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Autore: Shichan    05/12/2010    7 recensioni
Non poteva fare altro che tentare il tutto per tutto: si sdraiò sul pavimento composto da tatami e strisciò fino a sistemare la testa praticamente sulle gambe del ragazzino. Il quale, avendo lo sguardo in parte abbassato per leggere il libro, si ritrovò – involontariamente, ma questo Dino non poteva saperlo – a rivolgergli un'occhiata. Piccola attenzione che fu più che sufficiente per far incurvare le labbra del biondo in un sorriso felice e soddisfatto.
«Finalmente mi hai...»
«Smetti di disturbarmi.» commentò laconico il moro lasciando la presa sul libro e facendolo cadere – seppur non da chissà quale altezza – sul viso del biondo.

[D18; rating giallo per accenni del tipo: "ah, sì, è successo che..." XD]
Genere: Fluff, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Dino Cavallone, Kyoya Hibari
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Disclaimer: i personaggi sono di Amano Akira, il divertimento sadico invece è il mio 8D

Disclaimer: i personaggi sono di Amano Akira, il divertimento sadico invece è il mio 8D

Genere: what if?, nato dalla mia mente contorta che ha fatto il ragionamento “Dino sa il giapponese” > Dino deve averlo imparato da bambino > E se fosse andato in Giappone e avesse incontrato Kyoya?

Nota: la prima D18 dopo appena due settimane di scoperta della coppia, finora sempre ignorata praticamente XD Perciò siate pure crudeli con i commenti all'IC <3

Dedica: ad Alex e Lita, che sono due maledette e mi hanno convertita alla coppia. Spero vi possa piacere <3

 

 

 

Sai Kyoya...

credo di aver sognato un ricordo di quand'ero bambino.

 

 

«Romario, Romario! Quello è il monte con il nome buffo!» sentì pronunciare mentre guidava, gli occhi fissi sulla strada. Ciò non gli impedì di sorridere divertito dall'ingenuità dell'affermazione, tipica di un bambino.

«Questo è il monte più famoso del Giappone, non prenderlo in giro Dino.» lo richiamò suo padre, seduto sul sedile anteriore del passeggero, il tono morbido di un rimprovero bonario.

Suo figlio Dino, zazzera bionda scompigliata e sguardo animato dalla curiosità per un posto mai visto, doveva aver colto sì e no – con molta fortuna – due parole di tutta la frase.

Si allontanò dal finestrino, sistemandosi nello spazio tra due sedili anteriori, sporgendosi quindi verso il guidatore: «Romario, se abbiamo tempo lo andiamo a visitare?» domandò entusiasta, osservando l'uomo pieno di aspettativa.

Romario sorrise accondiscendente: «Se avremo tempo e il permesso di vostro padre.» acconsentì, nonostante le due condizioni. Probabilmente Dino doveva considerare il permesso del genitore cosa fatta, perché si lasciò cadere all'indietro verso il proprio sedile, un sorriso allegro sulle labbra.

«Dino, ascolta.» ne attirò l'attenzione l'uomo, osservandolo dallo specchietto retrovisore: «La persona da cui stiamo andando è qualcuno con cui devo lavorare. Per te sarà una buona occasione di vedere come la Mafia è diversa in alcune parti del mondo rispetto a come la vedi in Italia.» gli fece presente, mentre il figlio annuiva sebbene impegnatissimo a giochicchiare con qualcosa fra le mani.

I dubbi su quanto fosse opportuno portare un bambino come Dino a contatto con la mafia giapponese c'erano stati, ma a livello istintivo; perché, se ci si pensava razionalmente, Dino era figlio proprio di un mafioso: tuttavia, le riserve più sensate erano state se non fosse magari troppo presto presentarlo ad una mafia straniera, di un Paese lontano e molto diverso dall'Italia che il più piccolo conosceva.

Il padre del biondo, tuttavia, aveva tranquillizzato i suoi uomini. Hibari-san – il capo yakuza che andava ad incontrare – aveva due figli: un primogenito, di due anni più grande di Dino che come quest'ultimo sarebbe succeduto al padre, e un secondogenito più piccolo dell'erede dei Cavallone e che sarebbe stato invece esterno alla questione della successione.

A quel punto, quindi, erano semplicemente partiti.

