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Autore: Atharaxis    02/01/2011    1 recensioni
Un bacio sporco, proibito, può far nascere qualcosa che è sempre stato sopito? Possono due anime inquiete, insieme, trovare la loro pace?
Alla ShinRa, esiste ancora l'amore?
Genere: Erotico, Introspettivo, Malinconico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Rufus Shinra, Tseng
Note: nessuna | Avvertimenti: Incompiuta | Contesto: FFVII
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La stanza, sebbene al buio, era rischiarata dalle fluorescenti luci dell’azienda che lavorava a pieno ritmo, ignara di ciò che il suo presidente stesse facendo. Il soffuso chiarore che illuminava i suoi occhi li rendeva ancora più terribili ed ammalianti, come quelli di un variopinto serpente, che striscia voglioso verso la sua preda, aspettando nient’altro che l’attimo giusto per avventarsi su di essa ed iniettarle il suo dolcissimo letale veleno.

Tremavo. Premetti le mani sul muro, d’istinto, indietreggiando, pur sapendo che ovunque mi fossi voltato sarei stato in un vicolo cieco. Era ormai troppo tardi quando mi resi conto che il mio sguardo era fisso su di lui che si avvicinava sempre di più... ancora... ancora, finché non fu davanti al mio viso, con gli occhi socchiusi, il suo respiro leggero sulle mie labbra.

Era questo che mi faceva rabbrividire, la consapevolezza di essere in trappola, ma allo stesso tempo fremevo, eccitato: ero la sua preda, impaurita, ma che non vedeva l’ora di essere divorata, di perdersi nel torpore causato da quel velenoso mortale desiderio.

 

Chiusi gli occhi, ed assaporai per la prima volta le sue labbra. Sapevo che quel bacio era sbagliato: aveva il sapore di qualcosa di sporco, di malsano, di impuro; qualcosa che non sarebbe stato tollerato alla luce del sole. Era sbagliato, eppure capii che da quel singolo istante in cui l’avevo assaggiato, non avrei potuto più farne a meno. Era qualcosa di proibito ed appetitoso, esattamente come lui, colui che solo poteva decidere effettivamente alla Shinra che cosa fosse lecito e cosa meno. Con lui mi stavo macchiando di uno sconcio peccato, di qualcosa di molto più grave che di una dimenticanza sul lavoro, di tutto ciò che io rimproveravo agli altri senza pietà: ma stavo facendo tutto questo col mio presidente, con colui al quale la mia coscienza doveva rendere di conto, oltre che a me stesso. E sapere che lui mi avrebbe condotto a macchiarmi di oscenità, non solo mi metteva l’anima in pace, ma aveva il potere di eccitarmi maledettamente.

Dischiusi le labbra e lasciai che la sua lingua esplorasse la mia bocca, che continuasse ad iniettarmi il suo veleno, perdendo lentamente il mio autocontrollo, sopraffatto.

Sentii le mie mani muoversi senza che io ne avessi veramente il controllo, percorrere la sua schiena e aiutarlo a liberarsi di quell'ingombrante cappotto, che nascondeva la bellezza del suo fisico, giovane e curato. Affondai le dita nei suoi capelli dorati, morbidi e lisci, mentre lasciavo che lui mi sbottonasse la giacca, senza che le nostre labbra si separassero soltanto un secondo: temevo che se per anche un solo attimo avessi perso il contatto con lui la razionalità mi avrebbe fatto vedere improvvisamente quella scena con freddezza, e la vergogna avrebbe cancellato ogni sicurezza dal mio viso per sempre.

 

E fu lui a staccarsi.

