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Autore: 9Pepe4    02/01/2011    4 recensioni
[Jack Frusciante è uscito dal gruppo]
Era a posto, Alex, uno dei pochi ancora in grado di pensare per conto proprio. Dentro aveva una sorta di rabbia, di ribellione, di voglia di estraniarsi dalla folla, cose che Martino capiva benissimo.
E un po’ di vita e speranza in più.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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{Questa non è l’ora di fumare sigarette.

Gli piaceva da schifo, il modo con cui il sole scivolava sul cielo quando arrivava l’ora del tramonto.
Non era, come si sarebbe potuto pensare, roba da ragazzine beneducate che andavano in chiesa la domenica solo per dimostrare la propria purezza.
Era qualcosa di diverso, come mettersi a sognare di prendere a calci sul naso quel Faccia di Merda Liberale che si era sposato con sua madre, e riuscire a sentire davvero lo schiocco del setto che si spaccava e il sangue che inzuppava la sua camicia da uomo per bene.
Era come ricevere tutti quei vinili jazz da quello stronzo e donarli immediatamente ad Alex, per non sentirsi contagiato da quella vomitevole e nauseabonda miscela di buone intenzioni e falsi sentimenti.
Era – Cristo – non sentire più sua madre che, quando ricordava di parlargli e di notare che lui – tu guarda – esisteva, si lamentava perché non mostrava un minimo di riconoscenza per le attenzioni di Faccia di Merda Liberale. (Si lamentava, ma in realtà si vedeva benissimo che non le fregava nulla di come cresceva lui, purché non le desse troppi grattacapi che la distogliessero dal suo mondo perfetto).
Come se non lo sapesse, lui, che quello gli passava un vinile jazz per placare i sensi di colpa che si faceva venire tutto da solo, senza che lui, Martino, muovesse un muscolo per provocarglieli.
Non era interessamento sincero, quello che spingeva quel perbenista a fargli qualche dono. In modo più semplice, il tipo non voleva avere debiti con quanto lo circondava. Semmai, voleva che il mondo gli fosse debitore.
Forse, nella notte, quando non pensava ai propri affari e ai nuovi modi per esibirsi in un pianeta di maschere di vernice, si ripeteva come una filastrocca una frase fatta a puntino: “Un dono al giorno toglie la colpa di torno”.
Gli veniva quasi da ridere, a Martino, quando gli capitava di sentire qualche cavolata sdolcinata sul crepuscolo, qualcosa come il sole che diveniva l’amore che infiammava il cielo con la sua luce pura e inappuntabile.
Non c’azzeccava un cazzo, con robe del genere.
Era più furioso, il tramonto. Il problema era che nessuno lo capiva. Erano tutti teste dure troppo impegnate a fare le pecore per accorgersi che anche il gruppo a volte sbagliava e attraversava con il semaforo rosso.
Probabilmente, però, Alex sarebbe riuscito ad afferrare quello che lui intendeva.
Era a posto, Alex, uno dei pochi ancora in grado di pensare per conto proprio. Dentro aveva una sorta di rabbia, di ribellione, di voglia di estraniarsi dalla folla, cose che Martino capiva benissimo.
E un po’ di vita e speranza in più.
Se lo vedeva, a scrivere con l’uniposca nero in un bagno pubblico il nome di un qualche gruppo furibondo. Se lo vedeva anche fermo in un angolo a sognare la sua Aidi.
Quando faceva così gli sembrava un pulcino, totalmente incapace di stare al mondo. Gli veniva bene anche l’espressione da desolato-sconsolato, anche se dopo un po’, con quell’aria da vittima, iniziava ad infastidirlo.
Per questo voleva fargli capire al più presto quella sua logica di vita.
Basta tentare di omologarsi in una società che non vuole altro che mettere i suoi membri in fila indiana e dipingerli con facce obbedienti e pronti ad annuire. Basta perdere tempo ad impegnarsi per un futuro che forse non arriverà mai, che probabilmente farà terribilmente schifo.
Il presente è qui, il presente è adesso, buttatici dentro e falla finita.
Arraffa tutta la felicità che puoi, non sbatterle la porta in faccia quando arriva a bussare, accoglila a braccia aperte, non cacciare via le risate con un colpo di tosse.