Il Boss dei Cavallone aveva spiegato – sebbene senza termini duri o brutali – ogni cosa di quel viaggio al figlio, perché questi non cadesse dalle nuvole una volta lì. Ed ora Romario guidava la macchina diretta alla casa di “Hibari-san” come il Boss lo chiamava, senza pronunciare il nome in rispetto dell'usanza giapponese di non rivolgersi con tanta familiarità ad una persona la cui conoscenza era basata su un “rapporto di lavoro”, o qualcosa che certamente vi assomigliava.

Dino mantenne lo sguardo fuori dal finestrino, spostandolo dall'altro lato quando la vettura prese a rallentare fino a fermarsi.

Lo sguardo si riempì di meraviglia di fronte alla casa enorme ed in stile inconfondibilmente orientale, quando il biondo se la ritrovò davanti scendendo dalla macchina.

Furono accolti da due uomini che a Dino ricordarono quelli di casa sua, perché in abiti occidentali: la cosa lo fece sorridere, mentre suo padre rivolgeva ai due qualche parola in giapponese – Dino fu fiero di riconoscere un saluto e il “benvenuto” di quegli uomini!

Allungò una mano a prendere quella di Romario al proprio fianco, come suo padre si era raccomandato di fare. Si mosse seguendo la figura del proprio genitore, sempre qualche passo avanti a lui, che a sua volta veniva guidato dagli uomini di prima per i vari corridoi che – agli occhi curiosi di Dino – sembravano tutti perfettamente identici.

Li fecero accomodare in una stanza ampia e perfettamente arredata; un tavolino spiccava al centro e – dietro di esso – era seduto in posizione tipicamente giapponese un uomo dall'aspetto austero: i capelli nerissimi e lisci, gli occhi scuri e freddi, indossava un kimono maschile invernale adatto alla stagione e teneva la schiena perfettamente dritta. A Dino sembrò molto buffo ma, poiché suo padre si era raccomandato di essere molto rispettoso, non disse nulla e si impegnò a non fare smorfie particolari.

L'uomo chinò il capo verso il Boss dei Cavallone, dandogli il benvenuto a sua volta come poco prima avevano fatto i suoi uomini. Suo padre rispose imitandone la gestualità, presentando quindi suo figlio. Dino, sentendo pronunciare dal padre il proprio nome, chinò a sua volta il capo; nel farlo nascose un sorrisetto divertito: quegli inchini erano strani, sembravano racconti dove c'erano principi e cavalieri che si inchinavano alle dame! - ehi... ma era lui o Hibari-san la dama, in quel caso?

Il giapponese ne parve compiaciuto.

«Vostro figlio?» domandò il Boss italiano all'altro in un giapponese fluido.

«È a lezione, a scuola in questo momento.» riferì l'altro: «Lui non è ancora rientrato.» specificò – cosa che Dino, con il suo giapponese molto elementare, non comprese – lasciando intendere che il secondogenito era invece già rientrato.

Dino perse quasi subito l'attenzione sul discorso, non capendone che poche parole fra le più semplici: probabilmente Hibari-san lo notò, perché gli rivolse un'occhiata per poi spostare lo sguardo su suo padre.

Pronunciò qualcosa verso di lui, che Dino non seppe tradurre ma che intuì non riguardasse lo stesso discorso che i due adulti avevano intrapreso poco prima. Forse fu il tono a suggerirglielo, e il padre che si voltava verso di lui a confermarlo.

«Romario, accompagna Dino nell'altra stanza.» disse il Boss al sottoposto, che eseguì quasi nell'immediato, dopo un congedo rispettoso rivolto al padrone di casa.

 

Dino era stato accompagnato in una stanza che, se non per le dimensioni ridotte, non differiva particolarmente dall'altra.

Ciò che attirò l'attenzione del biondo non fu l'arredamento, né qualche particolare in più rispetto a quella in cui aveva lasciato suo padre e Hibari-san; a stupirlo fu l'inaspettata presenza di un bambino. Ad un primo sguardo si notavano immediatamente le origini giapponesi: i capelli, la cui frangia copriva appena gli occhi scuri, erano neri e lisci come quelli del capofamiglia. Indossava un kimono con, sopra di esso, un indumento in più rispetto al padre – Dino aveva notato che, rispetto all'Italia, in Giappone l'inverno faceva davvero freddo!

Stava seduto compostamente, sfogliando un libro scritto con tutti quei loro simboli strani e non dimostrava più di sette o otto anni: Dino inclinò istintivamente il capo di lato incuriosito, mentre Romario gli faceva cenno di entrare, incoraggiante.

