Fanfic su artisti musicali > The Libertines
Ricorda la storia  |      
Autore: emily colburn    01/01/2011    12 recensioni
Tu vivi da poeta, e i poeti non crescono mai veramente.
[Pete Doherty x Nuovo Personaggio.]
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
heee
« he won’t let her out his sight.



La verità è che non c’è molto da dire. Solo che oggi il tempo non passa e forse perché ti ho rivisto e, non lo so, ma qualcuno ha scritto che noi passiamo metà di una vita ad aspettare quello per cui siamo nati, e l’altra metà a ricordare l’esatto istante – un momento, un soffio – in cui abbiamo vissuto questa vita.
Per esempio.
Ho ancora in mente l’odore di pioggia che c’era quel giorno, e il cielo grigio di Londra - quella Londra che è grigia nel cuore -, e le macchine che passavano, e le persone che ridevano, e le foglie che cadevano dagli alberi, foglie stanche, stanche del mondo, stanche di noi, stanca io che neanche mi sono accorta che qualcosa stava cambiando, che c’eri tu, tu di cui non sapevo niente, ma che poi m’è bastato così poco per conoscerti e riconoscermi nell’unico uomo di cui avrei voluto vedere il riflesso negli occhi senza neanche vergognarmi di com’ero, di come sono, delle macchie della mia vita, di tutte le strade mai percorse, rimaste incastrate in angoli di rimpianti, per la paura e non so cos’altro. Tu sei stato la mia rivoluzione.
E ora voglio dirtelo. Che io non lo so perché uno sguardo scateni una tempesta. Davvero, non lo so. Ma per favore, tu sta’ fermo, che a me sembra ancora di averti davanti e, sai cosa?, son i tuoi occhi, son i tuoi occhi che cambiano un mondo intero – e non è che serva cambiare un mondo, mh?, hai cambiato me. Ecco. Io non lo so perché uno sguardo scateni una tempesta. Però, mentre fuori cominciava a piovere - pioggia fredda, pesante, insensata -, ho pensato che avrei fatto di tutto perché continuasse.
Hey, Pete? Eri giù ad Albione con la mente mentre mi guardavi? Giù, giù, giù.
Perché io cercavo di capire da dove tu iniziassi per scattarti quella foto. Però non lo capivo. Eri davanti a me e non ti guardavo sul serio, non riuscivo a trovarti, cercavo di vedere da dove nascevi, da dove veniva il tuo respiro, ma non lo sapevo.
 
Era il 2004. Io lavoravo per NME e tu eri il mio incarico più importante, al momento. Eri quel Pete Doherty che aveva composto Time for Heroes, si drogava tanto da farsi cacciare dalla migliore band di indie rock del millennio, se ne fotteva di tutto e di tutti e fondava i Babyshambles. Diamine se per me non eri un principe dei nembi. (*)
Tu vivevi fuori di testa e dentro ad una canzone.
E io vivevo per come mi volevano gli altri, per come mi avevano cresciuta, perché di paura ne avevo tanta, perché, che ne so, non mi piacevo, mi vedevo tutta sbagliata e forse avevo solo bisogno di crescere, forse è sempre e semplicemente questo, bisogna crescere e andare avanti e riuscire a guardarsi indietro senza chiudere gli occhi, senza cancellare niente, proprio come ci insegnavano a scuola, che gli errori non si cancellano col bianchetto, ma si tagliano con la penna e boh, ecco, io non lo so, forse era solo questo.
Comunque quel giorno t’ho cercato davvero dentro i tuoi occhi. T’ho cercato davvero, perché dovevo capirti, dovevo fare quella foto e una foto non è semplicemente una bella posa, tu messo lì con un gran sorriso e donne nude tutte intorno. Una foto è un istante rubato, un bacio soffiato al vento, è una parola mia arrivata, una bugia mai svelata. È così che io faccio foto. Cerco di imparare da quello che mi sta davanti.
Credo di avertelo chiesto. «Ma dov’è che sei?»
E tu mi hai sorriso. Sembravi un bimbo dall’aria raminga, silenzioso e perso in un mondo troppo veloce. Certe volte durante la notte ti svegliavi che ti mancava il respiro – è troppo, troppo veloce questo mondo.
Tu odi dormire perché perdi attimi. Allora prendevi l’armonica a bocca e ti mettevi a suonare musiche senza basi, che non avevano ritmo, ma erano così belle da entrarti nelle vene e fin dopo anni io ancora me le ricordo, io ancora ce le ho dentro, come tutto di te che non passi senza lasciar traccia. Tu non sei fatto per passare come passi sull’erba. Tu sei fatto per passare come passi sulla neve, cicatrici su un bianco indelebile.
 