Quando arrivava il tramonto, a Martino dava l’impressione che il sole si fosse rotto le scatole di sorvegliare un gruppo di gente che non faceva altro che mordersi la coda, e se ne volesse andare al più presto.
Una volta o l’altra, avrebbe trovato pure lui il coraggio di balzare una volta per tutte oltre quel limite che la società gli imponeva.
Una sera, quando era con Valentina, l’aveva baciata mentre il sole tramontava. E si era fermato ad ascoltare se succedeva qualcosa, ma in realtà era stato come sempre.
Non si era emozionato, non si era nemmeno sentito un po’ coinvolto, o interessato. Aveva solo prestato orecchio, indifferente, per sentire se serviva qualcosa, a Valentina.
Probabilmente no, non le serviva.
Il tramonto, non si sarebbe mai stancato di ricordarselo, non c’entrava un accidente con i drammi amorosi di adolescenti in patetica crisi ormonale, che si facevano le seghe al buio e parlavano di scopate mai successe alla luce del sole.
Ma gli piaceva da schifo, forse anche perché suo padre non usciva mai, dopo il tramonto.
Non gli piaceva guidare con il buio, a lui. Non gli piaceva passeggiare con la sera che avanzava, a lui.
Alla sera, semplicemente, si spegneva.
Come se una mano invisibile si abbassasse a sfiorare il pulsante che doveva averci sulla schiena e che – clack – stoppava quella dannata batteria che lo faceva muovere durante il giorno come un automa.
Era una burla, affidare qualche pensiero profondo ad un momento del giorno. Non si poteva mai sapere quando lo avrebbe restituito. Probabilmente mai, perché anche i minuti si erano fatti egoisti.
Però, diamine, era impagabile starsene davanti alla finestra aperta mentre il sole tramontava.
Con i capelli che si spettinavano come nei film – anche se più che il vento lì c’entrava lo sconvolgimento profondo in cui lo gettava la fine delle giornate di scuola, quando si rendeva conto che, cazzo, ancora ventiquattrore e non era successo un bel niente – e una mano sullo schienale di una sedia, e i mozziconi di sigaretta che aveva fumato qualche quarto prima che si afflosciavano nel portacenere.
E poi uno sguardo di sbieco al pannello delle foto, dove tanti suoi giorni passati gli restituivano l’occhiata, magari nascosti nell’aria impacciata del bambino di un anno che era stato e che cercava di finire lo yogurt mangiandosi anche il barattolo.
Dopo: avvicinarsi allo stereo e mettere su un cd da ascoltare a pieno volume, magari sentendo le casse vibrare per la potenza del suono, e perdere tempo a non finire, tanto comunque nessuno sarebbe arrivato a cercarlo. Oppure scendere e andare al locale più vicino, o a cercare i compagni con cui fare un salto alla discoteca di turno, o organizzare una serata etilica di quelle fatte per bene.
(Starsene in camera, e farsi cordialmente i cazzi propri, mentre la Signora Madre e il Messere Padre e il Signor Secondo Marito gli ricambiavano gentilmente il favore).
Ma di quali accidentali assurdità ciarlavano, le ragazzine slavate che si raggruppavano durante gli intervalli?
Il tramonto avrebbe avuto il sapore di una rosa, e il colore di un amore appena sbocciato?
Lo sapeva lui, che l’aria al tramonto puzzava come durante il resto del giorno, di smog e di tutti quelle cappe probabilmente dannose per la salute.
E semmai, quelle venature – forse, d’accordo, preferibili al blocco di ghisa che a volte il cielo diventava – che screziavano il celeste malato della volta, ricordavano le striature che restavano sulla pelle dopo che si era sporcata di sangue. Per cancellarle del tutto ci voleva acqua e sapone, perché quel liquido denso lì diventava rappreso in fretta, e allora era difficile lavarlo via.
Il tramonto a Martino piaceva da schifo, ma infondo sapeva che il declino del sole non lo avrebbe mai liberato da niente.



Note:
Questa storia l’avevo scritta il 14 Aprile del 2010. Ritrovandola nella cartella del computer ho deciso di pubblicarla. Va detto che ho tentato di riprodurre al meglio lo stile usato da Brizzi in “Jack Frusciante è uscito dal gruppo”.
  
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