Così fece il biondo, sistemandosi seduto a grambe incrociate – l'altra posizione era un sacco scomoda! - e si prese del tempo per osservare l'altro bambino, ingenuamente in attesa del suo saluto.

Ma nonostante la sua aspettativa, l'altro non proferì parola nemmeno dopo che Romario ebbe lasciato la stanza per tornare dal Boss. Dino pensò inizialmente che il moro stesse studiando, e attese pazientemente. Almeno finché non gli sfuggì uno sbadiglio e con esso arrivò una consapevolezza improvvisa: magari era timido!

«Cosa leggi?» chiese in un giapponese stentato in cui si coglieva perfettamente l'accento straniero, ma tutto sommato comprensibile per l'altro. Tuttavia, Dino pensò di aver sbagliato qualcosa quando non ricevette risposta, né alcun segno di essere stato sentito addirittura.

Forse, pensò, non sente? - fu lo stupido quanto ovvio pensiero che formulò come spiegazione. Ma non si sarebbe arreso! Avrebbe parlato più forte e da più vicino!

«Co-sa leg-gi?» sillabò quindi, scandendo meglio e a voce un pochino più alta dopo essersi avvicinato a lui. Lo sforzo si rivelò presto vano e di nuovo il moro non solo non rispose, ma non batté ciglio. Dino gli rivolse un'occhiata demoralizzata che durò qualche istante, dopo il quale il biondo – testardo – decise di tentare di nuovo.

Se non lo sentiva era un problema, certo, ma se leggeva significava che ci vedeva: magari poteva comunicare a gesti!

Fu così che agitò piano una mano più o meno davanti al suo viso.

Niente.

Gli tirò un lembo della manica del kimono.

Niente.

Non poteva fare altro che tentare il tutto per tutto: si sdraiò sul pavimento composto da tatami e strisciò fino a sistemare la testa praticamente sulle gambe del ragazzino. Il quale, avendo lo sguardo in parte abbassato per leggere il libro, si ritrovò – involontariamente, ma questo Dino non poteva saperlo – a rivolgergli un'occhiata. Piccola attenzione che fu più che sufficiente per far incurvare le labbra del biondo in un sorriso felice e soddisfatto.

«Finalmente mi hai...»

«Smetti di disturbarmi.» commentò laconico il moro lasciando la presa sul libro e facendolo cadere – seppur non da chissà quale altezza – sul viso del biondo.

Il cui commento più sensato fu un: «Awww» dolorante, mentre le mani venivano portate una a spostare il libro, l'altra a massaggiare il naso – con fare esagerato dovuto più alla sorpresa del gesto che altro, sì.

Non si perse comunque d'animo, fissando lo sguardo castano sul moro e tendendogli una mano: «Piacere, io sono Dino Cavallone! Tu come ti chiami?» chiese amichevole, rivolgendogli un sorriso incoraggiante, probabilmente già dimentico della sua teoria sulla sordità dell'altro.

Il più piccolo fissò la mano perplesso, tornando poi al viso del più grande: «Hibari Kyoya.» disse solamente, chinando appena la testa e tornando quindi al suo libro.

Dino non fece in tempo a rallegrarsene, che il moro si richiuse in un silenzio assoluto che durò per tutto il resto del tempo finché Romario non venne a recuperarlo per andare via. Lo seguì dopo aver salutato Kyoya – la cui risposta era stato niente di più di uno sguardo fugace a dire il vero – fino a raggiungere suo padre in macchina per tornare all'albergo dove alloggiavano durante quel loro soggiorno.

Mogio per la mancata conversazione con il ragazzino che lo aveva, a conti fatti, ignorato per la maggior parte del tempo ad eccezione di quella breve presentazione, l'umore di Dino migliorò considerevolmente quando venne a sapere che Hibari-san si sarebbe recato all'albergo dove stavano per parlare nuovamente con suo padre. E che, su richiesta di quest'ultimo aveva acconsentito di buon grado a portare i figli con sé.

Il giorno dopo sarebbe di certo riuscito a fare amicizia con Kyoya!

 

 

Corrugò la fronte in un'espressione che, sul viso da bambino, risultò più buffa che altro.

Romario soffocò un principio di risata divertita in un incurvarsi di labbra semplice, osservando il ragazzino: «Siete così impaziente?» lo prese, a conti fatti, bonariamente in giro con fare quasi paterno, suscitando anche l'ilarità del Boss che doveva aver notato la stessa cosa.