«Non mi piacciono le ragazze coi capelli corti.» Eri seduto davanti a me. A dividerci, un tavolo con sopra la mia macchina fotografica e mille parole non dette. Intorno, operatori che lavoravano al set fotografico. Tu sussurravi. Quando parli con le persone, tu non alzi mai la voce. Le tue parole arrivano ovattate. È come se tra te e il mondo intero ci fosse un sipario.
«Sta’ zitto, tu. Ti sto cercando.» Ti ho detto, scavandoti negli occhi.
«Com’è che ti chiami?»
«Emily.»
«Emily tries but misunderstands, she often inclined to borrow somebody's dreams ‘til tomorrow.»
Silenzio.
«Non mi chiedi il mio nome?»
«Ma lo so già il tuo nome, Doherty. E adesso fammi concentrare, sennò questa foto non la faremo mai.»
«Prima mi sa che devi avere la consapevolezza di me.»
«John, ‘sto qua non sta zitto, che facc-?»
«Vieni con me.»
«Scusa?»
«Vieni con me.»
«Hai detto che non ti piacciono le ragazze coi capelli corti.»
«Emily. Vieni con me.»
«Ma tu non hai presente cos’è quella cosa chiamata professionalità?»
«In culo la professionalità.»
 
E niente. Ti sei alzato dalla sedia e mi hai baciata davanti a tutto il set.
 
«You'll lose your mind and play free games for May, see Emily play. Ti va di vederti giocare? Di perdere la testa?»
 
No, ecco. Avrei voluto che quella tempesta che eri tu e i tuoi occhi psichedelici non finisse proprio più.
Perché poi ci sono venuta a giocare con te in quel parco squallido vicino ad Heathrow dove l’erba piena di pioggia si confondeva con il verde delle bottiglie di birra.
E te le ricordi le altalene? Cigolavano che era una meraviglia, ma andavano su. Cazzo, ad un certo punto ho davvero avuto paura che una delle catene s’allentasse facendomi fare un volo lungo non so quanto. Però non è successo. Forse per lo stesso motivo per cui io son venuta via con te dal set, quel giorno. Perché anch’io cigolavo in ogni giuntura, in ogni legame, però volevo andare in alto.
Tu ti chiami Peter per qualcosa.
 
«Perché l’hai fatto?»
«Fatto cosa?»
«Baciarmi. Dirmi di seguirti. Ti rendi conto che ho solo tre giorni per quella maledetta foto?»
«Va bene.»
«Non è una risposta!»
Mi hai guardato e ti ho sentito fin dentro il respiro. Sembravi uscito da un altro mondo. Ad un certo punto, hai abbassato gli occhi e hai preso a giocare con un rosario nero messo al collo.
«Sei religioso?» Ti ho chiesto.
«No. Però mi piace.»
 
Fai sempre e solo quello che ti piace. Non ti senti vincolato da imposizioni o da leggi. Non mi stupirei se decidessi pure il giorno della tua morte.
Alla fin fine, ci sei solo tu su quel palco che è la vita e il resto del mondo è il tuo pubblico, e per quanto possano amarti, nessuno potrà mai capirti – nemmeno io e ti rendi conto di quanto faccia male? – perché c’è uno spesso drappo rosso che ci divide.
Tu vivi da poeta, e i poeti non crescono mai veramente.
Probabilmente per questo tu hai paura del tempo che passa, ma non di lasciare la porta di casa tua aperta, che può entrare chiunque.
 