 

Lanciò via la mia cravatta, con un impeto di rabbia, e mi spostò con violenza, afferrandomi fra le braccia e costringendo le mie gambe nella direzione che lui desiderava, verso la finestra: avevo intuito che avesse un fisico prestante, ma non lo immaginavo capace di esercitare una simile forza. Nel suo sguardo brillava qualcosa e non capivo le sue intenzioni, ancora una volta. Non c'era niente di scontato in ciò che stavamo facendo: non c'era niente di ovvio, di definito, di dichiarato. Non c'erano parole: c'erano solo i nostri sguardi ed i nostri corpi che facevano ciò che sembrava loro più naturale senza che ci fosse veramente un significato che si potesse attribuire ai nostri gesti. Mi sentii piccolo, stretto fra le sue mani, le sue braccia che pretendevano di guidare i miei movimenti. Mi opposi a quella violenza ma lui continuò con maggior vigore, parendo eccitato dalla mia resistenza.

 

Lasciai che giocasse con me, e sfoderai un sorriso: non avrei ceduto alla sua violenza, ai suoi modi di fare bruschi, non mi sarei sottomesso. Del resto, forse era questo il motivo per cui mi aveva scelto? Chi altro avrebbe potuto convocare per quel gioco perverso? Ovviamente la persona che l'avrebbe fatto divertire maggiormente: non c'è gusto a giocare con i deboli, e nemmeno con gli adulatori servili. Io potevo soddisfarlo, io soltanto, superiore a tutti gli altri, incrollabile.

 

Quello che cercava era nient'altro che un avversario, qualcuno che gli tenesse testa.

 

Non avrebbe potuto chiamare nessun altro che me.

 

Perché è me che desidera, è me che vuole, è me che...

 

Perché?

 

 

Perso in me stesso, d'un tratto vidi solo il suo sguardo perverso irrequieto e spazientito. Fu un attimo e mi ritrovi sbattuto con forza davanti al finestrone del suo ufficio, che dava sull'intero stabilimento. Lui era dietro di me, con le gambe larghe ed i piedi che costringevano i miei per impedirmi di scappare. Il suo petto premeva con forza contro la mia schiena e le sue mani mi percorrevano il corpo, senza riguardo, slacciandomi i bottoni della camicia, velocemente, fino ad arrivare alla mia cintura, e poi...

 

E poi in quel momento, appiccicato com'ero a quel maledetto finestrone, con le luci della ShinRa e tutto quello che era il mio prezioso mondo davanti agli occhi, ebbi paura. Ancora adesso non so precisamente che cosa temevo così tanto: perdere il posto di lavoro? Senza dubbio se qualcuno avesse saputo... Ma chi? Anche se qualcuno ci avesse visto, a chi mi avrebbe denunciato? Al presidente? Ridicolo, vero?

No, non avevo paura di perdere il posto. Era l'orgoglio, quel maledetto orgoglio che mi impediva di prendere le cose così come venivano, di cogliere le occasioni e di agire senza farsi troppe domande che improvvisamente mi fece aver timore di essere solo l'ennesimo strumento nelle sue mani, che avrebbe buttato appena non gli fossi stato più utile. Non volevo essere un debole, un oggetto, un giocattolo. Non volevo che l'incertezza, il dubbio, il desiderio, mi dominassero, e mi scoprii incapace di gestire una situazione che non fosse sotto il mio totale controllo. Paura di soffrire, paura di subire. Paura di distruggere con le proprie mani l'immagine di sé stessi che si è così faticosamente creati. Immaginai la sua risata ed il suo sguardo gelido, la sua gioia nell'avermi sottomesso: era questo che voleva. Fu un attimo, e nel mio cuore non vi fu nient'altro che rabbia.

 

 

Non volevo illudermi. Non volevo nemmeno che iniziasse, per paura della fine.

Lo odiai ancor prima di rendermi conto che ero pazzo di lui.

 

 

Raccolsi tutte le mie forze e mi divincolai fino a liberarmi, spingendolo all'indietro talmente forte che riuscii a scaraventarlo a terra: di sicuro non se l'aspettava perché quando mi girai il suo sguardo era confuso, talmente stupito dalla mia azione da non essere ancora riuscito a sviluppare alcuna reazione. Per un immenso attimo ci guardammo, entrambi sconvolti da quello che avevo fatto.

 

Avevo usato la forza su di lui ma soprattutto l'avevo rifiutato.

  
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