Dino annuì senza minimamente celare l'aspettativa che aveva nell'attesa che Hibari-san e figli arrivassero a fargli visita come era stato deciso il giorno precedente; seduto a gambe incrociate, le dita della mano destra giochicchiavano con il calzino fissandolo come nascondesse una verità mistica.

Il biondo quasi saltò su quando sentì annunciare dall'altra parte dello shoji – erano in un albergo tradizionale, quindi bussare sarebbe stato difficile – una visita; poco dopo entrarono in sequenza Hibari-san e subito dietro di lui Kyoya. Dino notò che l'altro figlio non era presente.

«Mia moglie insiste perché nostro figlio maggiore riceva un'educazione tradizionale dove l'ha ricevuta lei. Saranno quindi lontani per alcuni giorni. Ci scusiamo, e ho portato il nostro secondogenito sperando che possa essere all'altezza del compito di tenere compagnia a vostro figlio. Speriamo inoltre che questo non offenda né voi, Cavallone-san, né Dino-kun.» pronunciò pacatamente il giapponese.

Il Boss italiano annuì, e tradusse una parte del discorso a Dino; se Hibari-san si era aspettato un acconsentire seccato dovette ricredersi quando il biondo assunse un'espressione a dir poco entusiasta.

Biascicò un: «Grazie molte!» sinceramente grato, muovendosi in avanti per poi allungare una mano verso Kyoya, tendendogliela – nella speranza che l'accettasse, pronunciando poi un «Kyoya, Kyoya, andiamo a giocare di là, vieni!»

Il moro non parve particolarmente convinto; sembrò anzi spaesato, ma non si oppose – a Dino sfuggì la presa sulla spalla dell'altro, debole ma significativo messaggio del padre – e lo seguì.

Dino lo guidò nella stanza dove dormiva con il genitore, divisa da quella in cui erano i due uomini, che era ora sgombra dai futon essendo ancora pomeriggio.

Gli fece cenno di sedersi, facendolo lui per primo, sempre a gambe incrociate differentemente dalla posizione corretta che assunse il più piccolo.

«Cosa vuoi fare?» indagò Dino, osservandolo in attesa: tutto quell'entusiasmo si doveva principalmente al fatto che Kyoya era il primo bambino con cui interagiva in Giappone, dov'era stato altrimenti circondato sempre da soli adulti.

«Quello che vuoi.» fu la risposta neutra di Kyoya. Dino fu preso in contropiede dalle sue parole, ma non si perse d'animo: «Non conosco i giochi giapponesi. Quali sono?» domandò curioso. Forse, se avessero fatto dei giochi che il moro conosceva e in cui era bravo, si sarebbe sentito più a suo agio!

Kyoya parve confuso dalla sua domanda, e aggrottò appena le sopracciglia, come se fosse combattuto fra l'accettare la proposta o rifiutare: suo padre però aveva detto molto chiaramente che quegli ospiti erano importanti, e che era già stata una mancanza il non aver fatto presenziare il fratello maggiore di Kyoya. In virtù di ciò – aveva detto suo padre – era importante che Kyoya stesso facesse del suo meglio per rimediare a quell'inconveniente senza contraddire il giovane italiano.

Perciò, alla fine e con un broncio leggero, il moro propose un gioco di carte abbastanza semplice; dopo quasi mezz'ora tuttavia Kyoya borbottò qualcosa che, se l'avesse sentita sua padre dopo tutte le raccomandazioni fatte, gli sarebbe costata una punizione.

All'ennesimo errore di Dino che sembrava dimenticare metà delle regole ogni volta che era il suo turno – e sì che Kyoya aveva impiegato ben dieci minuti a cercare di spiegargliele con parole a lui comprensibili – si lasciò sfuggire uno sbuffo seccato, accompagnato da un: «Ma sei stupido?» un po' brusco per la verità.

Dino questo lo capì perfettamente, e fece un'espressione buffissima a metà fra un broncio e un tentativo di ribattere forse. Tentativo che si risolse in un orgogliosissimo: «Kyoya sei cattivo.» bofonchiato fissandolo per qualche istante e tornando poi alle carte, testardo.

Ad interromperli un'ora dopo – ora in cui Dino aveva smesso di contare le sconfitte clamorose per amor proprio o un principio di esso, probabilmente – fu Romario che rientrava nella loro stanza con un vassoio: su di esso c'erano due tazze belle fumanti, dei piccoli recipienti che contenevano quasi sicuramente zucchero e affini, e una più che generosa porzione di biscotti per entrambi.