«Puoi per favore chiudere la fottuta porta? Sai, non è che mi senta molto sicura a dormire così.»
Ma tu canticchiavi sempre: «Panic on the streets of London... »
«Smettila, idiota. Buonanotte.»
«Ti amo.»
 
Sei mesi di pura follia e la fotografia è stata l’inizio della fine o la fine dell’inizio.
Tu che non guardi l’obbiettivo, ma un punto che non ha alcun significato se non per te, e vagabondi per le strade buie come prima di allora ha fatto il popolo eletto di dio Kerouac, portandoti dietro la tua bella donna che è la chitarra.  
È una foto piena di nebbia confusa, come lo sei tu che ti perdi.
Ti perdevi in te, in Baudelaire, nella musica, nella droga e io cercavo di starti dietro perché volevo farlo, perché amavo il modo in cui tu mi guardavi quando tornavi in te, il modo in cui mi sorridevi o mi stringevi o facevi l’amore con me.
Il modo in cui io mi perdevo in te.
In qualche modo, ti amavo.
Come quando mi portavi alle bianche scogliere di Dover cantando gli Smiths – to die by your side is such a havenly way to die -, o tornando dagli studi di registrazione mi compravi la cioccolata ripiena al caramello, come a dirmi: Hey, pensavo a te. O come quando organizzavi serate nel tuo appartamento – è un tale disastro che mi chiedo come abbiano fatto a non cacciarti per tutto questo tempo – e ti mettevi a suonare e invitavi gente, fans, e ad un certo punto ti voltavi verso di me cantando: But if you’ve lost your faith in love and music, the end won’t be long. Non ho mai capito se lo dicevi a me o a te. Però mi guardavi.
 
Oggi te l’ho pure ricordato, questo. Ci siamo incrociati per caso in un Fish and Chips dell’East End ed è stato giusto perché le cose non dette erano troppe.
Mi hai chiesto perché era finita, appunto.
E io ti ho risposto che tu avevi perso la fede nella musica e conseguentemente anche nell’amore, anche in me. E in quel momento mi sono resa conto che anche tu ce l’hai un padrone e te l’ho detto. Che sì, magari avevi ragione tu a dirmi che avevo paura di vivere, ché vivere è un gioco che richiede troppa fatica, però ho ragione anch’io quando ti dico che non sei libero. Tu e la tua dannata droga, Doherty.
Non hai detto più nulla. Mi hai salutata e poi, mentre stavi per uscire con il tuo sacchetto in mano, ti sei voltato e mi hai chiesto: «Le sentivi le farfalle nello stomaco quando mi amavi?»
«Sì.» E sento ancora le cicatrici che le tue mani hanno lasciato sul mio corpo.
«E secondo te le farfalle cosa sentono nello stomaco quando s’innamorano?»
«Non lo so. Ma è meglio non pensarci troppo, altrimenti ne usciamo pazzi.»
 
 
***
 
 
 
 (*) allooora. l’espressione principe dei nembi viene dritta dritta da questa poesia qui di Baudelaire che, per inciso, oltre ad essere uno dei miei amori platonici, lo è anche di Pete:
Come il principe dei nembi
è il Poeta che, avvezzo alla tempesta,
si ride dell'arciere ma esiliato
sulla terra, fra scherni, camminare
non può per le sue ali di gigante.
 
non date la colpa a me, ma agli arctic monkeys e alla loro balaclava che con un semplice verso – il titolo, per l’appunto – mi hanno fatto venire in mente tutta questa cosa qui. è il mio modo di iniziare l’anno e boh, mi andava di farlo con pete doherty, l’ultimo dei poeti maledetti.
 
alle mie sorelle, perché son loro e vattelappesca ho detto tutto;
a cee, perché c’è sempre;
ad eleonora, perché sposerà pete e mi darà un sacco di pass per i backstage.
 
ah, pete, ovviamente non mi appartiene e magari, insomma, di certo non sarei qui.

 

 

  
Leggi le 12 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Fanfic su artisti musicali > The Libertines / Vai alla pagina dell'autore: emily colburn