradevole impressione
nella sua vetrina tu fossi un pesce rosso di scarto.
Ken Kitamura chiudeva gli occhi e ci dava dentro, sforzandosi
di sentire solo la forza dello spartito entrargli nel corpo, eruttargli dalle
dita e incollarsi alle corde come il miele vischioso che segue gli undici minuti
migliori della vita di un uomo. Lo faceva per se stesso e per quello che voleva
diventare: nell’arco teso verso l’assedio del cielo, la chitarra, in fin dei
conti, era una delle chiavi di volta.
Tetsuya Ogawa visse le ultime note del riff di Ken, in
chiusura della prima parte dell’esibizione, come il countdown della liberazione.
Ammesso e non concesso avesse la stoffa del leader, non aveva di sicuro quella
del boia, e se haido fosse stato un’ora di più sotto i riflettori avrebbe smesso
di impensierire i contemporanei con l’ambiguità della sua faccia per presentare
il problema al Padreterno.
Ammesso ci fosse.
Tetsuya Ogawa non ricordava nemmeno più bene cosa diavolo
comprendesse la loro scaletta, perché le sue dita e il suo cervello obbedivano
agli automatismi di uno spettacolo ripetuto troppo spesso, ma poteva solo
sperare avessero depennato qualcosa, perché c’erano di solito pure tre o quattro
cover dei Gas Tank, ed era su quelle che haido si giocava davvero le corde
vocali, anche quando non era per niente nelle condizioni di farlo.
Si era volto nella sua direzione, ringraziando il microfono
che l’aveva tenuto in piedi, e il carattere infernale e orgoglioso che gli
ossigenava il petto, ma Hideto era Hideto ed era anche un cretino di prima
categoria. Non si accorgeva mai di quando il gioco era finito ed era ora di
mettere il punto alle idiozie e alle ripicche facili; non si accorgeva neppure
di quando uno tentava disperatamente di far pace. L’aveva visto anzi scrollare
con indolenza i capelli, regalare mugolii e smorfiette a un pubblico già in
delirio, e scendere dal palco con un salto leggero. Diretto verso Sakurazawa.
Tetsuya Ogawa aveva fissato senza batter ciglio il sorriso
con cui Yasunori aveva accolto quell’iniziativa, ma quando haido si era lasciato
palpare il culo e si era spinto sulle punte per baciarlo in bocca, aveva pensato
davvero fosse una piccola troia bugiarda che avrebbe dovuto lasciar morire di
freddo un secolo prima, senza alcun rimorso e senza sentirsi neppure dalla parte
del torto, perché Hideto era proprio così: una banderuola – e si piegava sempre
dove soffiava il vento migliore, tradendo chiunque avesse provato a fidarsi, a
volergli un po’ di bene, o avesse solo tentato di camminargli accanto senza
troppe pretese.
Hideto è troppo caldo, ma ha freddo da morire. Darebbe
qualunque cosa, in questo momento, per essere a casa, nel suo letto, sotto due
piumoni, a leggere un racconto dell’orrore da farsela addosso, o a dormire. Si
dà un’alternativa, perché sa benissimo che neppure la seguirebbe: vorrebbe
chiudere gli occhi e basta. Ha la gola in fiamme e la testa che gli scoppia. Le
note gli rimbombano dentro fino a fargli montare una nausea tremenda. In verità
ha già vomitato un po’ prima di salire sul palco e si è dovuto ritoccare il
rossetto. Ovviamente Ogawa lo ha guardato male perché ci aveva messo così tanto,
quando poteva pure prendersi il disturbo di accorgersi un attimo di quanto tese
fossero ancora le vene del suo collo pallido e sottile, per evitare di sparargli
sempre e solo addosso.
Hideto si sente molto meno sicuro di quando era seduto
davanti allo specchio e il mondo era ancora nitido e fermo, non una specie di
bolla ondeggiante in cui tenersi in equilibrio era tanto difficile da confidarlo
al microfono. Ma Hideto si ricorda benissimo che Tetchan gli ha già dato del
lavativo e di quello che si lamenta sempre per tutto, per questo non gli darà la
soddisfazione di rinfacciarglielo in questo caso, per quanto male possa stare
per davvero. Anzi Hideto pensa che deve fargliela proprio pagare, tirando fuori
il meglio del suo repertorio e facendogli capire che tutti sono utili, ma
nessuno indispensabile, tranne haido.
Il mondo gira. In ogni senso.
Quasi cade per scendere dal palco, ma è sempre abile nel
simulare una mossa leziosa, un inchino carino, una disattenzione da attrice.
Sakurazawa è persino meglio di come l’immaginava: non è solo kakkoi, è anche
bello, così fastidiosamente maschio e bello che Hideto prova dentro una puntura
dolorosa di fastidio, di rivalità e di invidia, perché pensa che se fosse così
alto allora forse non avrebbe il bisogno di conciarsi da bambola e nessuno si
azzarderebbe a gridargli ‘kawaii’. Hideto combatte da una vita contro quella
parola stupida. Hideto vorrebbe essere kakkoi come questo Yasunori di Tokyo,
alto, bello, muscoloso, maschio e figo come se fosse appena uscito da un manga
di Hôjô. Invece Sakura lo guarda come se fosse davvero la stupida troietta che
vede anche Tetsuya e la fatica e l’agonia di quel ruolo lo fagocitano un’altra
volta, perché in fin dei conti Hideto Takarai dipende più dalla sua faccia e da
quel kawaii che dalla sua voce potente, e non è tanto stupido da non rendersene
conto.
Però gli fa male.