Dino alzò il viso, puntando il naso verso l'aria proprio come un cagnolino e annusando. Dopo qualche istante, decretò un: «Latte!» mentre Romario si chinava per poggiare il vassoio sul tavolino vicino ai due ragazzini.

Il biondo si sporse verso la tazza per accertarsi di averne indovinato il contenuto: del latte caldo era in entrambi i contenitori. Avvicinò le mani alla parte superiore in ceramica, quella che scottava meno ma che era piacevolmente calda.

«Aww, è caldo, Kyoya!» esclamò, come a suggerire anche all'altro di fare lo stesso visto il freddo, nonostante l'ambiente interno fosse chiaramente riscaldato. Ma il moro sembrava troppo occupato a decodificare il liquido caldo che doveva fungere da merenda; lo vide storcere il naso poco convinto e lo trovò terribilmente carino.

Forse – si disse Dino – Kyoya non aveva mai preso del latte a merenda? Forse non si usava in Giappone? O magari...?

«...Non mi piacciono le cose che scottano.» borbottò. Dino non poté trattenere un sorriso sincero e intenerito: era come avere un fratellino più piccolo di cui prendersi cura, e per lui era qualcosa di sconosciuto essendo figlio unico.

Lasciò la propria tazza, prendendo quella di Kyoya fra le mani sotto lo sguardo perplesso dell'altro. La portò vicina alle labbra, soffiando sul contenuto con attenzione, per raffreddarlo. Ripeté l'operazione più volte, l'espressione sul volto del moro che si era fatta sorpresa quando aveva compreso l'intento dell'altro. Quel biondo italiano era strano; suo fratello certe cose non le faceva mai e lui, Kyoya, aspettava semplicemente che si freddasse da solo.

«Ecco!» lo riportò alla realtà Dino, porgendogli la tazza incoraggiante.

Kyoya la prese tra le mani, osservandola guardingo ancora per qualche istante, per poi sorseggiarne un po' del contenuto finalmente. Dino lo osservava con aspettativa, studiandone le espressione e si ritenne soddisfatto anche solo dall'assenza di sguardi schifati o versi strani. Il moro fissò qualche secondo il latte e infine spostò la propria attenzione su Dino: «Buono.» borbottò impacciato – così parve al biondo.

Il quale allungò una mano a prendere un biscotto – rigorosamente al cioccolato, eh! - per avvicinarlo al viso dell'altro in un innocente e palese tentativo di imboccarlo.

Kyoya fissò il biscotto come se da un momento all'altro dovessero spuntargli gambe e braccia, ma la giusta temperatura del latte doveva averlo convinto dell'affidabilità di Dino in qualche modo; si sporse quindi in avanti, addentando il biscotto dalla mano del biondo, ritirandosi indietro l'attimo dopo. Quando fu certo che il moro aveva finito tutto il latte nella tazza – lui, Dino, era stato il primo a fare piazza pulita della merenda – allungò nuovamente la mano, stavolta direttamente verso Kyoya.

Arrivò quindi a posarla fra i capelli scuri, che scompigliò appena con un: «Bravo Kyoya! Era buono, vero?» articolò nel suo giapponese fin troppo buffo per un madrelingua, seppur bambino. Ma Kyoya in quel momento era troppo occupato ad imbronciarsi in un leggero ed infantile imbarazzo, per riprendere l'italiano o correggerlo.

 

Dino ci aveva pensato per un sacco di tempo: da quando Kyoya e suo padre, il giorno prima, erano andati via e da quando la mattina si era svegliato.

Quello sarebbe stato l'ultimo giorno in Giappone, dal momento che l'indomani lui, suo padre e Romario sarebbero ripartiti; il Boss dei Cavallone aveva quasi concluso gli accordi per i quali aveva viaggiato fin lì, ed avrebbe concordato il tutto definitivamente quello stesso giorno. Di conseguenza quella sarebbe stata l'ultima occasione di vedere e salutare Kyoya, e neanche a dirlo il biondo si era impuntato sul lasciargli un ricordo bellissimo che durasse fino a quando si sarebbre rivisti – cosa di cui Dino era, ovviamente, convinto.

Aveva pensato e ripensato a cosa fare, alla possibilità di regalargli qualcosa, o ad un gioco italiano da insegnare al moro, ma non aveva ancora trovato la cosa giusta almeno fino a quando non si era quasi fatta ora di andare nuovamente alla casa che li aveva ospitati due giorni prima.

Durante il viaggio in macchina, era stato colto dall'illuminazione; giunti a destinazione, appena Kyoya era rientrato nel suo campo visivo lo aveva praticamente trascinato via – forse con un saluto un po' frettoloso ad Hibari-san, ma non scortese nella sua spontaneità.

«Kyoya, Kyoya!» ne richiamò l'attenzione, come se l'averlo trascinato in giardino non l'avesse attirata abbastanza di per sé; il moro lo fissò dubbioso, ma Dino nell'entusiasmo del momento non gli diede modo di fare domande: «Ho letto una cosa su un libro, voglio provare a farla!» disse, anche se non fu di molto più chiaro.

«...Cos'è?» domandò perplesso il moro, non riuscendo ad immaginare cosa l'altro potesse aver pensato.

Dino, orgogliosamente, rispose: «Costruiamo una capsula del tempo!» in un modo tale che, nel suo immaginario di bambino, Kyoya lo figurò per una manciata di secondi come un cagnolino che stava scodinzolando in attesa che il padrone gli lanciasse la palla per giocare. O un biscottino.

«Una capsula del tempo?» fece eco, osservandolo non troppo convinto.

«Sì! È una scatola, e dentro ci mettiamo delle cose importanti. Poi la chiudiamo, e la apriamo di nuovo fa un po' di tempo!» spiegò, mantenendo lo sguardo entusiasta sul più piccolo. Questi, sebbene avesse capito di cosa si trattasse, sembrava perplesso comunque: «E a che serve?» domandò, ma non nel senso dell'utilizzo vero e proprio.

Sembrava più che non ne vedesse proprio la necessità.

Fu forse l'unica risposta che avrebbe potuto calmare – per non dire demolire – l'allegria del biondo che, spiazzato, si ritrovò a mormorare un impacciato: «Uhm... ricordi... credo.» nemmeno lui sicuro di quello che stava dicendo a quel punto, o che potesse essere una cosa gradita.

Ridacchiò piano: Kyoya era un bambino silenzioso, quindi forse cose come quella non gli piacevano. O magari non gli piaceva proprio lui, Dino, che faceva sempre molto chiasso per cose di poca importanza ai suoi occhi.

«Ma non fa nulla, possiamo anche fare altro.» si affrettò quindi ad aggiungere.

Stava appunto già prendendo in considerazione cosa avrebbero potuto fare, archiviando quella sua iniziale proposta, che si sentì tirare la manica.

Abbassando appena lo sguardo incontrò l'espressione incuriosita di Kyoya, i lineamenti incredibilmente rilassati rispetto alla sua solita espressione – cosa che non aveva mai avuto modo di vedere nei giorni precedenti.

«Voglio fare una capsula del tempo.» asserì, sorprendendo non poco Dino.

Il biondo sorrise felice, forse capendo che Kyoya oltre che per curiosità lo stava forse facendo dopo averlo visto abbattuto all'idea di un  rifiuto.

E come c'era forse da aspettarsi, Dino lo abbracciò: «Grazie Kyoya!» esclamò allegro, scostandosi quasi subito.

«Hai una scatola?» chiese quindi, mettendosi al lavoro per la costruzione della loro capsula. Kyoya annuì, guidandolo in casa alla ricerca dell'oggetto. Trovatolo, lo porse al biondo: «Cosa ci mettiamo?» chiese il più piccolo, osservando l'altro che a quella domanda portò una mano in tasca a cercare qualcosa.

«Ho letto che va bene tutto. Vogliamo metterci dei regali, Kyoya?» domandò a sua volta.

«Dei regali?» fece eco il moro, vedendosi porgere dal biondo qualcosa di colorato che, ad un'occhiata più attenta, si rivelò essere un cioccolatino, la carta lucida e di un colore arancio brillante che lo avvolgeva.

«Te lo regalo.» asserì con un certo orgoglio il biondo, aspettando che l'altro lo prendesse. Così fece Kyoya, osservandolo.

Dopo qualche istante di silenzio si alzò, andando a recuperare chissà cosa; quando tornò da Dino aveva carta e penna in mano. Si poggiò sul primo ripiano disponibile per scrivere, sotto lo sguardo incuriosito di Dino stavolta. Dopo poco gli porse il foglio, sul quale il più grande vide degli ideogrammi di cui non avrebbe saputo dire il significato. Fu Kyoya a chiarirglielo: «Quello è il tuo nome.» spiegò semplicemente, sorprendendo per l'ennesima volta in quella sola mattinata il biondo; il quale fu ancora più stupito di scorgere un leggero rossore sul viso del moro.