Gli fa tanto male che potrebbe piangere davvero per una
verità così stupida, come da piccolo piangeva e si strappava di dosso i pizzi da
bambina con cui sua madre placava un vuoto solo per dilatare il suo. Poi haido
prende di nuovo il sopravvento sui ricordi fastidiosi con la sua asessuata
lussuria, gratta via l’ultima briciola di buonsenso, e persino il dolore della
gola che brucia, brucia e gli fa pensare a un miliardo di parassiti intenti a
divorargli la laringe e l’unica cosa autentica e bella possieda.
La voce.
Sbatte le palpebre più volte, un po’ vinto dall’imbarazzo, un
po’ dal sonno che gli sta cadendo addosso, un po’ dalla nausea, un po’ dalla
noia. Imposta la voce sulle sue note più alte. Avrà un suono rauco e cupo, ma
non sgradevole. Potrebbe passare davvero per una ragazza che ha i toni di un
basso. Sakura gli lascia scivolare la mano dietro la schiena, lungo i capelli,
fino al culo. Ora avrà la certezza che quei capelli non sono una parrucca e che
non porta biancheria, quando ha addosso quei due veli di lino bianco. Sarà
eccitato e convinto a dovere.
Hideto pensa che è davvero un peccato non essere una donna,
perché se fosse stato davvero una ragazza tutto sarebbe stato facile, naturale e
giusto.
“Sakurazawa Yasunori,” scandisce, con la sua bella voce e
l’accento pulito, neppure goda a sbattergli in faccia che è di Tokyo e non deve
travestirsi da troia, lui, per avere tutti i diritti del mondo.
‘Volevi la troia, Tetchan. Ecco la troia. Eccoti la troia,
Tetsuya.’
Hideto socchiude gli occhi resi più liquidi dalla febbre e si
sporge sull’ultimo arrivato in punta di piedi. Sakura dilata un poco le
distanze, perché non siamo nella Birmingham dei sogni di papà Takarai, ma a
Osaka, in Giappone, e a Osaka, in Giappone, un ragazzo può travestirsi e fare la
troia, come può travestirsi e battere a Shinjuku ni-chome, solo che a quel punto
diventa del tutto invisibile. E siccome siamo a Osaka e non a Birmingham o a
Liverpool, un ragazzo giapponese, anche se viene da Tokyo, arretra stupito
davanti a una ragazza così intraprendente, così smaliziata, così priva di freni.
Forse pensa che non è neppure un grosso limite il fatto che non abbia seno per
niente, perché non le manca tutto il resto, ma rimane comunque stupito.
Come quando Hideto si decide a presentarsi e gli scocca un
‘haido’ indimenticabile, solo che anziché porgergli la mano, gli incatena la
lingua: e Sakura non ha niente in contrario.
Non smette di guardarlo, per non spezzare il gioco più antico
del mondo – quello dell’attrazione. Sakura ci sa fare e non si fa intimidire
dalle situazioni; gli passa le dita contro le sue labbra troppo calde.
“Questo rossetto non ti sta bene. È troppo scuro per te,”
dice con l’essenzialità consumata di chi è abituato a lusingare e a umiliare una
donna.
haido replica con una smorfia buffa e dice qualcosa sul suo
daltonismo. Sakura accende una Seven Star, poi si accorge del suo sguardo.
“Offri?” miagola Hideto e Yasunori sembra quasi divertito da
questa ragazzina probabilmente minorenne, che canta come un demonio e ha tutti i
vizi del mondo.
haido respira con cautela, ma il catrame gratta la gola fin
quasi a farlo piangere. Non dovrebbe fumare in queste condizioni. Non dovrebbe
trovarsi neppure lì, eppure si sta facendo trascinare da una deriva che non ha
nome. Prima o poi scriverà qualcosa su questa marea disperata, ne è sicuro. Se
avesse con sé il suo blocco, già saprebbe come iniziare. ‘I lose control’,
perché è così che si sente. Senza controllo e senza speranza. Male, insomma.
Proprio male.
Sicché ci beve dietro qualcosa di cui neppure sente il
sapore, perché metà ne lascia sulla lingua di quell’altro e metà dentro un cesso
in cui arriva a stento. Vorrebbe dare la colpa a Tetsuya, ma quasi neppure
ricorda come siano arrivati a questo punto e in fondo, forse, è colpa sua.
Probabilmente quel muro ha procurato danni permanenti pure al
suo cervello.
Si cerca nello specchio. Umetta l’indice e raccoglie
frammenti di trucco disfatto. haido è una maschera quasi distrutta, ma sembra
quasi più bello. C’è qualcosa di selvaggio nei suoi occhi e quel qualcosa viene
fuori nei momenti peggiori, più impensati o più strani.
Sakura sta chiacchierando con due tipe appariscenti, un po’
ganguro di periferia, un po’ pacchiane, ma fa quasi piacere vedere la luce
ironica con cui le liquida quando appare di nuovo all’orizzonte.
“Torno a cantare. Tu non mi tradire,” miagola haido. Sakura
ride e cerca ancora le sue labbra. haido lo ferma e lo incatena con i suoi occhi
da strega.
“Ti sei mangiato tutto il mio rossetto.”
“Sei più bella senza trucco.”
haido ride e piange dentro di sé e pensa che questo è proprio
un dialogo da shojo manga di quelli che piacciono tanto alle sorelle racchie di
casa Ogawa. Anzi, peggio, sarebbe pure uno shounen-ai, perché Tetchan nella
parte del cornuto geloso sembra perfetto, stando a come lo fissa e sembra voglia
ucciderlo.
haido pensa che gli sta bene, ma è un po’ triste lo stesso.
Pensa che alla fine di questa storia forse avrà perso del tutto la voce e il suo
migliore amico e il rispetto per se stesso, sicché il controllo, ‘fanculo, è
proprio l’ultima cosa che gli interessi.
E poi avrebbe davvero bisogno di dormire per un anno intero,
a questo punto.