Piegò il foglio con cura, e lo posò sul fondo della piccola scatola, invitando poi Kyoya a fare lo stesso con il cioccolatino – non prima di aver riscritto in piccolo il nome di Dino sulla carta, per ricordo appunto.

Chiusero quindi la scatola con cura e cercarono un punto del giardino di casa Hibari dove sotterrarla.

«E ora?» domandò Kyoya quando ebbero finito.

«Tra dieci anni apriamola insieme!» esclamò Dino allegro, allungando il mignolo verso Kyoya e prendendo direttamente quello del moro con il proprio: «È una promessa, eh?»

 

 

Aprì gli occhi lentamente, intontito, e la prima cosa che vide – peraltro senza registrare mentalmente di cosa si trattasse – furono dei capelli scuri.

Sbatté un paio di volte le palpebre, e avvertì anche del calore piuttosto vicino, che identificò in un altro corpo quando – abbassando appena il viso – riconobbe quello di Kyoya placidamente addormentato.

La testa poggiata alla sua spalla, Kyoya dormiva stretto nell'abbraccio del biondo, lo stesso in cui Dino lo aveva accolto dopo la loro prima volta la sera prima, e  dal quale l'altro non sembrava essersi liberato per tutto il tempo in cui entrambi, stanchi, avevano dormito.

Dino arrossì appena, registrando pienamente quanto accaduto la notte passata; per quanto lo rendesse innegabilmente felice, non poteva quasi crederci.

Kyoya adesso era suo, in un senso più intimo di una qualsiasi cotta adolescenziale.

Lo fece sorridere il pensiero di quel sogno strano, di qualcosa che doveva ammettere di aver rimosso e di non ricordare affatto. Sempre ammesso che non fosse uno scherzo della sua mente; ma, se invece si fosse trattato proprio di un ricordo, il primo incontro con Kyoya avrebbe assunto un significato diverso, anche se importante tanto quanto l'averlo incontrato su un tetto di una scuola media per renderlo semplicemente un Guardiano più forte.

Azzardò a muovere ancora un poco la testa per poterlo guardare bene senza rischiare di svegliarlo né sciogliere quell'abbraccio in cui, forse, era lui a stare meglio fra i due; Kyoya non permetteva mai – ok, quasi mai dati i recenti risvolti – a nessuno di vedere un suo lato anche solo vagamente vulnerabile. Non debole, perché di base di Hibari Kyoya avresti potuto dire qualsiasi cosa ma non quello.

Non era lui il tipo che si lasciava abbracciare, che rilassava i lineamenti a quel modo, che dava al proprio silenzio una connotazione placida anziché omicida. Non era lui che dormiva accanto a qualcuno senza preoccuparsi di fare attenzione persino nel sonno ai rumori che lo circondavano – perché alla lunga Dino aveva capito che sì, indubbiamente Kyoya aveva il sonno leggero, ma spesso fingeva di svegliarsi a causa di un rumore per non permettere a nessuno di vederlo dormire.

Probabilmente, aveva poi capito dopo qualche tempo, la considerava una dimostrazione di fiducia e al tempo stesso di quella vulnerabilità alla quale non voleva essere associato.

Istintivamente strinse l'abbraccio: significava che si fidava, almeno di lui, o semplicemente non lo reputava un pericolo?

«Mmhngh.» sentì mormorare e gli venne da ridere, ma si trattenne al meglio: piuttosto osservò Kyoya che, in quel momento, stava aprendo lentamente gli occhi svegliandosi – anche se aveva ormai fatto sua la teoria secondo la quale, a dispetto di quanto avveniva fisicamente, il moro non si svegliasse mentalmente mai prima di un'ora. Abbondante.

Kyoya portò lo sguardo all'altezza di quello di Dino, che per un breve istante pregò come prima cosa di essere riconosciuto: sia mai che lo picchiava perché, troppo assonnato, non inquadrava di chi si trattasse.

Il biondo sorrise, un incurvarsi di labbra dolce che senza dubbio non rivolgeva ad altri che a Kyoya. Il moro non disse nulla, e Dino decise che l'assenza di una tonfata nel letto era un buon segno; si sporse leggermente in avanti, baciandogli scherzosamente la punta del naso: «Buongiorno.» lo salutò, il tono un po' arrochito dal sonno.

Il moro non rispose, limitandosi ad osservarlo per una manciata di secondi prima di sporgersi a sua volta, andando a strusciare – ebbene sì, questo verbo poteva essere applicato anche ad Hibari Kyoya a quanto pareva – contro il collo dell'altro, in un gesto quasi infantile.

E Dino non poté astenersi da un: «Aww.» mezzo sussurrato, al quale seguì uno stringersi dell'abbraccio, addossandosi al moro quasi completamente.

«Sei appiccicoso.» borbottò Kyoya. Dino arrossì – effettivamente erano crollati nel letto, perciò...

«Scusami» pronunciò con tono colpevole: «se vuoi vado a lavarmi e– »

Pugno, seppur leggero, nello stomaco.

«Ahi.» si lamentò, cercando con sguardo interrogativo quello del moro, che però affondò maggiormente la faccia sotto la coperta se possibile: «Cretino, intendevo che mi stai troppo addosso.» borbottò.

Dino fu per qualche istante perplesso e solo dopo, nonostante sapesse che non era consigliabile, si sciolse in una risata leggera e divertita.

«Ma Kyoya, era fraintendibile.» lo prese bonariamente in giro, quasi frastornato dalla felicità data dalla situazione e da cosa li aveva portati ad essa. Il moro non gli diede risposta per diverso tempo, tanto che Dino temette ad un certo punto che si fosse addormentato di nuovo.

A smentirlo fu il moro, che mosse le gambe sfregandole involontariamente contro le sue: «Hai freddo, Kyoya?» domandò con premura, scostandosi appena da lui per cercarne una conferma sul volto piuttosto che una verbale. Il moro scosse la testa, lasciando il più grande perplesso; nel dubbio, tuttavia, Dino portò un braccio a sistemare la coperta sopra di loro, specialmente su Kyoya, assicurandosi che fosse ben coperto – non sapeva se l'altro fosse freddoloso o meno, ma nel dubbio male non avrebbe potuto fargli.

Ripristinò quindi l'abbraccio, con espressione stupidamente soddisfatta.

«Sai Kyoya» prese quindi la parola, senza aspettare una qualsiasi risposta dell'altro che desse segno di aver sentito: «credo di aver sognato un ricordo di quand'ero bambino.» rivelò.

Kyoya non si mosse, né fece sospiri seccati, e Dino lo prese per un via libera.

«Ho sognato di un viaggio che ho fatto in Giappone da bambino insieme a mio padre. Ti ho incontrato – eri un bambino carinissimo! - e abbiamo costruito insieme una capsula del tempo. Solo che non riesco a ricordare in che punto del tuo giardino la sotterravamo nel sogno. Peccato, perché se fosse vero sarebbe carino ritrovarla, non credi?» disse, per poi tacere.

Kyoya alzò appena le spalle: «Se lo dici tu.» fu il suo unico commento, ma il biondo era ormai troppo abituato per sentirsi offeso da quell'atteggiamento che sembrava dare poca importanza alle sue parole.

«Kyoya, mica sarai imbarazzato?» lo prese in giro; l'altro alzò il viso in sua direzione – ahi ahi, pensò Dino – rivolgendogli un sorrisetto strafottente e avvicinandosi fino ad arrivare ad una distanza esigua dal viso dell'altro. Ne sfiorò le labbra, pronunciando un «Ti piacerebbe.» a seguito del quale morse il labbro inferiore.

Per vendetta, ovvio no?

 

Il rumore del getto d'acqua della doccia, data la vicinanza del bagno – comunicante con la loro stanza – riempiva in parte il silenzio che l'assenza di Dino aveva fatto calare lì dove stava Kyoya.

Raggomitolato in un modo tutto suo in quella benedetta coperta che aveva lo stesso odore del biondo, lo sguardo verso il soffitto, non pensava a nulla in particolare.

Mosse la testa per voltare il viso lateralmente, in modo che nel suo campo visivo rientrasse un lato della stanza: parte dei vestiti erano finiti a terra per ovvi motivi, ma la giacca che aveva tolto quando erano rientrati era ben sistemata sullo schienale della sedia che stava in angolo.

Avrebbe decisamente dovuto tenere quell'idiota biondo lontano dall'indumento; era improbabile che accadesse, ma non ci teneva affatto che l'altro trovasse il suo porta documenti e vi trovasse una stupida carta arancione con sopra un nome scritto storto e con calligrafia infantile.

   
 
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